Cosa c’è da sapere sulla guerra in Siria
Assad punta a riconquistare i pozzi petroliferi dell’Est, la Turchia a controllare il Nord. Mentre la Russia gestisce la situazione e gli Stati Uniti vogliono rafforzare il ruolo regionale di Israele. Ecco cosa sta succedendo
Nel pieno di una nuova guerra fredda ci avviciniamo a grandi passi alla balcanizzazione della Siria. A Nord la Turchia punta a cacciare dai suoi confini i curdi siriani e gli Stati Uniti non sembrano impegnati a difendere coloro che hanno utilizzato per sconfiggere l’Isis nell’assedio di Raqqa, ex capitale del latitante “califfo” Al Baghdadi. L’eroismo dei curdi di Kobane contro i jihadisti dell’Isis, così esaltato in Occidente, è stato presto dimenticato di fronte alla realpolitik. Nei villaggi curdi che non cadranno in mano ai turchi e alle loro milizie arabe resteranno i ritratti dei martiri.
Chi scrive ha visto morire i curdi iracheni nel 1988 ad Halabja, asfissiati dai gas di Saddam Hussein nella più completa indifferenza internazionale; li ha visti fuggire dall’Iraq nel 1991, quando Bush padre fece appello a loro e agli sciiti per insorgere contro Baghdad – e anche allora furono abbandonati al loro destino – poi li ha visti tornare nel 2003 dopo la caduta del raìs, quindi combattere a Kobane quando occupavano soltanto il 20 per cento della città e i jihadisti li attaccavano alle spalle con la complicità di Erdogan: pagano oggi l’ennesimo tradimento delle loro speranze, forse illusorie, di irredentismo. Al centro, lungo l’asse vitale della Siria “utile” Aleppo-Hama-Homs-Damasco, il regime sta consolidando le sue posizioni con il sostegno della Russia e dell’Iran.
Bashar Al Assad sta espellendo le ultime sacche di resistenza intorno a Damasco, poi, con l’aiuto dei russi e dei pasdaran iraniani, punterà decisamente a Est verso i campi petroliferi di Deir ez Zhor, essenziali per ricostruire un paese i cui danni di guerra sono stimati almeno 400 miliardi di dollari. Per Assad – come per Erdogan al Nord – l’obiettivo è sostituire la popolazione ostile, in questo caso i sunniti e coloro che hanno appoggiato la rivolta, con quote di minoranze più fedeli al regime come i cristiani, gli sciiti e gli alauiti. In poche parole andiamo verso la pulizia etnica e settaria che ha caratterizzato molte epoche della storia del Medio Oriente. Anche il ritorno dei profughi siriani – tre milioni in Turchia dove rappresentano l’arma di ricatto di Erdogan nei confronti dell’Europa – verrà gestito in questa direzione: distribuire la popolazione non secondo le esigenze di un ritorno a casa ma in accordo con le nuove linee di separazione etnica e religiosa.
Dal 2011 a oggi quasi otto milioni di siriani hanno dovuto cambiare indirizzo e molti di loro non lo ritroveranno. Idlib, al Nord, non lontano da Aleppo e dal confine con la Turchia, intanto sta diventando la “discarica” dei jihadisti sconfitti. Qui le donne sole, rimaste single o vedove, vengono radunate dagli islamisti in appositi campi di concentramento. Qui si spengono, in un’atmosfera cupa e carica di presagi inquietanti, le ultime speranze della rivoluzione siriana cominciata con la rivolta di Daraa nel 2011.
Quale sarà il loro destino? È un interrogativo di non poco conto, tenendo presente che tra loro ci sono molti dei settemila combattenti con passaporto europeo che imboccarono anni fa l’“autostrada del Jihad” aperta da Erdogan con l’appoggio degli Stati Unti e delle monarchie del Golfo. Nella sedicente pax syriana è il Cremlino che taglia le fette di torta, bisogna quindi sapersi accontentare e inghiottire qualche boccone amaro. Con il vertice di Ankara tra Erdogan, Putin e Hassan Rohani si è definito il nuovo triangolo mediorientale, una sorta di Sikes-Picot dei nostri giorni: si tratta dell’evoluzione più paradossale della guerra di Siria. Un membro della Nato dagli anni Cinquanta, bastione dell’Alleanza contro Mosca, si è messo d’accordo con la Russia e con l’Iran, bestia nera degli Stati Uniti e di Israele. In sintesi un Paese dello schieramento atlantico è sceso a patti contro gli avversari, veri o presunti, dell’Occidente per spartire la Siria in zone di influenza. Non è neppure secondario che Erdogan, incline a presentarsi come paladino dei sunniti, abbia stretto intese con gli ayatollah sciiti, nemici dei jihadisti e del mondo islamico salafita. Se il progetto troverà riscontri nel prossimo futuro, significa che Russia e Iran hanno vinto la guerra di Siria due volte: la prima tenendo in piedi Assad, la seconda portando nel loro campo un pilastro della Nato. La Turchia ospita, oltre alle basi, anche i missili americani puntati contro Mosca e Teheran.
Quale è il piano americano da contrapporre al triangolo Russia-Turchia-Iran? Pur mantenendo le basi in Turchia e nel Golfo, lasciare che se la sbrighino sul campo potenze esterne e regionali: in realtà gli Usa contano sulla disponibilità di Israele – che dal Golan siriano occupato nel 1967 scatta con i suoi raid aerei – a fare il poliziotto della regione. Ma la partita non è finita. L’Arabia Saudita, con le dichiarazioni del principe ereditario Mohammed bin Salman sul diritto di Israele ad avere un suo Stato, segnala che vuole trascinare le monarchie del Golfo dal lato di Tel Aviv pur di contenere la Mezzaluna sciita.
Le prossime mosse ci daranno le sfaccettature di quello che sarà nei mesi a venire il prisma del conflitto mediorientale. Trump, sulla spinta dei neo-con della Casa Bianca, Mike Pompeo e Bolton, rispettivamente segretario di Stato e consigliere della sicurezza nazionale, intende cancellare l’accordo di Obama con Teheran sul nucleare. Si aspettano nuove sanzioni e ulteriori difficoltà per Paesi europei in affari con gli iraniani, tra cui anche l’Italia.
Nonostante le indicazioni di un disimpegno americano, in realtà il Medio Oriente “allargato” resterà nel mirino Usa: la partita è strategica ma anche economica, dalle rotte del gas nel Mediterraneo orientale alle nuove “vie della Seta”, ferroviarie, autostradali, marittime e portuali, in mano agli investimenti cinesi. Da queste parti forse non sarà più America First, ma Israel First, che per altro tiene sempre aperta la linea rossa con il Cremlino. La guerra per procura contro l’Iran ha balcanizzato in un massacro infinito la Siria ma non è ancora finita.
di Alberto Negri, Espresso