Cosa vuol dire essere curdi nella Turchia di Erdogan

«Non sono un cretino. Non voterò “sì” al referendum. Come potrei? Sono curdo…» Naif vive a Diyarbakir, la capitale della regione curda nel Sud-est della Turchia, assediata dall’esercito di Ankara per oltre 90 giorni alla fine del 2015. A un anno e mezzo di distanza, il 16 aprile prossimo, Naif e altri ottanta milioni di turchi voteranno sulla riforma della Costituzione voluta dal Presidente, Recep Tayyp Erdoğan . Se vincerà il “sì” la Turchia diventerà una repubblica presidenziale e il Presidente avrà molti più poteri, come la scelta dei ministri di governo, il diritto di sciogliere il Parlamento e il controllo del sistema giudiziario. Se vincerà il “sì”, Erdoğan potrebbe rimanere al potere fino al 2029, passando così alla storia come il Sultano del terzo millennio.

Il referendum si terrà nel bel mezzo dello stato d’emergenza dichiarato subito dopo il tentato golpe del 15 luglio scorso e mai fatto decadere. La situazione eccezionale ha permesso alle autorità turche di arrestare giornalisti, avvocati, attivisti, politici e oppositori di qualsiasi natura. Human Rights Watch ha denunciato la chiusura di 169 organi di informazione e l’arresto di 148 giornalisti. Quindici università sono state chiuse e centinaia di professori hanno perso il lavoro o sono finiti in galera.

Turchia, quei curdi odiati dal “Sultano”
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Ma è contro i curdi che la furia di Erdoğan e del suo partito, l’Akp, si è fatta sentire maggiormente: ai 55 parlamentari dell’HDP, il partito d’opposizione filo-curdo, è stata tolta l’immunità; in 82 villaggi e città del Sud-est sono stati rimossi i sindaci curdi per far posto a commissari governativi e 13 rappresentanti dell’HDP sono in carcere da novembre con l’accusa di collaborazionismo con il Partito dei lavoratori del Kurdistan, il PKK. Fra loro c’è il leader Selahattin Demirtaş. Giovane avvocato, attivista per i diritti umani ed ecologista, con l’11 per cento alle elezioni del 2016 Demirtaş ha fatto guadagnare ai curdi una rappresentanza parlamentare da sempre negata ai cosiddetti “turchi delle montagne”. Ma Demirtaş e l’HDP non rappresentano solo i curdi. Li hanno votati anche l’elettorato borghese, laico e intellettuale in lotta con il conservatorismo dell’Akp, i giovani vogliosi di Europa, i movimenti Lgbt, quello che rimane della sinistra e gli attivisti del movimento Gezi Park. Un avversario pericoloso per il Reis, che sul referendum ha puntato tutte le sue fiches.
Lice ha perso tutto ciò che aveva…

Evet, “sì” in turco, si legge sui manifesti appesi agli edifici governativi di Diyarbakir. La propaganda elettorale si fa sentire anche qui, dove i curdi ancora piangono Sur, il centro storico patrimonio dell’Unesco scomparso due anni fa. I carri armati turchi hanno posto fine all’autogestione dichiarata dopo il fallimento dei negoziati fra il Pkk e lo Stato turco. Sembra lontanissimo quel marzo 2013 che ha visto Abdullah Öcalan chiedere ai suoi guerriglieri di deporre le armi. Solo due anni dopo, il 21 luglio 2015, 32 volontari per la ricostruzione di Kobane sono morti in un attentato a Suruç. I curdi hanno accusato Erdoğan di essere il mandante della strage e alleato dell’Isis, mentre Ankara ha risposto con 251 arresti in un’operazione contro l’Isis e il Pkk.

Nelle città come Diyarbakir, che avevano proclamato l’autogestione, l’esercito è intervenuto assediando, sparando e provocando – secondo i dati di Amnesty – oltre 500 mila sfollati. Secondo l’organizzazione non governativa International Crisis Group la nuova guerra civile fra Turchia e curdi ha già provocato circa 900 vittime, di cui oltre due terzi fra la popolazione. «Una sola persona non può governare un intero Paese. Almeno non la stessa che ha ucciso i nostri fratelli», lamenta una donna rimasta paralizzata dopo aver assistito alla distruzione del suo quartiere e che non vuole essere identificata.

