Conversazioni con le donne di Kobane

Dopo la liberazione di Kobane, le immagini delle combattenti che hanno sconfitto le forze dell’ISIS liberando la città si sono diffuse nel mondo intero. La sensazione avvertita sin dall’inizio, è sempre stata che dai loro occhi, ripresi dalle foto, trasparisse un’immagine di mondo molto più profonda rispetto a quella che trapelava dallo sguardo di chi in occidente cercava di fornirne una qualsiasi rappresentazione mediatica. Un anno è passato dalla liberazione di Kobane e la città si è ripopolata, finendo formalmente i lavori per la sua ricostruzione, anche se il 60% dell’area urbana è ancora in fase di riedificazione. Una parte della città è stata lasciata distrutta. E’ stata recintata, destinata ad essere una zona museale, di memoria: per non dimenticare la storia della resistenza, legata al quarantennale movimento di liberazione curdo. Per non dimenticare le martiri e i martiri che sono caduti e le forze di difesa che continuano a dare la vita costruendo le basi per una piena umanità democratica basata sulla parità tra le differenze e la parità dei generi lottando contro un’ideologia di distruzione. Sappiamo che oggi non solo Kobane, ma il Rojava e la Siria, come le città del Kurdistan del Nord, per parte dello Stato turco, sono ancora sotto attacco, attraverso un isolamento dovuto all’embargo totale e alla costruzione di grandi mura al confine tra Siria e Turchia. Se da un lato i confini vengono rafforzati, dall’altro vengono violati in spregio al diritto internazionale: si è oggi di fronte ad una guerra d’invasione, a continui provvedimenti repressivi del governo dittatoriale di Recep Tayyip Erdogan, che sta chiaramente mostrando al mondo intero un sempre maggiore accanimento contro ogni opposizione democratica al suo partito, nel beneplacito delle potenze internazionali, in un dilagante fascismo islamista ultranazionalista. Nonostante invasioni illegittime, in Rojava e in Bakur la lotta di resistenza non cessa di essere portata avanti, difendendo i valori per la costruzione di una modernità democratica globale. Questa intervista è un’immagine datata Aprile 2016, nel nord della Siria, a Kobane. Immagine che scaturisce da un incontro con alcune combattenti delle YPJ (Yekîneyên Parastina Jin, Unità di Difesa delle Donne) a cui spesso l’immediatezza del ritratto non restituisce la possibilità reale di un pieno ascolto. L’immagine di un incontro che riesca a rappresentare le idee, i valori e la mentalità di chi sta combattendo, di cui non si parla quasi mai. Allora l’incontro qui riportato è desiderio e promessa: di diffusione della storia di chi combatte, di condivisione allargata delle loro motivazioni, con la consapevolezza della forza che può generare, ovunque, riconoscersi nelle differenze in una lotta comune al di là dei confini.

D.A.: Dal 27 Gennaio 2015, dopo la storica liberazione di Kobane dalle forze jihadiste supportate dalla Turchia, molte donne hanno iniziato a chiedersi su che livelli le combattenti stessero conducendo la loro radicale lotta di liberazione. La vostra lotta ci ha interrogato fortemente, anche nei nostri contesti, rispetto al senso degli obiettivi che ci prefiggiamo come donne in lotta che vivono in una società capitalista. Quali obiettivi politici come combattenti YPJ state perseguendo e per che cosa state combattendo?

YPJ: La lotta delle donne qui a Kobane non è una lotta separata dalle altre lotte politiche delle donne del mondo. Abbiamo capito che per iniziare a comprendere quello che accadeva qui a Kobane dovevamo rifarci alla storia collettiva delle donne in lotta, rifarci alla storia collettiva di passati movimenti delle donne: se si capisce questa connessione, è possibile capire che senso ha oggi la nostra lotta qui contro Daesh e quello che stiamo cercando di fare qui oggi in continuità con quei movimenti che ci hanno preceduto.

La lotta globale delle donne e la nostra, qui, sono la stessa lotta.

