Biji Kurdistan Nel pianeta dei curdi a Berlino

Alessandro Borscia ha realizzato un lungo reportage sul mondo dei curdi a Berlino

La maggior parte della gente arriva che è quasi completamente buio. I rami spogli degli alberi si stagliano scheletrici contro la foschia opaca del cielo, ingiallito dai riverberi delle luci arancioni della metropoli. Siamo a Kreuzberg, Berlino, nel piccolo lembo di parco che giace lungo la riva di Waterloo Ufer. Dietro, la Dersim Kulturgemeinde.

Lentamente, donne in lunghi, colorati abiti tradizionali, dai tratti forti e dai capelli corvini, si radunano intorno ad un grande barile in rete metallica entro cui è accatastato un cumulo di legna. Altri giovani, donne, uomini e bambini, con le bandiere giallo, rosso e verde del Kurdistan, o con l’effigie di “Apo”, Abdullah Ocalan, si fanno sotto, si dispongono in cerchio e cantano e ballano, quando la legna della catasta inizia ad ardere e lanciare verso l’alto lingue di fuoco. È Newroz, la festa di primavera, quando il giorno diventa più lungo della notte. Sono le 19.40 del 21 marzo 2017: per il popolo curdo, il primo giorno di primavera è il primo giorno dell’anno. Newroz, pronunciato e scritto in moltissimi modi, significa, infatti, ‘nuovo giorno’. A celebrare la millenaria festa dell’equinozio che segna la fine dell’inverno e il risveglio della natura non sono solo i curdi, ma anche numerosi popoli indoeuropei delle regioni dei Balcani, del Caucaso, del Medio Oriente, dell’Asia centrale e del Mar Nero. Da più di 3.000 anni, oltre 300 milioni di persone accendono falò per festeggiare l’arrivo della primavera. Per il popolo curdo, però, la festa assume soprattutto il significato politico di resistenza, libertà e rivendicazione della propria identità nazionale.

“Per noi è la festa più importante. Festeggiamo contemporaneamente le due cose, il nuovo anno e la resistenza contro l’oppressore”, racconta Eilan, 33 anni, curdo della Turchia, studente d’ingegneria civile, i cui genitori sono esuli in Germania dagli anni Novanta, fuggiti dalla repressione turca. “All’inizio, ovunque fossero i curdi, era vietato festeggiare il Newroz; negli anni Novanta, ad esempio, a una celebrazione del capodanno in Turchia (a Cizre, nell’Anatolia Sud Orientale), ci furono molte vittime; più di cinquanta persone furono uccise dalle forze di sicurezza turche. Da allora, il Newroz non ha più solo il significato di nuovo anno, ma di resistenza e di lotta e sempre più gente partecipa alla festa; l’anno scorso a Diyarbakir (la città più importante del Kurdistan turco, che si trova nella Turchia sudorientale), ci sono state oltre un milione di persone”.
La lotta per l’indipendenza e per la liberazione dall’oppressione e dalla tirannia, che oggi mette in fermento le popolazioni di tutto il territorio del Kurdistan, particolarmente in Siria e in Turchia, è impressa nell’animo dei curdi fin dalle origini leggendarie della propria stirpe. Si narra, infatti, di una leggenda secondo la quale un tiranno di nome Sohak, che aveva sulle spalle due serpenti, un giorno si ammala. Gli viene detto che per guarire deve nutrirsi ogni giorno del cervello di due giovani. L’addetto al compito di reclutare i fanciulli decide di risparmiarne almeno uno, utilizzando il cervello di un montone. Dai giovani segretamente salvati e rifugiatisi nelle impervie montagne circostanti nasce il popolo dei curdi. Quando il fabbro Kawa, poi, forgia nel fuoco la spada con cui uccide il tiranno, i piroz, i falò, vengono accesi sulle cime delle montagne, per comunicare a tutto il paese la notizia della liberazione dalla tirannia. Tutto ciò accadde, secondo la leggenda, nel 612 a. C., che storicamente coincide con l’anno della distruzione della città di Ninive (città della Mesopotamia, nell’odierno Iraq settentrionale, i cui resti sono all’interno della moderna Mosul) e della fine dell’Impero Assiro per opera dei Medi. Molto probabilmente i curdi scesero in aiuto dei Medi per liberarsi dell’oppressione assira.

