Dirik, Il patriarcato non è naturale

“Qualcuno di voi a scuola ha mai studiato le origini del patriarcato?”, chiede Dilar Dirik, ricercatrice in Sociologia all’università di Cambridge e attivista del Movimento delle Donne Curde. È a Roma di passaggio, per parlare di Donne alla conquista della democrazia, una serie di incontri in giro per l’Italia organizzati da Rete Kurdistan. Una delle nuove (e brutte) Aule Blu della Sapienza è affollata e si muore di caldo. I relatori sono senza microfono. C’è un operatore di Rai News24 che alle prime battute se ne va.

La domanda retorica scivola nel silenzio e allora Dilar cerca di riassumere solo seimila anni di umanità sulla Terra, quando dal lento passaggio dalla specie Habilis a quella “moderna” Sapiens, di mezzo ci fu la scoperta dell’agricoltura e della scrittura, che segnarono l’ultima fase della Preistoria, il Neolitico. Si formarono allora le prime società “moderne” in Mesopotamia, India, Cina… che erano organizzazioni matriarcali, dove le donne svolgevano le funzioni interne, sociali, economiche e politiche, e gli uomini quelle esterne, di sussistenza e difesa. Le società matriarcali del Neolitico annoveravano i primi centri urbani caratterizzati da un alto livello di divisione del lavoro, differenziazione sociale e cultura. I clan si sviluppavano in strutture orizzontali di cooperazione e già si considerava l’importanza della paternità “sociale”, oltre a quella biologica. Anzi, l’enorme prestigio che le donne avevano, derivava probabilmente dal fatto di essere considerate le uniche procreatrici dei membri del gruppo – risalgono a 15mila anni fa le Veneri paleolitiche e i loro “archetipi di fertilità”, i seni e fianchi enfatizzati – prestigio che fu loro tolto proprio dalla scoperta da parte dell’uomo della paternità.

Il culto della Dea Madre in Sardegna: “La divinità primordiale fu femmina, una Dea nata da se stessa, donatrice di vita, dispensatrice di morte e rigeneratrice. Univa in sé la vita e la Natura. Il suo potere era nell’acqua e nella pietra, nei tumuli e nelle caverne, negli animali, uccelli, serpenti, pesci, nelle colline, negli alberi e nei fiori.” Con queste parole, l’archeologa lituana Marija Gimbutas sintetizza la possibilità di reinterpretare la storia che conosciamo, soprattutto per quanto riguarda la sfera religiosa…

“I patriarcati sono società di dominio, ed è un mito che siano universali. Si tratta solamente di un caposaldo dell’ideologia patriarcale. Spiegare la nascita del patriarcato significa spiegare la nascita del dominio, e questo non è affatto un compito facile”, affermò nel 2005 la studiosa di società matriarcali Heide Goettner Abendroth.

“I Sumeri furono i primi a far nascere, in Mesopotamia, la civiltà patriarcale e schiavile, sostituendo progressivamente quella matriarcale ed egualitaria. È vero che fino a quel momento non vi erano sostanziali differenze tra i diritti maschili e quelli femminili, ed è anche vero che subito dopo le differenze a sfavore delle donne si fecero sentire pesantemente”. “Anche nella mitologia”, racconta Dilar “è possibile vedere questo tragico cambiamento: dee che accusano gli uomini di aver rubato il loro potere”. “Il mito delle Amazzoni è un emblematico esempio di società matriacale e conferma anche in Grecia la sua presenza prima dell’arrivo degli Achei. I riti religiosi indicavano un’autonomia della donna a generare la vita, e la paternità non veniva tenuta in nessun conto”.

I processi che portarono a questo ribaltamento dei poteri furono lunghi e complessi, da imputarsi a varie cause, ma di sicuro si verificò un forte cambiamento climatico: la siccità che interessò l’Asia centrale e occidentale 5000 anni prima di Cristo, portò alle prime migrazioni e quindi ai primi attacchi: “la lotta per la sopravvivenza in una terra che diventava sempre più inospitale, deve essere durata per generazioni e alla lunga deve aver portato alla completa distruzione dell’agricoltura matriarcale e all’affermazione della guerra”.