La nostra lotta è anche portata avanti con il sacrificio collettivo di tutte quelle donne che nel corso della storia hanno combattuto. Quindi noi facciamo storia a partire da e con la consapevolezza di questo precedente sacrificio. Non ci consideriamo separate dalle lotte precedenti e dai sacrifici compiuti dalle donne che ci hanno preceduto. E questi sacrifici non sono stati solo contro lo Stato o contro un altro preciso nemico. Noi capiamo che nel corso del tempo collettivamente abbiamo combattuto e stiamo resistendo contro un’ideologia. Attraverso questa, il sistema del patriarcato, del capitalismo si trovano interrelate: la nostra lotta è contro il sistema patriarcale e non solo contro Daesh e contro lo Stato, ma contro un’ideologia globale.

Abbiamo capito che le donne, prima di ogni cosa, in questo sistema, hanno bisogno di autodifendersi. Persino nel sistema del socialismo la mentalità patriarcale è sempre stata promossa ed è sempre stata dominante, dominando le discussioni. Quindi nello stesso movimento del socialismo le donne hanno bisogno di riconoscere che i loro interessi e le loro priorità sono differenti, e che i loro interessi sono separati da quelli degli uomini, che continuano a produrre discorsi e valori secondo i quali il socialismo dovrebbe essere costruito e strutturato.

In modo particolare, in Medio Oriente, le donne conoscono forme forti di oppressione, forme di oppressione differenti da quelle che si conoscono in Occidente. Per esempio, vige ancora qui in modo forte il feudalesimo, in Kurdistan come in tutto il Medio Oriente. E questo ha un forte impatto su come le donne possono vivere e autorganizzarsi.

Non solo questo feudalesimo è un problema, ma in Kurdistan le donne hanno anche altri problemi: da una parte c’è il feudalesimo e dall’altra c’è la lotta curda per l’indipendenza, la lotta per l’identità curda, quindi le donne stanno, tra questi problemi, risignificando e promuovendo un’altra idea di identità curda. Le YPJ sono un’organizzazione nuova, esistono da soli 3 anni, ma è una continuazione di una vecchia lotta contro questa mentalità. Le YPJ sono infatti ispirate a esperienze che le hanno precedute e alle lotte delle donne che negli ultimi 30-40 anni, hanno avuto a che fare contro lo Stato turco, contro quello iracheno e iraniano. Il movimento delle YPJ ha imparato da queste lotte e queste esperienze sono state veramente d’aiuto per orientarsi su come affrontare le questioni del feudalesimo o della lotta curda. Il Kurdistan in sé è veramente una società feudale, quindi non solo dobbiamo lottare contro il feudalesimo nell’intera regione del Medio Oriente ma anche internamente tra noi in Kurdistan. Un sacco di donne attraverso tutto il Kurdistan e anche a livello globale stanno vedendo l’opportunità di esser parte di questa lotta e di iniziare un percorso proprio di liberazione. Per esempio, a partire da quando Daesh ci ha attaccato e noi abbiamo resistito.

Daesh rappresenta in pieno la mentalità maschile patriarcale ed è la più ovvia rappresentazione delle zone oscure della prospettiva e visione maschile del mondo. Questo è il motivo per cui anche donne dell’Italia, donne provenienti da ogni parte dell’Europa vedono la lotta che si sta portando avanti in Rojava come la loro lotta, perché sanno che le donne qui stanno combattendo contro l’ideologia maschile patriarcale e per questo c’è stata una forte sensazione di connessione globale in tutto il mondo con le donne dello YPJ.

Noi possiamo vedere la nostra lotta condotta verso due aspetti differenti: la prima è contro il patriarcato, contro la mentalità del maschio dominante, e la seconda è per le donne, per la liberazione delle donne. E questi sono due diversi aspetti.

Rispetto alla situazione politica nel Medio Oriente, rispetto alla questione dello Stato e della Nazione, noi ci pronunciamo contro queste nozioni e stiamo lottando contro un’ideologia globale per un processo di liberazione collettivo delle donne.