Non sono molti i curdi presenti stasera nel buio del parco berlinese, freddo e bagnato. Sono arrivati qua, dopo aver percorso il Ku’damm, il salotto bene di quella che una volta era Berlino Ovest, inneggiando slogan di pace, democrazia e libertà; hanno gridato “No alla dittatura, no a Erdogan e alla sua violenza”. “È lunedì sera, molti lavorano”, mi dice una giovane signora avvolta in mantello e velo neri, che se ne sta un po’ in disparte con i figli e le amiche. “La festa più grande sarà a Francoforte, sabato prossimo. Lì, saremo almeno trentamila”.

Fra i 100mila e i 120mila sono le stime sul numero di curdi che vivono a Berlino. Sono cifre non ufficiali, naturalmente, per il semplice motivo che nelle statistiche l’appartenenza etnica non conta, solo la nazionalità, e i curdi, una nazionalità, non ce l’hanno. Formalmente sono registrati secondo la cittadinanza del paese da cui provengono: turchi, iraniani, iracheni o siriani.

“Vent’anni fa mostrarsi come curdi costituiva un problema. Impegnarsi per i propri diritti era pericoloso”

“I curdi sono invisibili, ufficialmente nella nostra patria non siamo visti e qui neanche. Se lei va al Senato di Berlino o al Bamf, (l’Ufficio Federale per l’Immigrazione e i Rifugiati), e chiede quanti curdi vivono qui in Germania, si sentirà rispondere ‘zero’. I curdi sono censiti come turchi, come iracheni, siriani, iraniani o come armeni. Ma noi siamo un altro popolo, un’altra lingua, un’altra identità. Ufficialmente siamo messi in un cassetto: arabi o turchi”. Queste parole sono di Günay Darici, curda di Diyarbakir, cinquantaquattro anni, costretta a fuggire per essere stata se stessa: “Se mi chiede da dove vengo, mi piacerebbe dire dal Kurdistan, ma siccome non abbiamo un paese libero, devo dire che vengo dai territori curdi della Turchia. Dal Nord Kurdistan. Vivo a Berlino da vent’anni, sono arrivata come rifugiata. Ho insegnato filosofia in Turchia per otto anni, ma poi ho iniziato ad avere difficoltà politiche, sono stata arrestata due volte, torturata, ho passato un periodo in prigione”. Le chiedo cosa aveva fatto: “Vent’anni fa mostrarsi come curdi costituiva un problema. Impegnarsi per i propri diritti era pericoloso”, la sua risposta.

Günay Darici, come tutte le donne e gli uomini curdi incontrati, è cordiale e disponibile. Ci riceve in una stanza al secondo piano di una palazzina immersa in un piccolo parco di Kreuzberg, in Waldermarstraβe, dove ha sede Yekmal e. V., l’associazione dei genitori del Kurdistan a Berlino, di cui Günay Darici è l’amministratrice responsabile. “Lavoriamo con genitori curdi, ma siamo interculturali e aperti; ci sono tedeschi, arabi, turchi, italiani. Proviamo a rappresentare gli interessi delle famiglie curde, ad aiutare i genitori e i loro figli a costruirsi qui a Berlino una nuova esistenza e nuove prospettive di vita”.

Yekmal è una delle trentasei associazioni curde presenti a Berlino, alcune delle quali appartengono poi a federazioni di livello nazionale. Vi è rappresentata, nei diversi gruppi curdi che sono nella capitale tedesca, tutta la straordinaria varietà etnica, linguistica e religiosa di questo antico popolo di origine iranica; si parla di “kurti” che abitavano quelle aree dell’Asia occidentale già tremila anni fa.

Ci sono le organizzazioni dei medici curdi, dei lavoratori curdi; ci sono le associazioni giovanili, delle donne curde. Ci sono altre che sono concentrate sulla politica o sul lavoro giovanile. Alcune sono specializzate sulla consulenza nei rapporti con la sanità e il mercato del lavoro e altre si occupano dei problemi legati all’educazione e al sociale, come Yekmal: “Il pilastro della nostra associazione è il plurilinguismo e il bilinguismo. Noi riteniamo che una comunicazione efficace sia il presupposto essenziale per una riuscita integrazione nella società. Per questo abbiamo aperto, nel 2014, anche un asilo bilingue curdo-tedesco”. Dal 2016 Yekmal ha anche un ufficio di consulenza, sovvenzionato dal Senato di Berlino, per il procedimento di richiesta di asilo politico per i rifugiati. Rifugiati che aiutano rifugiati. “Abbiamo avvocati che possono offrire consulenza in arabo, turco, curdo, tedesco e inglese. C’è un grosso impegno da parte nostra verso il lavoro sociale, educativo e formativo. E tutto all’insegna del plurilinguismo”, racconta la signora Darici. L’asilo di Yekmal, il primo asilo curdo-tedesco a Berlino, è relativamente piccolo, venticinque bambini, e si trova a Wedding, ma per i prossimi mesi è prevista l’apertura di un secondo asilo a Kreuzberg.

