Delegazione internazionale di pace a Imrali 2021: “Non vogliamo più che ci vengano consegnati cadaveri sulla porta di casa”
Noi partecipanti alla Delegazione Internazionale di Pace a Imrali 2021 abbiamo concluso la nostra missione di due giorni in Turchia, tenutasi quest’anno in forma virtuale a causa della pandemia di Covid.
La nostra “visita” si è svolta nel solco delle precedenti delegazioni a Imrali, che negli ultimi anni si sono recate in Turchia per sostenere la riapertura del processo di pace, interrotto bruscamente nel 2015, tra le autorità turche e la leadership curda. I nostri incontri hanno messo in luce molto chiaramente che la precondizione assoluta affinché il processo di pace possa ripartire è la fine dell’isolamento di Abdullah Öcalan nella prigione di Imrali.
Prima di iniziare i nostri incontri abbiamo inviato una richiesta al Ministro della Giustizia turco, Abdulhamit Gül, per chiedere che fosse consentito ai partecipanti alla nostra delegazione di incontrare virtualmente Abdullah Öcalan. Abbiamo anche richiesto un incontro online con il ministro, senza ricevere alcuna risposta.
La nostra indagine ci ha portati a incontrare rappresentanti di organizzazioni per i diritti umani, sindacati, organizzazioni di donne, associazioni di avvocati, organizzazioni in solidarietà con i prigionieri, partiti politici e rappresentanti del team di legali che difende Abdullah Öcalan.
A tempo debito la nostra delegazione pubblicherà un rapporto che intende restituire un quadro esaustivo di quanto emerso negli incontri, ma vogliamo comunque sottolineare quanto segue.
Alla luce di un deciso deterioramento dei diritti umani in Turchia – e questo vale per tutti i settori della società su cui abbiamo indagato: condizioni nelle prigioni, diritti delle donne, diritti sindacali, diritti politici –, tutti coloro che abbiamo incontrato hanno tenuto a sottolineare che la comunità internazionale sta facendo finta di nulla davanti a una situazione sempre più allarmante.
Le convenzioni internazionali per i diritti umani sono disattese nell’intera società e in particolare nelle prigioni, come è stato riconosciuto dal Consiglio d’Europa. Questo emerge chiaramente in un rapporto pubblicato dal Comitato per la prevenzione della tortura (CPT) nell’agosto dello scorso anno, dopo una visita all’isola di Imrali nel maggio 2019. Il CPT richiedeva che le autorità turche effettuassero “senza altri indugi, una revisione completa del regime di detenzione applicato ai prigionieri condannati all’ergastolo aggravato nelle prigioni turche…”. Il rapporto è stato approvato dalla Commissione permanente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.
Le autorità turche non solo hanno ignorato queste richieste, ma di fatto hanno intensificato e aggravato l’isolamento applicato a Imrali. Dal 22 aprile 2020 non c’è stato alcun contatto con Abdullah Öcalan. A questo proposito, la commissione del CPT dovrebbe spiegare per quale ragione, durante la sua missione in Turchia nel gennaio di quest’anno, non abbia fatto richiesta di visitare l’isola di Imrali e non abbia espresso il suo sconcerto per il fatto che le sue raccomandazioni siano state ignorate con tanto disprezzo. Il CPT non ha nemmeno incontrato gli avvocati di Öcalan né la sua famiglia.
Altrettanto grave è stata la visita in Turchia del presidente della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che nel settembre dello scorso anno ha ricevuto un’onorificenza presso l’università di Istanbul, proprio quella in cui le epurazioni degli accademici sono state più massicce. Il fatto che il presidente della Corte dei diritti umani accetti tali onorificenze compromette seriamente l’indipendenza e la neutralità della Corte. Ad aggravare ulteriormente questo comportamento di parte, e quindi a minare ulteriormente la reputazione della Corte, è stato l’incontro del presidente con i “commissari” di governo forzatamente insediati in sostituzione dei sindaci democraticamente eletti.
Abbiamo appreso che le strutture delle organizzazioni femminili sono state chiuse e i diritti sociali delle donne limitati. Ci sono state raccontate storie raccapriccianti di singole donne abusate e violentate, spesso da autorità in uniforme. Ci sono state date prove dell’aumento della brutalità nelle prigioni, di come gli avvocati e i sindacalisti siano stati perseguitati e i diritti politici erosi; di come i rapimenti e le sparizioni per mano della polizia siano all’ordine del giorno; di come pericolosi criminali, non prigionieri politici, siano stati rilasciati dalle prigioni a causa della pandemia; di come ogni atto di dissenso democratico sia stato catalogato come azione terroristica.
Una delle nostre interlocutrici ha riassunto in una frase l’estrema problematicità della situazione: “Non vogliamo più che ci vengano consegnati cadaveri sulla porta di casa”.
Siamo anche preoccupati per lo sciopero della fame a rotazione che negli ultimi 80 giorni è ripartito nelle prigioni turche, per protestare contro il “sistema Imrali”. Se il governo turco non darà alcuna risposta, questo sciopero potrebbe trasformarsi in un pericoloso digiuno a oltranza, che sarebbe opportuno evitare.
