Da Rebibbia a Kobane, il viaggio di Zerocalcare con mammuth

“Kobane Calling” (Bao Publishing, 272 pagine, Euro 20) è il nuovo libro del fumettista romano: “Non siamo andati a vedere la guerra ma la vita quotidiana nel Kurdistan siriano, schiacciato tra Turchia e Stato Islamico” di LUCA VALTORTA, La Republica

“Hic habitat felicitas”, recita la scritta davanti alla grande casa gialla un po’ scrostata, antico retaggio romano con ancestrali richiami alla fertilità. Nel cortile un’anziana signora disabile guarda, insieme alla figlia, la strada dove scorrono macchine a ritmo continuo, come fanno quegli anziani coniugi seduti sul patio delle case coloniche americane. Suono di clacson. Grande stazione IP sull’altro lato. Parchetto per bambini con tanto di moderno centro fitness, che abbiamo percorso per arrivare fin lì, erboristeria, palestra di pugilato, farmacia, bar, una grande edicola, molto ben fornita. Su un muro il logo dei Ramones. Siamo nel cuore di quella che più che alla amara periferia romana senza speranza, descritta da Scola e Pasolini, assomiglia a una di quelle piccole cittadine di mare (o forse, come dice lui, proprio “un incrocio tra San Francisco e Pescara”). Ci sono pure le palme.

Subito all’uscita della metro il benvenuto recita: “Welcome to Rebibbia. Fettuccia di paradiso stretta tra la Tiburtina e la Nomentana, terra di Mammuth, tute acetate, corpi reclusi e cuori grandi. Qui ci manca tutto, non ci serve niente”. È il murale che ti accoglie quando esci dalla stazione della metropolitana. Siamo nel regno di Michele Rech, in arte Zerocalcare, trentadue anni. Un luogo un tempo conosciuto solo per il carcere e che le sue storie hanno fatto conoscere in tutta Italia (e oltre), ammantandolo di mitologia. “Per fortuna non ci fanno il tour come al bar dei Cesaroni”, minimizza lui. “Caffè? Va bene il bicchiere? Non ho tazze”. Questione estetica o politica? “No, no, è solo che io sono ‘straight edge’: nessun tipo di droga, neanche caffè. Lo tengo solo per quando qualcuno mi viene a trovare”. Dalla scorsa visita Zerocalcare ha cambiato casa, praticamente si è spostato di cento metri, sta nella via dietro quella a cui abitava. Lo stile è lo stesso: poster di band hardcore alle pareti, memorabilia di Guerre Stellari e la famosa riproduzione di una macchina da bar per videogames degli anni Ottanta. Solo più ordinata. Lui quasi si scusa: “No, è solo che domani viene gente per cena”.

Perché Kobane Calling?
“Il titolo riprende una canzone dei Clash, London Calling, ma al tempo stesso fa riferimento a una sensazione che avevamo dentro, a uno spirito di richiamo che sentivamo e che ci chiedeva di ritornare a Kobane, la città che i curdi hanno ripreso all’Is con un grande sacrificio di sangue. Questa volta però volevamo allargare l’esperienza: ritornare per dare una mano, ma anche andare in altri luoghi per cercare di capire davvero quello che sta succedendo lì. Il titolo quindi in realtà è un po’ fuorviante, proprio perché il viaggio questa volta passa attraverso un territorio molto più vasto del Kurdistan”.

Però i Clash ci stavano bene.
“I Clash sono tipo il mio gruppo preferito della vita, a parte alcune cose di punk italiano a cui sono affezionato per via di ricordi e di affetto”.

Quanto è durato questo secondo viaggio?
“Una quindicina di giorni circa”.

È stato più duro?
“È stato molto più complesso. Abbiamo attraversato territori e realtà diversi perché siamo andati sia nelle montagne irachene dove si addestra il Pkk che nel Rojava. Non siamo andati a vedere la guerra o i combattimenti, ci interessava capire come si svolgeva la vita quotidiana nei territori del Kurdistan siriano in cui i curdi hanno stabilito questo governo che loro chiamano di ‘Confederalismo democratico’. Si trova tra la Turchia e l’Is, che li schiaccia dall’altra parte”.