Ci sono poi gli Sprachvereine, le associazioni il cui focus è la difesa e la promozione di una delle numerose varietà linguistiche e dialettali in cui si è frantumata nel corso dei secoli l’unità linguistica curda originaria. L’aspetto linguistico svolge un ruolo molto importante per la coscienza nazionale curda. Per il momento limitiamoci a dire che il curdo è diviso sostanzialmente in tre gruppi linguistici principali: il kurmanji (o curdo settentrionale, il più diffuso), il sorani (o centrale, parlato soprattutto in Iraq e Iran occidentale) e il curdo meridionale, oltre ad un’infinità di parlate locali e dialettali. Anche sul piano religioso non vi è omogeneità nel popolo curdo. Pur essendo, l’Islam sunnita, maggioritario, in Kurdistan sono presenti correnti religiose minoritarie e millenarie, a volte esoteriche e in contrasto fra loro: aleviti, yazidi, zoroastriani, yarsanesimo, oltre che cristiani ed ebrei. Tutte rappresentate a Berlino. Grande importanza fra i curdi ha anche il Sufismo, la corrente più mistica e iniziatica dell’Islam.

“Quasi quaranta associazioni curde a Berlino, proprio questo è il problema. Sono troppe e ognuna pensa troppo a se stessa. Se fossero di meno, saremmo più uniti e più forti”, ci dice Salar, classe ’66, curdo di Silêmanî, città del Kurdistan iracheno. “Ci sono associazioni di dieci membri, altre di quindici. Poi ci sono dieci organizzazioni con oltre duecento membri. Siamo troppo frammentati!”. Salar, insieme alla moglie Shler, gestisce un’agenzia di viaggi sulla Skalitzerstraβe, a Kreuzberg. Ha un aspetto curato, con un elegante vestito blu. Ci riceve nel suo piccolo ufficio nella parte retrostante dell’agenzia. L’ambiente è invaso da un piacevole odore di riso, pollo e lenticchie rosse, che sua moglie ha cucinato anche per noi. Salar è diventato un punto di riferimento importante per la comunità curda a Berlino: “Sono a Berlino da vent’anni e quello che mancava era una fonte d’informazione aggiornata per tutti i curdi che risiedono a Berlino”. Ha creato una pagina web www.kurdberlin.de, in curdo, in cui si trovano davvero tantissime informazioni sui servizi della città, utilissime soprattutto a quei curdi che non parlano tedesco. Ci sono informazioni di ogni tipo: medici, avvocati, traduttori, ristoranti e molto altro. Ma anche se un curdo nasce o muore. “Non costa niente, solo tempo. Purtroppo ho dovuto fare tutto da solo, interviste, foto, raccolta informazioni. Ogni tanto qualcuno viene in agenzia e mi dà un indirizzo su negozi, medici, nuovi circoli”. Molti curdi lavorano nella ristorazione, ci sono persino ristoranti messicani gestiti da curdi e si presume che il 50% dei chioschi di Berlino che vendono Kebab sia curdo.

L’impressione che si ricava approfondendo la conoscenza dei curdi a Berlino è di una “unità senza uniformità”, di una galassia variegata e non omogenea, con differenze e divisioni interne. Tuttavia, quello curdo è un popolo con un’identità etnica e linguistica ben precisa; non sono arabi, non sono turchi. I numerosi tentativi da parte degli stati dominanti, nel corso dei secoli, di annientarne l’identità nazionale, dimettere a tacere le ingiustizie e le atrocità perpetrate verso il popolo curdo, ne hanno rafforzato, specialmente negli ultimi decenni, la coesione e la forza di autodeterminazione. Non può non risultare dunque come ‘politico’ il senso con cui le associazioni curde operano sul territorio, come filosoficamente ricorda la signora Darici: “L’agire di per sé è già politica. I curdi sono una parte della società e noi cerchiamo di favorire l’inserimento. Non possiamo dimenticare che viviamo in una società di cui dobbiamo conoscere e accettare cultura, lingua, diritti e doveri. Ma non vogliamo stare a guardare e basta, vogliamo fare politica, avere influenza. Vogliamo che il nostro impegno venga riconosciuto sia da parte delle istituzioni che da parte della popolazione”, racconta la responsabile di Yekmal. Anche in una realtà sociale poliedrica e multiculturale come quella di Berlino, però, è facile per i curdi sentirsi discriminati: “Noi non vogliamo essere identificati come arabi o turchi. Siamo un popolo, come tutti gli altri, né più né meno. Io lavoro nelle scuole di quartieri con molte famiglie curde e quando i genitori arrivano e vedono scritte di benvenuto in tedesco o in turco, ma non in curdo, si sentono emarginati. Io come educatrice, o come madre, vorrei vedere la mia lingua, mi sentirei meglio. Ci dicono: ‘Ma tanto capite lo stesso!’. No! Non è questo il punto. Il nostro lavoro va in questa direzione, favorire l’integrazione dei migranti curdi nella società“.

