CINEMA. Kurdistan, quando l’arte si fa lotta
Intervista al regista Veysi Altay, a Roma per la presentazione di due documentari sulle diverse forme di resistenza alla repressione turca
“La repressione della Turchia contro il popolo kurdo dura da più di 100 anni. Ma se la repressione è forte, forte è anche la lotta kurda. C’è chi manifesta e c’è chi usa l’arte. Io e altri colleghi registi vogliamo raccontare la resistenza kurda. Con il cinema è facile diffondere un messaggio perché il pubblico è potenzialmente enorme, entriamo nelle case della gente di tutto il mondo, dentro e fuori il paese”.
Veysi Altay è un regista fuori dal comune. La sua cinepresa si muove intorno ad un impegno politico concreto, che oltre all’arte lo ha portato sui tanti e diversi fronti dell’oppressione turca. Lo abbiamo incontrato a Roma, in occasione della rassegna cinematografica “Venti di Mesopotamia”, un viaggio dentro il popolo kurdo attraverso i film.
Altay ha presentato due film, “Berfo Ana” e “Nu Jin”. Il primo racconta la storia di Berfo Kirbayir, donna kurda che per 33 anni, dal 7 ottobre 1980, ha cercato il figlio Cemil, scomparso dopo il golpe militare del settembre di quell’anno. Sparito, eclissato. Solo nel 2011 le autorità turche hanno ammesso che il giovane fu torturato e ucciso in prigione. Uno spaccato del fenomeno terribile delle sparizioni forzate: “Da 15 anni mi occupo di scomparsi in Turchia, delle loro storie e delle loro famiglie – ci spiega Altay – Il documentario parte da questa attività. Madre Berfo ha cercato il corpo del figlio per 33 anni, senza mai arrendersi né stancarsi e diventando una guida per le tante famiglie che hanno subito la stessa sorte. Ho voluto mostrare la sua lotta, mai vista né sentita dal governo e dal mondo”.
“Nu Jin” supera un confine, quello turco-siriano, e arriva a Kobane. La città, simbolo della lotta al fascismo dell’Isis, ha combattuto per mesi prima di riuscire a liberarsi e a diventare modello di una società alternativa. Lì, a Kobane, Veysi è andato a dare il suo sostegno senza pensare a girare un film: “Quando sono andato a Kobane, non sapevo bene perché ci stavo andando: se come guerrigliero o come sostegno alla popolazione civile. Di certo non sono andato per girare un film. Ma poi, una volta lì, la realtà si è imposta su di me e ho dovuto immortalarla. Per tre mesi e mezzo ho fatto il giornalista per raccontare al mondo cosa stava succedendo a Kobane: i compagni che lottavano contro i barbari, le tante etnie che non volevano solo liberare una città, ma il mondo intero, la battaglia per la libertà, l’umanità, i diritti umani, la speranza per il futuro”.
Nato nel 1976 ad Agri, Veysi ha lavorato per 18 anni come fotografo e giornalista, oltre che come volontario per l’Associazione dei diritti umani in Turchia e per Amnesty International. La sua attività si è sempre incentrata sulla repressione del governo turco nei confronti del popolo kurdo, nell’idea di inchiodare gli artefici delle sofferenze kurde alle proprie responsabilità.
“È con Amnesty International che ho iniziato a seguire le famiglie degli scomparsi: nel 1995 quando le ‘madri del sabato’, hanno cominciato a ritrovarsi le ho seguite e appoggiate, documentando la loro lotta – aggiunge – Così mi sono ritrovato nel mondo del cinema. Tutti i miei lavori si incentrano sulle ingiustizie commesse dal governo. Non a caso ho sulle spalle tantissime denunce, processi, detenzioni. Ho perso il conto di quanti interrogatori ho sostenuto, tutti con l’accusa di propaganda terroristica, di appartenenza a organizzazione terroristica e offesa allo Stato turco”.
Il documentario “Nu Jin” è finito subito nel mirino di Ankara: al governo sono bastati i manifesti del film per muovere le prime denunce per “sostegno al terrorismo”. “Abbiamo prenotato alcuni cinema per presentarlo ma la polizia ha compiuto raid e fatto pressioni perché non venisse proiettato. Molte sale lo hanno cancellato. Siamo comunque riusciti a proiettarlo, sia in Kurdistan che nel resto della Turchia”.
Una sorte che segna lo spettro dall’arte kurda, pesantemente presa di mira dal governo di Ankara che sta chiudendo cinema, associazioni culturali, accademie, centri giovanili. Ma, come tanti altri artisti, anche Altay prosegue nel suo lavoro con l’obiettivo primario di portare il Kurdistan fuori dai suoi confini, nelle case della gente di tutto il mondo e sul tavolo dei governi occidentali che sostengono – con denaro e vendita di armi – la macchina militare turca. “Se il capitalismo è un meccanismo globale anche la lotta deve diventare globale, internazionale: chiunque combatte l’ingiustizia in un angolo del mondo, deve farlo in unione agli altri. Solo così potremo vincere”.
di Chiara Cruciati, Nena News