Più e più volte, i nostri interlocutori hanno collegato il deterioramento dei diritti umani in tutto il paese all’intensificazione del regime di isolamento di Öcalan. “Il sistema Imrali”, hanno sostenuto, “non solo è stato applicato ad altre prigioni, ma si è diffuso in tutta la società”. Questa diffusione del sistema di isolamento di Imrali corrisponde all’istituzionalizzazione di una dittatura. La Costituzione e le leggi turche non vengono applicate, il diritto internazionale non viene applicato, le decisioni dei tribunali internazionali sono disattese. Invece, sono all’ordine del giorno l’impunità e la tirannia. Mentre la comunità internazionale sta a guardare, per lo più in silenzio. E il silenzio è complicità.
Chiediamo la fine di questo silenzio e di questa complicità e una revisione delle relazioni economiche, commerciali, militari e diplomatiche con la Turchia.
Quando le finestre della prigione di Imrali si sono dischiuse, nel maggio 2019, Abdullah Öcalan nel suo messaggio disse: “C’è un urgente bisogno di individuare un metodo per far partire negoziati democratici, che si discosti da ogni tipo di polarizzazione e dalla cultura del conflitto per arrivare a una soluzione dei problemi. I problemi in Turchia e nella regione – prima di tutto la guerra – possono essere risolti con il soft power, cioè con l’intelligenza, il potere politico e culturale invece che con strumenti di violenza fisica”.
Queste parole sono rimaste imprigionate sull’isola di Imrali.
Imrali è un microcosmo della Turchia. È allo stesso tempo un laboratorio di oppressione e di libertà. L’isolamento e la mancanza di diritti umani nella prigione di Imrali si ripercuotono sulla condizione dei prigionieri in tutto il resto del paese. Al tempo stesso, Imrali potrebbe diventare un laboratorio per i diritti umani in Turchia, in quanto le idee che Abdullah Öcalan ha elaborato in carcere sono fondamentali per arrivare a una soluzione dei conflitti in tutto il Medio Oriente e nel mondo in generale.
Tutti i fatti e le testimonianze raccolti indicano chiaramente che il “sistema Imrali” costituisce una drammatica conferma delle politiche di repressione, senza che emerga la necessaria volontà di sostituire la cultura della forza e della repressione con una cultura del rispetto dei diritti umani e della democrazia.
Siamo convinti che, come Nelson Mandela, Abdullah Öcalan sia un attore cruciale per la costruzione di una soluzione pacifica e democratica del conflitto in corso tra lo stato turco e il movimento curdo per la libertà. Crediamo quindi che sia giunto il momento non solo di porre fine all’isolamento, ma anche di liberare Abdullah Öcalan, perché, come disse una volta Nelson Mandela, “solo gli uomini liberi possono negoziare”.
Clare Baker è una funzionaria internazionale di Unite, un sindacato del Regno Unito, ed è attualmente segretaria della campagna sindacale britannica Freedom for Öcalan.
La baronessa Christine Blower è l’ex segretaria generale dell’Unione Nazionale degli Insegnanti in Gran Bretagna e attualmente co-presidente della campagna sindacale britannica Freedom for Öcalan.
La professoressa Radha D’Souza è una studiosa, attivista per la giustizia sociale, avvocata e scrittrice indiana. Ha lavorato in Nuova Zelanda e attualmente insegna giurisprudenza all’Università di Westminster nel Regno Unito.
Melanie Gingell è un’avvocata e docente di diritto internazionale umanitario e di giurisprudenza femminista, è stata parte dell’esecutivo del Comitato per i diritti umani dell’Ordine degli avvocati di Inghilterra e Galles e fa parte del comitato direttivo di Peace in Kurdistan.
Rahila Gupta è una giornalista freelance, scrittrice e attivista. Dal 1989 fa parte delle Southall Black Sisters, è un’attivista di Women Defend Rojava UK e patrona di Peace in Kurdistan. Scrive soprattutto riguardo a questioni razziali, di religione e di genere.
Ögmundur Jónasson è stato leader dei sindacati del servizio pubblico in Islanda e parlamentare e ha ricoperto per diversi anni la carica di ministro (è stato anche ministro della giustizia). È socio onorario dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.
Thomas Jeffrey Miley è un prolifico scrittore e studioso di sociologia dell’Università di Cambridge e ha partecipato a diverse delegazioni in Turchia e in Kurdistan, incluso il Rojava. A questo riguardo ha pubblicato molti libri e articoli. Fa parte del comitato esecutivo della Commissione civica UE-Turchia (EUTCC).
Laura Quagliuolo è una redattrice e autrice di libri scolastici per bambini, da tempo attiva nella solidarietà internazionale, specialmente in relazione ai diritti delle donne. Attualmente è attiva in RETE JIN, una rete italiana di donne a sostegno del movimento delle donne curde e fa parte del comitato Time has come, Freedom for Öcalan.
Roza Salih è curda, nata nel Kurdistan meridionale, e nel 2001 ha chiesto asilo in Scozia. È stata attiva nella difesa dei diritti umani e parteciperà, in veste di candidata del Partito Nazionale Scozzese (SNP), alle prossime elezioni.
Gianni Tognoni è un medico, è stato direttore della ricerca presso l’istituto Mario Negri di Milano ed è segretario generale del Tribunale Permanente dei Popoli dalla sua fondazione, nel 1979.