Cosa avete capito alla fine?
“È stata una cosa molto intensa. Perché questa costituzione che loro chiamano ‘Carta dell’autogoverno’ enuncia dei principi bellissimi, addirittura più avanzati di quelli che abbiamo in Occidente rispetto alla liberazione femminile, alla redistribuzione del reddito, alla difesa dei diritti, a un rapporto ecologico con la natura”.

E funziona?
“Beh, è chiaro che in un contesto emergenziale hai molte più giustificazioni per le cose che non funzionano, però quello che abbiamo visto è che questa è una realtà, è una cosa che viene praticata realmente. Una cosa dove anche i ruoli chiave istituzionali, tanto per fare un esempio, sono sempre doppi: maschi e femmine. C’è una convivenza che viene perseguita e praticata tra tutte le etnie e religioni. Insomma, per me è una scommessa su cui si dovrebbe investire anche dal punto di vista nostro”.

Avete incontrato anche Cemil Bay?k che, praticamente dopo Ocalan, è il numero due del Pkk. Che cosa vi ha detto?
“Intanto bisogna premettere che il Pkk e il Governo del Rojava non sono la stessa cosa come vorrebbe la Turchia per affibbiare a tutti l’etichetta di ‘terroristi’, ma non sono neanche due estranei come vorrebbero molti governi occidentali quando dicono ‘noi sosteniamo i curdi in Siria e condanniamo quelli in Turchia’. Tutti partono dalla stessa ispirazione teorica”.

Come è avvenuto questo incontro? L’avevate organizzato?
“L’incontro con Cemil Bay?k, come racconto nel libro, è avvenuto a sorpresa. I militanti del Pkk lì in montagna fanno una vita quasi monacale fatta di sacrificio, rigore, disciplina e orizzontalità. Non c’è una vera gerarchia, per quanto poi anche lì i ruoli sono gestiti sia da maschi che da femmine e chiunque può essere messo in discussione”.

Eri con uno degli uomini più ricercati del mondo. Lui di persona com’è?
“Apparentemente una persona gentile, tranquilla. Non è l’Is per cui ti immagini immediatamente un invasato. È gente che combatte una guerra, certo, ma tutti quelli con cui abbiamo parlato ci hanno detto di non avere la verità, di procedere per tentativi mettendosi sempre in discussione”.

Secondo voi perché vi ha voluto incontrare?
“Credo che ci sia il riconoscimento di un grosso lavoro svolto dall’Italia nei confronti della questione curda. Tra l’altro nella comunità che vive qui c’è un tale senso di riconoscimento per l’Italia e una volontà così forte di non essere ospiti indesiderati che lascia veramente colpiti”.

E tornare a casa è stato difficile?
“No, beh, io sto sempre bene quando torno a casa e in generale per me il momento più bello del viaggio è quando ritorno. Questo rimane e non fa eccezione in nessun caso. Però ciò che sento adesso è proprio la voglia di raccontare quella cosa là, anche perché poi, quando l’hai vista da vicino, ti rendi conto di come è raccontata male, con superficialità, buchi, lacune, con il risultato che non si capisce nulla. A molti, certo, non frega niente di questo argomento però io mi dico che forse non gli interessa anche perché è una cosa che viene raccontata male. Una cosa su cui sto in fissa da quando sono tornato è che vorrei trasmetterla con un po’ più di chiarezza”.

La racconti molto bene.
“Ah sì? Te sembra che pò annà? Perché io sono terrorizzato proprio…”.

C’è la tua capacità di leggere i rapporti, la tua sensibilità ma anche un’idealità di cui secondo me oggi abbiamo tantissimo bisogno. Oggi sembra che se non sei cinico o nichilista non sei cool e invece il coraggio vero è proprio quello di aspirare a migliorare le cose…
“Io sono convinto che verrò preso per il culo infatti, ma non mi importa”.

C’è una domanda che ti fai dall’inizio alla fine del libro…
“Vabbè, mi hanno messo in bocca una cosa che non ho mai detto tipo ‘io ci andrei a vivere a Kobane'”.

A cui tu rispondi…
“Col cazzo”.

Però…
“Il posto mio rimane questo e non lo cambierei per niente al mondo, però mentre ero là mi è tornata la voglia di provare a mettere in discussione me stesso su certi punti”.