Ci sono stati così tanti movimenti e sono stati fatti così tanti sforzi nel Medio Oriente perché le persone riuscissero ad aut organizzarsi! Per esempio, nelle Primavere Arabe, ci sono stati un sacco di gruppi di donne e molte organizzazioni di giovani che hanno manifestato contro lo Stato per e per costruire qualcos’altro lottando per le loro idee, ma hanno fallito: non hanno raggiunto i loro obiettivi. Quello che le YPJ stanno invece cercando di fare è di riconoscere qualcosa di molto importante: per riuscire ad avere successo devono stare insieme tutte le differenti religioni, tutte le differenti culture, tutti popoli diversi e tutti i diversi colori perché se tutte le religioni, tutti i colori, tutti i popoli, non si mettono insieme, allora, isolati, falliranno. Stiamo sperimentando un sistema realmente inclusivo e democratico e lo stiamo sviluppando. La nostra organizzazione nel Medio Oriente non riguarda solo “un popolo” “una nazione”, “una religione”, il Medio Oriente è multicolore, con numerosissimi e diversi gruppi etnici e il punto è includere e far coesistere tutti questi popoli. Per esempio, se si guarda alla situazione in Siria, in Siria noi abbiamo arabi, abbiamo curdi, abbiamo assiri e solo includendo tutti questi popoli in un nuovo sistema federale noi possiamo raggiungere i nostri obiettivi, ma non li realizzeremmo se non possiamo far coesistere tutte le differenze.

Quindi l’idea di essere davvero accoglienti e radicalmente democratici è un’idea e una pratica di fondo molto importante per tutto il Rojava ma anche per le YPJ come istituzione. Noi crediamo davvero che la società in Siria sia pronta a questo e crediamo veramente di esser pronte a questo cambiamento necessario

L’ideologia dominante precedente, l’ideologia del regime Baath di Assad, di Daesh, non potevano realmente rispondere ai problemi sociali che erano presenti qui in Siria e noi crediamo che questa risposta interculturale e questa ideologia davvero accogliente e inclusiva sia la vera risposta e la giusta soluzione a quello di cui le persone hanno bisogno qui, noi crediamo che solo includendo tutti e tutte possiamo risolvere i problemi che abbiamo qui in Siria.

YPJ davvero promuove questa ideologia dell’accoglienza. Come YPJ noi non vediamo la donna come “Il Secondo Sesso”, (secondo una nota espressione di Simone de Beauvoir) ma al contrario vediamo la donna come un sesso essenziale, non secondo, al contrario lo vediamo come molto importante, essenziale appunto, dentro la società. E per questo noi vogliamo lavorare mano nella mano con tutte le realtà e i gruppi nella società, anche con gli uomini. Non vogliamo controllare i maschi, esercitando un’autorità su di loro, ma pensiamo sia giusto ridistribuire alcuni dei poteri e delle autorità che gli uomini hanno, così che le donne e gli uomini possano vivere in uguaglianza insieme nella società. Per uguaglianza non intendiamo essere tutte e tutti uguali, intendiamo parità nelle differenze. Quindi per noi non si tratta di tenere il controllo su una forma di potere degli uomini, facendo sì che questi ci servano, o siano servili, noi vogliamo vivere accanto agli uomini, quindi noi non vogliamo essere gerarchiche, né oppressive né autoritarie. Gli uomini sono sempre stati in prima linea e ora che anche le donne sono in prima linea: stanno resistendo attraverso una mentalità che riconosce che le donne e gli uomini e differenti religioni, culture e lingue hanno necessità di esprimersi con le loro voci. Come YPJ supportiamo tutte queste differenti voci.

D.A.: Raccontate di un uso consapevole della forza sotto ogni aspetto, non solo militare, ma anche in tutti gli ambiti della vita e della società. Come vi preparate e come vi formate per avere questa forza consapevole? Nella pratica, come conducete i vostri allenamenti e che attività svolgete concretamente nella vostra vita quotidiana?

YPJ: Le YPJ non sono solo una forza militare ma anche una forza ideologica, noi ovviamente siamo un movimento, e non abbiamo paura di portare avanti la nostra lotta perché noi conosciamo bene e siamo consapevoli della nostra storia: se tu conosci la tua storia e conosci il tuo passato, come donna, e il passato delle donne e le loro lotte, allora capirai perché abbiamo bisogno di continuare a lottare. Come donne abbiamo sperimentato nella vita tanta sofferenza, con esperienze dolorose all’interno della famiglia, e non solo nella nostra vita, ma nell’arco della storia intera. Parlo del dolore e della sofferenza sentiti dentro le nostre famiglie per come sono impostate nelle strutture date delle nostre comunità e società. Quando noi riconosciamo questo dolore e questa sofferenza e capiamo l’impatto che questo dolore e questa sofferenza ha avuto nelle nostre vite e allora noi sentiamo la mancanza enorme di libertà.

