Contro i meccanismi repressivi del governo turco, nuove forme di solidarietà dal basso

Suruç è una delle città curde in territorio turco più vicine a Kobane, non solo geograficamente ma anche per la sua componente demografica e per il ruolo politico che essa ricopre.

Suruç è infatti una delle basi più importanti per il movimento di solidarietà alla rivoluzione in Rojava. Dopo la strage al centro culturale Amara nel centro della città, dove hanno perso la vita più di trenta persone, tra cui anche cinque compagni anarchici, la città è stata testimone di continue tensioni con il governo turco.

Già nella giornata dell’attentato, infatti, numerosi attivisti della SGDF (Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti), si trovavano presso il centro culturale per una conferenza stampa in cui stavano denunciando la repressione attuata dal governo turco, il quale aveva negato il permesso ai giovani militanti di passare il confine per lavorare a progetti di ricostruzione della città di Kobane. Pochi minuti dopo l’esplosione, difatti, le prime sirene udite dalle persone presenti nei dintorni, non sono state quelle delle ambulanze bensì quelle delle polizia, accorse per reprimere la rabbia della popolazione.

Nei giorni successivi all’attentato, il governo turco ha iniziato una campagna repressiva violentissima contro la sinistra rivoluzionaria turca, contro ogni gruppo organizzato e singoli che presentassero qualsiasi forma di opposizione radicale al governo turco e supporto alla resistenza curda. Inoltre il governo ha lanciato una pesantissima operazione militare contro il PKK, nel Kurdistan in territorio iracheno ed in alcuni villaggi e città del Kurdistan in territorio turco, mietendo molte vittime fra i civili. Il tutto, non a caso, è stato accompagnato da un’operazione di propaganda che ha utilizzato l’attacco ad Amara, che rispondeva perfettamente agli interessi del governo turco e dei suoi sicari di bloccare qualsiasi forma di attività rivoluzionaria nella regione, per fermare una volta per tutte l’attività di solidarietà, con la scusa di una operazione generale contro il terrorismo a guardia della sicurezza interna.

Tra i gruppi colpiti dalla repressione, che ha posto sullo stesso livello militanti della sinistra rivoluzionaria turca e curda con sedicenti membri dello Stato Islamico, vi sono difatti tutti quei soggetti che, come la SDGF, organizzano e si attivano per un supporto diretto ai processi rivoluzionari in Rojava ed alla resistenza contro lo stato turco ed il suo fedele alleato IS.

A riprova dell’attuazione di un progetto repressivo contro qualsiasi oppositore scomodo ai progetti dello stato turco vi è l’imminente opera di rafforzamento dei controlli nella città di Suruç ed in particolare al centro Amara.

Rispetto a diversi mesi fa, infatti, il centro è stato messo sotto stretto controllo da parte delle autorità turche. All’interno della struttura, la polizia, in collaborazione con le autorità nazionali sul territorio, ha posto un ingente numero di telecamere e piazzato microfoni in svariati angoli del centro. Un messaggio chiaro da parte dello stato turco verso chiunque si voglia avvicinare al centro per costruire nuovi meccanismi di solidarietà ed attuare progetti di ricostruzione sociale nel territorio della Rojava e non solo.

Un messaggio che mette in evidenza ancor di più il ruolo che la Turchia, con il suo terrorismo di stato ha avuto nell’esplosione avvenuta al centro Amara. Una mano pesante sulla quale non si debbono fare riflessioni in termini di terrorismo indiscriminato. Una pistola puntata volutamente alla testa di quei militanti che ha avuto come scopo quello di eliminare fisicamente dei giovani rivoluzionari che, con i loro progetti reali, mettevano seriamente a rischio i progetti distruttivi dello stato turco e dei suoi sicari.

Non è neanche un caso osservare come nelle ultime settimane l’area sia stata il teatro di un incremento pesante della presenza di militari e di polizia, già ben consolidati sul territorio dopo l’inizio del processo rivoluzionario in Rojava nel 2013. Camminando per le vie della città, soprattutto nelle ore serali, la presenza di militari, blindati e personale armato si fa pesante e minacciosa.

Nonostante il clima di terrore diffuso dalla Turchia e le minacce perpetrate dallo stato turco a chiunque si fosse permesso nella zona di svolgere incontri, manifestazioni o presidi, Suruç ed in particolar modo alcuni villaggi circostanti hanno continuato ad essere un’importante base per il movimento di solidarietà alla resistenza curda.

A dimostrazione del fatto che la Turchia, nonostante il suo permeante apparato repressivo e la stretta autoritaria e violenta perpetuatasi negli ultimi mesi, non possa in alcun modo entrare nei meccanismi di solidarietà costruitisi con un aumento generale dell’opposizione sociale, vi sono alcune esperienze di solidarietà attiva che ancora oggi mettono sotto costante pressione lo stato turco. Tali esperienze si sviluppano principalmente in alcuni caseggiati situati in prossimità della linea del confine tra Turchia e Syria.