A ottobre 2016 anche Diyarbakir è stata commissariata e i co-sindaci Gulten Kisanak e Firat Anli sono stati arrestati. Al loro posto è stato piazzato Cumali Atilla, un membro dell’Akp. Per la campagna referendaria va alla Dengbej, la “casa del canto”, dove si fa fotografare insieme ai tradizionali cantastorie curdi, pagati per inscenare una performance. «Ci chiedono di cantare come scimmie», racconta Naif, «nessuna canzone ha un contenuto politico, naturalmente. All’inizio accettavo i loro soldi, 400 lire turche (circa 100 euro), con cui pagavo l’affitto del nuovo appartamento e compravo le sigarette. Ma ho smesso e non me ne pento. Ho sessant’anni e potrò morire soltanto quando il popolo curdo avrà ottenuto i suoi diritti».

Naif è rimasto per quaranta giorni sotto assedio. La sua casa è stata distrutta e lui, la moglie e la figlia hanno trovato un bilocale dove «tutto quello che vedi è un regalo di amici, comprese le mutande che indossiamo». A Sur quello che non è stato devastato è stato sequestrato dalle autorità turche e quello che sarà ricostruito non sarà destinato ai vecchi residenti: «L’obiettivo del governo», spiega Çiğdem (altro nome di fantasia), responsabile dell’ufficio stampa del precedente governatore, oggi disoccupata, «è distruggere l’identità curda, di cui il centro cittadino era un esempio importante, con le mura fortificate e i giardini di Hevsel. Il progetto di riqualificazione prevede palazzi con vista sul Tigri, fontane e prati tagliati all’inglese. Il centro diventerà inaccessibile ai locali, per essere venduto a turchi facoltosi».

La lotta ai terroristi, che per il governo sono indistintamente i jihadisti dell’Isis, il Pkk, e i curdi siriani dello Ypg, è la motivazione ufficiale per arresti e repressioni. Al marito di Övgü, insegnante di scuola elementare di Diyarbakir, è stato proibito di viaggiare all’estero. Lei stessa sarebbe dovuta andare a Berlino e Madrid il mese prossimo, ma non potrà farlo. Rischierebbe il sequestro del passaporto e l’interdizione dai pubblici uffici per suo marito.

All’università le cose non vanno meglio. Kinam racconta i cambiamenti da quando è arrivata, nel 2014. Era il primo confronto per lei, curda di Istanbul, con le proprie radici: «C’erano ragazzi che suonavano musica tradizionale e tutti erano molto attivi nel promuovere la lingua e la cultura curda», ricorda Kinam, «oggi siamo in pochi. Alcuni sono morti, altri hanno scelto la strada della lotta armata, altri ancora sono depressi o così spaventati che si dichiarano turchi pur avendo entrambi i genitori curdi».

Tra le strade di Diyarbakir, occupate ancora dai tank dell’esercito, c’è un’oasi di pace. È Lilav, la libreria di Ulaş, un ragazzo poco più che trentenne che insieme a due soci dirige una casa editrice in lingua curda. Prima del commissariamento Lilav aveva un’altra sede, pubblica e più centrale, così come l’aveva la compagnia di teatro della città, la Şanoya Bajêr a Amedê. Mentre i ragazzi di Lilav sono riusciti ad anticipare lo sfratto e a portarsi via le loro cose, gli attori hanno trovato da poco uno scantinato nel centro commerciale Galeria, poco fuori le mura: «La nostra compagnia ha 27 anni di esperienza», racconta Yavuz, uno degli attori, «fino al 2003 eravamo obbligati a fare spettacoli solo in lingua turca, poi abbiamo potuto allestirne uno alla settimana in curdo.

Questo fino all’anno scorso, quando a causa degli scontri siamo rimasti chiusi sei mesi e il nuovo sindaco ha bandito qualsiasi evento con la scusa dello stato di emergenza». Il primo teatro della compagnia poteva contenere 1.700 spettatori, il secondo 336. In questo scantinato entrano a malapena 80 persone: «Possono farci chiudere, possono impedirci di parlare la nostra lingua, ma noi andremo avanti e li metteremo di fronte al loro fascismo», promette l’attrice Berfim. La sera stessa va in scena “Stand up”, uno spettacolo sulla lingua turca secondo il punto di vista dei curdi.

Tra le riforme del “pacchetto democratizzazione” proposto da Erdoğan del 2013 per l’accordo di pace con il Pkk c’erano la rimozione del divieto di usare le tre lettere curde dell’alfabeto e il via libera all’insegnamento del curdo nelle scuole private. Oggi queste conquiste sembrano meno solide e sono stati introdotti degli esami per chi vuole fare teatro. «L’arte è il nostro modo di portare alla luce la verità, la consapevolezza comune di quello che stiamo vivendo in Turchia», interviene Berfim, «siamo nella stessa situazione degli accademici, ma buttare loro fuori dalle università e noi dai teatri non significa renderci incapaci di fare il nostro mestiere».

di Linda Dorigo, l’Expresso
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