Per questo riconosciamo l’importanza della cura di sé, di una donna che si autodifende dalla società, l’autodifesa per le donne, è una parte veramente importante della nostra concezione e ci guida sempre verso quello che cerchiamo di fare e raggiungere, perché le donne hanno sofferto e continuano a soffrire significativamente in tutto il corso della storia, anche oggigiorno.

Sentendo che in tutte queste esperienze e che nelle nostre esperienze di vita in queste condizioni non c’è uno spiraglio di libertà, possiamo dirti che quello che abbiamo sofferto combattendo contro Daesh, è niente, in confronto a quello che abbiamo sofferto ogni giorno nella società: le nostre vite contrassegnate dal dolore, sono state il punto di origine della nostra presa di coscienza e ci ha condotte a capire chi fossimo e di cosa avessimo bisogno di fare per proteggerci e difenderci.

La resistenza contro Daesh è davvero una piccola resistenza, se la paragoniamo alla resistenza che dobbiamo condurre ogni giorno, quotidianamente nelle nostre comunità e famiglie.

Le donne qui hanno sperimentato lo stupro e la violenza e ogni tipo di oppressione sui loro corpi e noi abbiamo capito che per far terminare tutto questo dobbiamo lottare non solo nel campo sociale, in quello ideologico, ma anche in quello militare. Da un punto di vista del sociale, del discorsivo, ma anche militarmente, con l’autodifesa.

Ma è sbagliato tuttavia pensare che come donne dello YPJ non abbiamo paura.

In realtà, noi abbiamo molti timori, molte delle donne qui hanno paura, però è nonostante questi timori e nonostante la paura che andiamo a lottare.

Tutte le compagne martiri che sono cadute cercando di difendere Kobane, tutte loro, avevano dei sogni, avevano speranze, avevano aspettative, noi tutte non siamo delle eroine, siamo donne normali, che hanno visto molte violenze, e proprio per questa paura che abbiamo avvertito e nonostante la paura avvertita, abbiamo difeso Kobane e ancora siamo qui a lottare e ci difendiamo come YPJ.

Nessuna di noi ha mai desiderato la guerra, nessuna. Noi odiamo la guerra. Non la vogliamo.

Non vogliamo stare in guerra, la guerra non ci piace. Stiamo combattendo perché la guerra è stata imposta con forza su di noi, per questo dobbiamo resistere e continuare a lottare.

Ma è sbagliato dire che non abbiamo paura, abbiamo paura, ma allo stesso tempo non vogliamo vivere sotto tutta questa violenza e sotto questa oppressione. Come donne rifiutiamo di vivere in un sistema e in una società che ci impone queste violenze e questa oppressione. Nonostante siamo tutte giovani e nonostante tutte abbiamo sogni aspettative e speranze da realizzare nelle nostre singole vite individualmente come donne, la maggior parte delle donne che sono diventate martiri qui hanno visto la lotta contro questa sistema come più importante dei loro sogni individuali, dei loro interessi individuali, perché stavano lottando collettivamente per tutte le donne.

Noi non possiamo e non vogliamo accettare di vivere sotto un sistema dove le donne non siano considerate e rispettate, un sistema in cui le donne sono represse e continuamente oltraggiate.

Rispetto alla paura, vorrei dire che si tratta di un’emozione umana che non si può rimuovere ma vorrei parlare di più rispetto al senso delle YPJ come movimento militare.

l autodifesa è veramente importante per noi. Ma di che tipo di autodifesa stiamo parlando? Di che tipo di forza militare stiamo parlando quando parliamo delle YPJ?