A ridosso del confine turco-siriano, vi è difatti un villaggio che negli ultimi due anni ha assunto una rilevanza fondamentale nelle dinamiche di solidarietà con l’esperienza rivoluzionaria in Rojava: Mehser.

Questo abitato ha ospitato a metà Agosto l’assemblea di alcuni familiari dei martiri delle milizie YPG-YPJ, che attendono di ricevere i corpi dei propri cari morti in battaglia contro ISIS, bloccati al confine tra Syria e Turchia. Il governo turco, da svariati giorni, sta difatti impendendo alle salme di entrare nel territorio della Repubblica Turca, detenendo i corpi sul confine, proibendo ai familiari di poter ricevere le salme per poter svolgere i funerali.

Quando si parla di martiri YPJ-YPG ci riferiamo a tutti coloro che sono morti tra le file della resistenza curda contro lo Stato Islamico ed i suoi alleati in Syria ed altrove.

A Mehser, per l’appunto, la costruzione progressiva di reti di solidarietà, accanto un senso collettivo di coscienza della situazione di tormentata oppressione, rendono forte la necessità di un cambiamento sociale radicale. Le famiglie, infatti, non sono lì solo per rivendicare i propri familiari e confortarsi a vicenda. Esse presentano una sorta di autodifesa organizzata dal basso contro una concreta azione repressiva del governo turco, che si è accanita anche sui caduti che rappresentano uno dei simboli della resistenza. I caratteri organizzativi delle famiglie dimostrano che l’intervento attuato dalla solidarietà lungo il confine non riguarda fattori personali o strettamente legati alla esclusiva vicenda dei martiri. L’assemblea delle famiglie rappresenta uno dei punti d’incontro ad oggi più importanti in queste aree, per una discussione generale sulle manovre repressive dello stato turco e sulle strategie politiche da attuare per supportare in maniera diretta l’esperienza rivoluzionaria in Rojava. Questa è la ragione per la quale il raduno delle famiglie con la loro costante presenza nel villaggio si lega a tutta ad una serie di attività che si radicano in tutto il territorio anatolico.

Mentre lo stato turco continua ad impiegare la sua coercizione tramite il suo forte apparato gerarchico, utilizzando la tortura dell’attesa per piegare la volontà delle famiglie, la resistenza e la solidarietà agiscono attraverso diverse reti che si sono radicate in tutto il contesto sociale anatolico. La solidarietà in queste aree funziona attraverso micro relazioni sociali e strutture assembleari che riescono, ormai da diverso tempo, a scavalcare completamente l’apparato repressivo turco.

L’assemblea delle famiglie dei martiri ha presidiato il territorio di confine per più di sette giorni. Ogni sera i solidali accorsi da ogni parte della Turchia si radunano in un’assemblea congiunta per decidere le mosse da attuare per il prosieguo della lotta.

Tra i presenti all’assemblea nel villaggio anche il Partito Democratico Dei Popoli (HDP) con alcuni rappresentanti appena eletti nel parlamento della Repubblica Turca. L’HDP presidia con le famiglie ed i solidali la zona cercando di aprire dei negoziati con le autorità nazionali sul territorio. Le trattative con Ankara sono però sino ad oggi fallite ed il governo nazionale non ha dato risposte chiare sulla vicenda ai familiari.

Nonostante ciò le famiglie si sono rifiutate di cessare l’assemblea ed hanno deciso autonomamente di spostarsi nella sede del DBP (partito locale gemello dell’HDP) in modo da seguire più da vicino e fare pressione sui negoziati tra HDP ed Ankara. Ogni giorno sino alle ultime ore di luce, le famiglie hanno continuato a tentare di arrivare ad una soluzione accettabile con lo stato turco che però è rimasto fermo sulle sue posizioni, affermando che non vi sarebbe stata alcuna possibilità che i corpi dei “terroristi” (così chiamati dalle autorità turche) potessero passare la frontiera.

Alla fine dell’ultima giornata passata nelle stanze della sede del DBP, le famiglie decidono stremate di rientrare nelle proprie città di origine in Anatolia, senza naturalmente rinunciare ad alcuna forma di lotta alternativa. Si pensano così altre strategie politiche per risolvere il caso specifico e placare la lunga sofferenza per la perdita dei propri cari, oltre al disprezzo subito da essi per mano dello stato turco.

L’atteggiamento ostinato delle famiglie nel non voler abbandonare il territorio sino all’ultimo istante della trattativa tra un partito ed il governo dimostra l’importanza della creazione di catene di solidarietà dal basso che danno una direzione ben precisa all’intero movimento di resistenza.
Per ora, infatti è bene notare che sia in Rojava che nel Kurdistan in territorio turco il protagonismo della popolazione nella sua pluralità, la presenza radicata di gruppi rivoluzionari e l’autodifesa popolare nelle sue diverse forme, rendono possibile l’apertura di nuove prospettive rivoluzionarie nell’area.

di Giacomo Sini e Francesca Şimdi
Report dal Kurdistan, agosto 2015