Bombe su cliniche e villaggi. Ma il popolo di Afrin resiste
Rojava. Reportage dalla regione curda sotto attacco turco. Le voci dal cantone assediato da Ankara: «I 150 morti sono civili uccisi nelle loro abitazioni»
Il 4 febbraio lo slogan «Biji Berxwedana Efrîne» risuonava nella città di Afrin, Siria nord-occidentale. Nel viale principale della città 100mila persone hanno manifestato contro l’attacco militare delle Turchia e in sostegno alla resistenza delle Forze Siriane Democratiche (Sdf) guidate dalle Ypg/Ypj (Unità di protezione del popolo e Unità di protezione delle donne).
«Le Ypg/Ypj e le Sdf siamo noi, è il popolo», dicono dal microfono. E il clima che si respira è quello di una resistenza di popolo. Quasi tutte le famiglie hanno parenti e amici che stanno combattendo e i giovani che non sono entrati nelle forze militari si rendono disponibili per dare sostegno nelle retrovie. Ad esempio aiutando la croce rossa curda a soccorrere i feriti.
Da 21 giorni questo fazzoletto di terra abitato da un milione di persone sta resistendo contro il secondo esercito della Nato: tutta la tecnologia della guerra, dai cacciabombardieri ai tank di ultima generazione contro un esercito popolare armato di kalashnikov, pochi mezzi blindati e qualche mitragliatrice pesante.
Molti villaggi vicini al fronte sono completamente distrutti e sono stati evacuati, così come le cittadine di Reco e Bilbil, per ragioni di sicurezza. Invece a Cindirese gran parte degli abitanti è intenzionata a non andarsene nonostante i bombardamenti.
La popolazione evacuata si concentra principalmente nella città di Afrin, ma non scappa dal cantone: «Non ho paura. Dove dovremmo andare? Questa è la nostra terra e qua moriremo», dice un’anziana. Tanti rispondono in maniera simile. Come il padre di tre bambini: «Se vengono resistiamo. Anche mia moglie sa usare il kalashnikov».
Dove i bombardamenti non arrivano la vita quotidiana scorre regolare. Le forniture di acqua e corrente elettrica per alcune ore al giorno (perché prodotte da generatori a gasolio) sono in mano alle istituzioni del cantone e quindi immutate. La connessione internet per la rete fissa, invece, arriva dalla Turchia ed è stata tagliata. La rete mobile funziona ma è molto debole e disturbata.
Chi può ospita in casa gli sfollati e le comuni di quartiere provvedono al supporto logistico. Migliaia di persone ogni giovedì partecipano ai funerali dei martiri caduti, seppelliscono i propri morti circondati dall’incessante rumore dei raid. Solo una grande determinazione lo rende possibile.
Il conteggio delle vittime civili è di 150 morti e 354 feriti (dati del Consiglio della Salute del Cantone di Afrin): «Non sono civili che vanno al fronte. Sono persone principalmente uccise nelle proprie case dai bombardamenti», dice Beritan, curda attivista del movimento giovanile.
A Reco, Cindirese e Bilbil sono stati colpiti anche i centri di pronto soccorso della croce rossa curda. Un operatore, arrivato da Qamishlo prima degli attacchi, dice: «La nostra postazione è stato colpita e distrutta, ma il nostro lavoro continua e non ci fermeremo». Il 28 gennaio nel campo profughi Robar dei rifugiati da Tabqa e Raqqa una bomba ha ucciso sette persone e ne ha ferite dieci.
Ciò che si domandano tutti è che cosa dicano i popoli da «fuori», in Europa. La fiducia negli Stati non è diffusa, l’esperienza ha insegnato che quelli che non sono dittature hanno comunque contribuito a portare la guerra o a finanziare i gruppi islamisti.
D’altronde la rivoluzione nella Siria del Nord è proprio una proposta di organizzazione della società alternativa al modello statuale. È invece diffusa la fiducia nell’«umanità», la speranza che gli altri popoli dicano o facciano qualcosa in sostegno di Afrin. L’arrivo a fine gennaio di un’unità Ypg di combattenti internazionali, tra cui degli italiani, è stata una notizia sulla bocca di tutti.
Il 6 febbraio una carovana di 5mila persone dalle altre regioni della Federazione della Siria del Nord (Cizire, Kobane, Minbij, Tabqa e Raqqa) è riuscita ad arrivare ad Afrin. Le strade della città sono state di nuovo invase dalla folla, stavolta in festa, caroselli di auto e moto con bandiere delle Ypg/Ypj e delle Sdf. L’obiettivo è un’altra grande marcia nella cittadina di Cindirese, ripetutamente colpita dai bombardamenti per dimostrare che la popolazione non ha paura e sostiene la resistenza.
«Loro hanno l’artiglieria, gli aerei, la tecnologia, ma noi abbiamo il pensiero e il cuore», dice la voce al microfono durante la manifestazione. Parole che si accompagnano al ricordo di Avesta Xabûr, combattente Ypj, che il 27 gennaio con un’azione di autosacrificio si è fatta esplodere distruggendo un tank turco.
Sulle montagne del cantone non si stanno scontrando due eserciti, ma due visioni opposte per il futuro di questa terra. Da sette anni la rivoluzione ha costruito un’alternativa concreta per una popolazione che non vuole tanto il regime di Assad quanto gli islamisti: «La Turchia non è una soluzione per la Siria. La Turchia è il principale problema sia qua che in altre regioni del Medioriente», dice Hamode, giovane arabo che sostiene la resistenza.
Da un lato uno Stato autoritario dalle tendenze islamiste, dall’altra una rivoluzione che a partire dalla lotta del popolo curdo è riuscita a costruire un modello di convivenza pacifica non solo tra curdi e arabi, ma tra tutte le componenti religiose e linguistiche dell’area.
di Jacopo Bindi, Il Manifesto