Ci sono moltissime forze militari in tutto il mondo ma il problema è che tutte queste forze militari, se le guardiamo bene, sono forze militari maschili: sono composte da uomini, gestite da uomini, organizzate e progettate da loro. In alcune di queste forze militari magari ci sono donne, ma ci sono come eccezione, e credo che siccome sono in così piccoli numeri, non sono in grado di autorganizzarsi e non possono proporre le loro idee sulla libertà delle donne, sui diritti delle donne dentro queste organizzazioni militari. Per questa ragione, noi riconosciamo come la storia dei movimenti militari sia stata una storia totalmente maschile, e per questo militarista. Noi invece abbiamo sentito il bisogno di avere un movimento separato di unità di autodifesa femminile e questa separazione è importantissima. Riconoscere l’importanza delle nostre unità di difesa di sole donne, è il primo passo: tutti i gruppi militari sono stati composti da uomini, le voci delle donne, i loro bisogni e le loro aspirazioni e quello che volevano in questi gruppi militari, sono sempre stati silenziati. Una forza separata femminile è importante dunque, ma solo per un proposito: il suo proposito è l’autodifesa, il suo proposito non è uccidere, non è fare violenza, non è conquistare né dominare, né colonizzare altri gruppi e comunità o altri popoli e non è derubare o rapinare altre comunità, il suo unico proposito è l’autodifesa delle donne, di noi stesse e delle altre donne.

Quindi, il ruolo delle donne, per esempio qui, nelle YPJ, è la protezione delle donne, delle terre, e della popolazione e ogni cosa contro questo principio di protezione e autodifesa è contro i nostri valori.

Ci sono molte lotte che le donne oggi stanno portando avanti e rispetto all’esistenza di una forza fisica, militare è veramente molto importante per noi per proteggerci in questo contesto.

E vorrei spiegare, ancora, perché è importante questa forza militare. Ti dico come l’ho vissuta su di me, quando per la prima volta ho sentito che c’era un movimento delle donne armato: ho sentito un grande senso di dignità ed ero orgogliosa di queste donne combattenti, ho imparato un sacco a osservare questo movimento, mi hanno dato un sacco di speranza e di desiderio. Quando ho saputo delle unità di autodifesa delle donne, ho creduto per la prima volta che in quanto donna, c’era speranza. Ci sono molte lotte in tutto il mondo ma molte di queste falliscono perché non ci sono unità di autodifesa delle donne e non ci sono forze militari di sole donne. Per esempio ci sono molti movimenti femministi e organizzazioni femministe in tutto il mondo ma gli Sati Nazione, non le prendono in considerazione seriamente. Noi crediamo che ora la nostra lotta sia completamente connessa all’esistenza della nostra forza di autodifesa, senza di questa, nessuno ci avrebbe preso sul serio.Ti posso dare un esempio sul senso dell’autodifesa… prendi in considerazione un fiore: può essere bello, incredibile, tutti e tutte sono attratti dalla sua bellezza, vorrebbero dunque toccarlo ma per esistere e proteggersi, il fiore deve avere delle spine: qui il fiore per esistere nella sua bellezza deve avere le spine. Noi vediamo le forze di autodifesa proprio come le spine naturali che proteggono questo fiore. Mi chiedo: perché le donne non si autorganizzano in una forza di autodifesa? Perché le donne non hanno organizzazioni di protezione? E’ importante che tutte le donne si facciano questa domanda e si pongano questo interrogativo. Ed è importante per noi che tutte le donne inizino a riflettere e a capire: perché non abbiamo unità di autodifesa per le donne e per i diritti delle donne?

Voglio farti capire un po’, come YPJ per noi ha importanza l’allenamento militare ogni giorno nella nostra vita, ma è attraverso la formazione e lo studio continuo che troviamo la motivazione, la forza e il desiderio di resistere. Attraverso la formazione noi impariamo la nostra storia, riconosciamo i tipi di oppressione che abbiamo sofferto. Per esempio, parliamo dell’impatto che il capitalismo ha avuto su di noi, sui nostri diritti in quanto donne, e sul modo in cui viviamo, ma allo stesso tempo non decostruiamo e basta, discutiamo delle alternative, che cosa significa resistere al capitalismo oggi, e nel discutere le alternative, non abbiamo trovato alternative che moltiplicano la possibilità di scelta delle donne. Perché le donne siano libere devono prima di tutto essere indipendenti e avere le condizioni di scelta per decidere e autodeterminare la loro vita: per esempio nel Medio Oriente, sono per lo più padri, fratelli o altri, sono comunque sempre i maschi a determinare cosa è giusto e cosa no, a determinare di cosa una donna ha bisogno e di cosa no. Ma questo è un problema globale, non è solo un problema delle donne in Medio Oriente: anche se un maschio non forza fisicamente verso una decisione, è ancora la mentalità maschile e patriarcale a prevalere e a imporsi sulle donne. Quindi, la parte formativa delle YPJ non è separabile da quella militare e lavorano insieme, ed entrambe si relazionano all’idea di rendere la donna indipendente dall’uomo.