Immagino che la percezione di poter perdere la vita da un momento all’altro cambi radicalmente la percezione di ciò che sta intorno.
“Non è tanto quello perché, come dicevo, noi non siamo andati né sul campo di battaglia né in posti rischiosi. Però quel modello di relazioni, di comportamenti che abbiamo potuto toccare con mano era molto, molto civile. Mi verrebbe molta voglia di provare, poi è chiaro, tra il dire e il fare c’è di mezzo un mondo e io con il lavoro che faccio sono il peggiore: non riesco a tenere i rapporti nemmeno con le persone a cui tengo davvero”.

Sei riuscito a evitarti almeno gli “accolli” peggiori?
“Credevo di sì e invece no. Ma adesso sto imparando a dire subito ‘no’: prima, siccome non riuscivo a fare tutto, sostanzialmente sparivo, invece lentamente sto imparando ad affrontare le situazioni, ci vorranno altri dieci anni ma ci riuscirò”.

Beh, adesso puoi anche prenderti un po’ di tempo: hai appena finito un libro di 250 pagine.
“Devo fare 120 pagine entro giugno”.

Almeno adesso ti pagano.
“Solo per quaranta”.

Come mai?
“È la mia filosofia: per ogni lavoro pagato ne faccio due gratis, ovviamente per cose che ritengo giuste secondo la mia etica”.

Come farai?
“Non so. Sono pure da incastrare in mezzo a tutte le presentazioni che farò adesso che esce il libro. Infatti so’ disperato guarda”.

Comunque Rebibbia regna?
“Sempre”.

Lo chiamavano Jeeg Robot l’hai visto? Piaciuto?
“Sarà che a me a dodici anni dopo Jurassic Park hanno tolto la ghiandola dell’entusiasmo… sì mi è piaciuto, è recitato molto bene, mi sembra un buon film, non un capolavoro. Solo che forse non ci siamo abituati, sono un po’ stranito perché ormai i giudizi dei critici non sono più critici ma è tutto più roba tipo ‘miracolo’, ‘capolavoro'”.

Che tipo di Roma c’è lì dentro?
“C’è sicuramente Roma ma non quella che vivo io: Marinelli comunque bravissimo. L’ho visto anche in Non essere cattivo e, ecco, quello mi ha mosso ancora più corde, ci ho riconosciuto delle dinamiche di vita reale”.

Jeeg Robot forse riesce a dire qualcosa anche di serio utilizzando però un linguaggio che arriva a più gente e infatti è diventato un fenomeno di massa, mentre alla fine Non essere cattivo è rimasto per pochi. A proposito di cinema: come sta andando il film che dovrebbero fare del tuo libro La profezia dell’armadillo?
“Io la mia parte, che era quella di scrivere la sceneggiatura insieme a Mastandrea e altri, l’ho fatta, poi vediamo che succederà, se succederà…”.

Non te l’ho mai chiesto: come mai nei fumetti ti rappresenti sempre con la maglietta de Il Punitore, che nei fumetti Marvel è un giustiziere psicopatico nazistoide?
“In realtà ci assomiglia ma non è quello: io indosso quasi sempre magliette nere con teschi perché è il simbolo di molti gruppi punk che ascolto. Comunque le storie de Il Punitore mi piacciono molto anche se il personaggio in sé lo considero orrendo”.

Tu leggi i supereroi Marvel?
“Sì, certo”.

Sai che tra un po’ uscirà il film di Civil War, una delle saghe più interessanti visto che cambia completamente le carte in tavola? I supereroi devono registrarsi altrimenti vengono dichiarati fuori legge e, al contrario di quello che si potrebbe immaginare, è il mito stesso a guidare la rivolta, Capitan America. Che diventa un terrorista…
“Letta diversamente però la richiesta di identificare i supereroi è come quella di identificare i poliziotti: per evitare possibili abusi… io devo avere la possibilità di sapere chi sono”.

Quindi stavi con Iron Man?
“Ero combattuto”.

I fumetti dei supereroi che vengono considerati “roba da ragazzini” anche dai cultori del graphic novel in realtà spesso ci dicono molto su quello che si agita nelle pieghe della società americana…
“Ma infatti, col cazzo che sono roba per ragazzini. Molte volte parlano dell’attualità più di molte cose ‘underground’. E non solo”.