Secondo Dilar “guardare al Neolitico, non significa tornare indietro, ma all’origine della nostra umanità, significa rimettere al primo posto aspetti che nel tempo sono diventati sempre più marginali: l’ecologia, la liberazione della donna, la filosofia… gli stessi pilastri del Confederalismo Democratico” di Abdullah Ocalan, il rivoluzionario turco di origine curda, con 17 anni di carcere alle spalle e un ergastolo all’orizzonte, che nel 2005 dichiarò la formazione ufficiale di una confederazione libera da confini, tra le regioni curde della Turchia, Siria, Iraq e Iran: dunque una Nazione con una sua precisa identità, il Kurdistan, senza uno Stato, cioè delle linee sul mappamondo. E la “Carta del contratto sociale per l’autogestione democratica del Rojava” (Kurdistan occidentale o siriano) è il primo esempio concreto di questa nuova idea sociale e politica che potrebbe vivere e proliferare in altre parti del mondo (“Noi popoli che viviamo nelle Regioni Autonome Democratiche di Afrin, Cizre e Kobane, una confederazione di curdi, arabi, assiri, caldei, turcomanni, armeni e ceceni, liberamente e solennemente proclamiamo e adottiamo questa Carta…”) Donne e uomini di tutti i tipi che fondano insieme una “nuova comunità etica” (e non etnica): “anche i deputati dell’HDP (Partito Democratico del Popolo), che da poco hanno conquistato una fetta del Parlamento turco, sono misti, di ogni Paese e religione”.

Il 18 e 19 marzo 2016 a Roma e in altre città italiane (oltre alla Festa del papà) si festeggia il Capodanno Curdo – Newroz 2016. Quando il 21 Marzo del 612 a.c. il fabbro Kawa liberò il popolo dei Medi dalla tirannide assira, uccidendo il re Dehaq, gli antenati dei curdi erano già stati costretti a rifugiarsi sulle montagne per sfuggire dall’oppressione e schiavitù. Per comunicare ai compagni che erano finalmente liberi, Kawa accese, in cima ad un’imponente montagna, un grande fuoco, che scatenò una catena di fuochi che annunciavano al popolo la libertà. I colori di Kawa, il giallo, il rosso e il verde diventarono così i simboli della bandiera della resistenza mettendo la parola fine al sistema schiavistico assiro. Con la nascita del movimento nazionale curdo alla metà del XIX secolo, il popolo ricorda l’eroismo di Kawa, trasformando il Newroz in una festa nazionale, in cui si rinnova la lotta della gente contro la tirannia, l’oppressione e la schiavitù.

Per comunicare ai compagni che erano finalmente liberi, Kawa accese, in cima ad un’imponente montagna, un grande fuoco, che scatenò una catena di fuochi che annunciavano al popolo la libertà.
I colori di Kawa, il giallo, il rosso e il verde diventarono così i simboli della bandiera della resistenza mettendo la parola fine al sistema schiavistico assiro.
Con la nascita del movimento nazionale curdo alla metà del XIX secolo, il popolo ricorda l’eroismo di Kawa, trasformando il Newroz in una festa nazionale, in cui si rinnova la lotta della gente contro la tirannia, l’oppressione e la schiavitù.

Il confederalismo democratico di sicuro ribalta uno stereotipo consolidato, affermando che “il popolo non ha bisogno dello Stato, è lo Stato ad avere bisogno del popolo”. Secondo Dilar microcircuiti di cooperazione sul territorio, in tutti gli ambiti, sono in grado di soddisfare qualsiasi necessità, è lo Stato che invece ha bisogno di persone da governare, lasciando loro pallide illusioni di democrazia con un potere decisionale sempre meno incisivo. “Il confederalismo fa una critica al socialismo reale e anzitutto a sé stessi, contro lo Stato-Nazione e i suoi corollari, il patriarcato e il capitalismo, per un’eguaglianza di genere, ma solo dopo aver liberato le donne”.

“Nel Rojava abbiamo finalmente dichiarato fuorilegge la poligamia e criminalizzato lo stupro e la violenza domestica. Cosa succede di solito se denunci una violenza? Forse anche in Italia possono succedere cose del genere: l’uomo che ti dice, ma tu vai in giro vestita così, se tu provochi, poi lo sai che succede… allora nelle assemblee popolari abbiamo anche deciso che la polizia e le Corti che intervengono in casi come questi devono essere composte solo da donne”.

Contro l’ideologia del patriarcato è necessario lo studio della Jinealogia, “una nuova scienza delle donne (in curdo Jin significa donna) che smonta il concetto dell’homo oeconomicus (pilastro della razionalità economica occidentale) come attore dominante delle relazioni sociali”: “serve a capire che è lo Stato che crea una innaturale divisione tra chi è soggetto e chi è oggetto”, dice Dilar.

“Libertà significa ritorno alla madre, ma anche questo non si studia”. Verso la fine del XIX secolo fu scoperta una serie di tavolette di pietra di provenienza sumera. Alcune davano notizia di proteste popolari contro un carico fiscale opprimente, onnipresente e crescente. Una parola di queste tavolette, resa con amagi, è considerata il primo riferimento al concetto di libertà in una lingua scritta. Amagi significa letteralmente “ritorno alla madre“.

FOnte