Noi vorremmo in realtà che queste unità di protezione esistano in ogni parte del mondo e non come solo qualcosa che ci riguarda in quanto donne curde qui, perché quello che facciamo qui non è rilevante per noi in quanto donne curde, ma è rilevante e necessario per tutte le donne di ogni parte del mondo, perché tutte stiamo resistendo contro la stessa mentalità patriarcale. Tutte queste donne devono unirsi e sviluppare le loro forze secondo il loro desiderio e secondo la loro aspettativa di che cosa sia la libertà, per il desiderio di realizzare questa libertà per poter scegliere e determinare cosa succede nelle loro vite.

Come donne, non solo in quanto donne curde, ma tutte, siamo tutte cresciute dentro un sistema capitalista. Donne che sono cresciute ad Istanbul, come a Roma, come a Sydney, hanno esperienza di molti problemi di oppressione dentro questo sistema e l’esigenza di liberazione per esperienza di questa negatività. Ma sento che in altri contesti capitalisti c’è più difficoltà nel riconoscere l’oppressione e di conseguenza nel sapere come liberarsi. Se non si sa come rispondere all’oppressione, non ci si sa organizzare. In relazione alle donne, sembra non sappiano che soluzione darsi rispetto alla violenza: se hanno esperienza di un problema, vanno dalla polizia, o comunque nelle istituzioni statali per trovare le soluzioni ma non possono trovare una soluzione che realmente promuova la loro liberazione, perché quando ti rivolgi a queste istituzioni, risolvi il problema della donna individuale, ma non i problemi collettivi delle donne, non cambia niente nello stato di cose generale, non cambia nulla collettivamente per la condizione delle donne.

Quindi la cosa più importante per le donne è riconoscere la loro unità.

Per noi l’unità è molto importante. Quando delle donne si uniscono come gruppo e si riconoscono tra loro, lì allora comincia l’inizio della liberazione. L’unità è l’inizio del processo di liberazione.

E abbiamo capito come l’unità sia solo l’inizio della resistenza contro il sistema capitalista: quindi il concetto di autodifesa è importante secondo noi, non solo nel Medio Oriente, ma anche in Europa.

Farò un esempio rispetto all’autodifesa nell’economia: le donne soffrono e sono subalterne all’interno del sistema economico dominante attuale. Quindi per proteggersi da questo sistema si autorganizzano, per esempio creano ONG, o altre associazioni, si impegnano in organizzazioni nella società civile, nascono gruppi e movimenti per proteggere le donne dentro il sistema economico. Ma dobbiamo guardare in modo più complessivo alla storia delle donne, e notiamo così che per le donne che sono entrate nella sfera pubblica e hanno avuto diritti economici, la loro libertà, invece di essersi aumentata, si è ridotta. Quindi ora non solo lavorano nella famiglia, ma lavorano anche nella sfera pubblica, il loro obbligo diventa doppio, e diventa un doppio lavoro: invece di raggiungere la libertà, oppressione, violenza crescono dentro un sistema lavorativo economico del genere. Quindi anche rispetto a questo punto, la formazione collettiva nell’unione è veramente importante, perché è l’inizio della soluzione, perché permette di capire veramente la storia, sé stesse, e la violenza collettiva imposte su di noi e da lì si capisce quanto la nostra liberazione sia collegata alla liberazione di tutta la società: la liberazione delle donne da noi è vista come la liberazione collettiva dell’intera società, liberando le donne, liberiamo la società. Ma il riconoscimento dell’importanza della storia è davvero fondamentale, perché da lì si impara.

Per esempio, guardiamo a come le nostre madri ci hanno educato: loro ci hanno educato in base alla loro visione maschile patriarcale. Per esempio, nella maggior parte dei casi, ci dicono: questo è un uomo, e questa è una donna. Questo è quello che un uomo deve fare, e questo è quello che una donna deve fare, indicandoci i ruoli fissi. Secondo questi ruoli ci dicono quali sarebbero le nostre responsabilità e i nostri doveri. Ma se le nostre madri fossero state libere, se loro avessero riconosciuto la loro storia, e se tra loro si fossero riconosciute ed unite noi non saremmo state educate così, in questo modo in questo sistema, e proprio perché le nostre madri ci hanno educato e cresciuto in questa società e in questo sistema capiamo che non solo questo ha avuto un impatto e delle conseguenze sulle donne, ma ha avuto un impatto anche sugli uomini: per questo per liberarci dal sistema dominante della società anche gli uomini devono liberarsi, essere partecipi di questa liberazione e esser parte del processo. Loro devono chiedersi perché loro stessi stanno vivendo sotto un sistema patriarcale e devono chiedersi: perché lo accettiamo? Si devono chiedere per esempio perché hanno un impatto così forte su di loro il corpo di una donna, e si devono chiedere anche perché crescono in un sistema che fa credere loro di non potersi controllare. Per questa ragione anche gli uomini devono liberarsi da questo sistema e capire che possono vivere in un modo alternativo: per esempio se gli uomini vivessero in un sistema in cui il corpo delle donne per loro non avesse un impatto così forte, non individuerebbero in modo immediato le donne solo in base al loro corpo, ma in base alla loro intera persona, secondo altri valori, valuterebbero non le caratteristiche fisiche del corpo che hanno davanti ma l’intera persona che hanno di fronte e la sua personalità.

D.A.: Perché e in che momento delle vostre vite avete deciso di unirvi alle YPJ?

Anche prima che le YPJ esistessero vivevamo nelle nostre società e abbiamo vissuto le ingiustizie che avvenivano su di noi individualmente e collettivamente in quanto donne. E abbiamo visto tutte queste ingiustizie e come ci fosse una grande mancanza di libertà per le donne: le donne vivevano senza giustizia e senza diritti sociali in questo sistema.

Quindi quando tu inizi a vedere ogni giorno le ingiustizie e le sperimenti, incominci la ricerca di una nuova libertà, inizi a cercare delle risposte e delle alternative: c’erano un sacco di organizzazioni non governative nella società civile, associazioni, e noi volevamo dare una mano a portare avanti i loro obiettivi. Ma come donna non hai diritto di portare avanti le tue scelte e di autodeterminare le tue decisioni . Nelle vostre società forse ci sono dei diritti che qui nel Medio Oriente non ci sono del tutto. Il nostro proposito quindi era di far avere possibilità di scelta e diritti di autodeterminarsi alle donne in tutti gli aspetti della loro vita. A volte le cose che chiedevamo erano veramente piccole, molto specifiche, per esempio: poter uscire di casa, avere un lavoro, poter partecipare alla vita pubblica, ma alcune di queste cose ci erano proibite, non le potevamo fare. Quindi lottavamo, in quel periodo, rispetto a queste piccole ma fondamentali e particolari questioni specifiche. La cosa più importante che in quel periodo abbiamo capito è che per essere veramente libere, dovevamo liberare le nostre menti, cambiare la nostra mentalità: la libertà mentale, la libertà di pensiero è la cosa più importante nella lotta di liberazione delle donne e quando abbiamo iniziato a capire che la liberazione della mente e quindi psicologica ed emotiva è parte di questo processo, abbiamo iniziato a liberarci in quanto donne e la prima cosa che abbiamo iniziato a fare era di sfidare lo sguardo maschile, il modo in cui gli uomini ci vedevano, perché abbiamo capito che noi guardavamo a noi stesse attraverso una prospettiva ed uno sguardo maschile, e non ci vedevamo come donne libere, quindi liberare noi stesse ha significato liberarci dall’ottica maschile per come consideravamo le nostre persone e il nostro corpo. Sfidando lo sguardo maschile ci restituivamo potenza e autorevolezza nella nostra prospettiva di cosa significare. Quindi, quando abbiamo saputo dell’esistenza dello YPJ e abbiamo visto il fortissimo impatto che ha avuto sull’esistenza del sistema patriarcale e il modo in cui l’esistenza delle YPJ stava veramente cambiando la società, allora ci siamo sentite di voler partecipare alle unità di difesa e abbiamo deciso di unirci a loro per due aspetti, il primo è per il suo aspetto ideologico, ma anche per il suo aspetto militare.

Questi due aspetti non sono separati ma vanno di pari passo per liberare le donne

YPJ: Ora, saremo noi a farti delle domande. Quando pronunciamo la parola YPJ quali sono le tue sensazioni? A cosa pensi?

D.A.: Quando per la prima volta ho sentito la parola YPJ, ho incominciato semplicemente a chiedermi: che cosa sta succedendo a livello geopolitico in questa fase storica nel mondo e per che cosa stanno combattendo queste donne? Ho sentito un bisogno di verità che continua e che va al di là di quello che dicono le rappresentazioni mediatiche e le analisi politiche che partono dall’Europa. C’è sempre una parte di mondo che con il nostro sguardo eurocentrico non possiamo vedere chiaramente. Credo che in Europa, questa domanda, “Per che costa stanno lottando le donne di Kobane?” ci debba interrogare e accompagnare tutti e tutte ogni giorno, come speranza e proposito di un’autoriflessione e di una nuova libertà.

YPJ: Prima ci hai chiesto come ci organizziamo nella quotidianità e vuoi sapere come ci si possa autorganizzare nella vita di tutti i giorni, in maniera quotidiana, ogni giorno e giorno per giorno.

E ora ti darò un suggerimento, un parere, così che tu possa riportare questo messaggio alle tue compagne, in Europa e ovunque andrai.

So per esempio che ora per le donne nel tuo Paese non è comune incontrarsi e fare formazioni sull’ autodifesa. Se non lo fanno è perché questa non è un’opzione per loro disponibile.

Ma quello che si può fare è iniziare ad unirsi, in piccoli gruppi, in piccole organizzazioni, iniziare ad autorganizzarsi poi in modo allargato cominciando a riflettere sul senso e sulle pratiche dell’ autodifesa.

Quello che ci ha motivato di più in questo intero movimento delle YPJ è credere fermamente nella necessità dell’autodifesa. Era necessaria questa fiducia, questo credere fortemente nell’esigenza dell’autodifesa.

Se non credi che questa sia davvero necessaria, oggi, in quanto donna, non puoi andare da nessuna parte. Bisogna capire quanto l’esigenza della tua liberazione sia così vincolata a questa nozione.

Ma se tu non lo capisci, e non comprendi perché queste unità di difesa YPJ sono davvero così importanti, allora neanche tu potrai iniziare realmente un processo di liberazione.

Bisogna capire profondamente perché queste unità siano importanti.

Questo è un suggerimento che ti chiedo di portare in Europa e nel mondo e alle tue compagne.

D.A.:In Europa stiamo passando un momento di crisi, e sto pensando che ieri è stato siglato l’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia sulle migrazioni, che giocherà i suoi effetti sulla vita di moltissime persone e questo è connesso e funzionale al mantenimento della sporca guerra che sta avendo luogo in Siria e del sistema che vige in Turchia e in Europa. Questo accordo sull’esternalizzazione del controllo dell’accesso alle frontiere alla Turchia concretamente acuisce il genocidio fisico e culturale in atto, non solo lo rende possibile con controlli demografici delle aree, di fatto lo legittima. In Europa dovremmo profondamente vergognarci di vivere in un contesto di alleanze che danno luogo ad una simile decisione coloniale, complice di genocidio, espressione su tutte noi dell’oppressione più grande del capitalismo, del potere e dell’ideologia degli Stati-Nazione. So che siamo in molte e in molti a voler condurre fuori dal dominio le nostre vite insieme senza che nessun governo dall’alto possa decidere sul destino delle comunità secondo ricatto, egemonia e profitto. Tutti i suggerimenti che mi avete dato oggi sono l’inizio di una speranza nuova.

YPJ: Grazie per essere venuta sino a qui. Siamo felici di averti incontrata. Ogni donna che si impegna nella ricerca critica della storia e di ogni aspetto della vita, è una donna che si trova già dentro il cammino della liberazione.

Pubblicato in DWF, Europa. Ragioni e sentimenti, 2016 (2-3)
di D.A.