I rapporti con la popolazione turca berlinese sono buoni, racconta la signora, ci sono turchi che sono nell’associazione di genitori curdi, c’è collaborazione, ma negli ultimi tempi le cose sono peggiorate: “Noi rappresentiamo tutti, ma molti turchi, diciamo dalla parte di Erdoğan, non ci vogliono proprio vedere come curdi. Certi turchi vogliono preservare la propria lingua e cultura ma non vogliono che i curdi facciano lo stesso. Non vogliono essere trattati in maniera razzista, ma poi loro fanno proprio questo con noi. Ecco, da questo punto di vista abbiamo molto lavoro da fare”, dice Günay Darici, con un sorriso sarcastico e un tono polemico nella voce.

Lingue, religioni, immigrazione
A Kurdu piace ascoltare musica classica in cuffia mentre è in metropolitana: “Mi rilassa”, racconta. Kurdu è magro, con gli zigomi sporgenti e gli occhi grandi. Un’età indefinibile. Sta facendo un tirocinio presso il Kurdisches Zentrum. È arrivato a Berlino poco più di un anno fa. Attraverso la rotta balcanica: Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria, Austria e Germania. “Poi, vicino a Monaco di Baviera la polizia ci ha fermato e poi rilasciato. Ci ho messo otto mesi, ma il nostro viaggio è stato facile rispetto a quello di altri che ho sentito”, dice. Parla un tedesco stentato, ancora, ma lo studia per integrarsi velocemente nella società: “Voglio imparare l’Hochdeutsch”. Kurdu viene da Qamişli, la città più grande di uno dei tre cantoni – quello più a est, Jazira, gli altri due sono Kobane e Afrin – che costituiscono la Federazione della Siria del Nord-Rojava. Dal Kurdistan occidentale, dice Kurdu. Anche la lingua deve adattarsi ai veloci avvenimenti politici. Un’assemblea ha recentemente scelto a maggioranza di togliere la parola Rojava dal nome della Federazione Democratica Siria del Nord. Rojava è kurmanji e significa roj, sole e ava, fine, tramonto: “tramonto del sole”, “occidente”. Il riferimento a una sola etnia è stato ritenuto inadeguato per una regione in cui i curdi cooperano con arabi, turcomanni, siriani, armeni e assiri, una setta di cristiani d’oriente, e in cui è in corso una rivoluzione sociale e culturale, che vuole essere d’esempio per una Siria federale, democratica, laica e plurale al di là delle differenze etniche e religiose.

Kurdu è zoroastriano, seguace della religione fondata in Asia centrale dal profeta Zarathustra intorno al 1000 a. C.. Oggi, nel mondo, gli zoroastriani sono rimasti meno di 100mila. “Tre cose ha detto di fare Zarathustra: pensare bene, parlare bene e agire bene”, racconta Kurdu, sintetizzando. Devo stare attento quando dico Kurdistan iraniano perché Kurdu mi corregge ogni volta: “Noi diciamo Kurdistan orientale”. Mi mostra una mappa con la ricchezza e la varietà delle tradizioni popolari curde. Con un signore alto e grande che ci ha raggiunto, si mette addirittura a improvvisare passi di danza e musica. Poi, iniziano a discutere fra loro, parlando la loro lingua madre, il kurmanji, la lingua curda più diffusa, con oltre dieci milioni di parlanti in Turchia, Siria, Iran, Iraq, Armenia e Libano. Religione, etnia e lingua: tre elementi che costituiscono l’essenza dell’identità curda e che permettono di poter essere identificati, a seconda da quale dei quattro paesi si proviene, come curdi. Da questionari sulla lingua madre del Bamf, il Bundesamt für Migration und Flüchtlinge (Ufficio federale per l’immigrazione e i rifugiati) si scopre che un terzo dei rifugiati arrivati in Germania dalla Siria nel 2015 sono di origine curda. Per chi proviene dalla Turchia, invece, essere identificato come curdo costituisce un problema, perché per oltre un secolo parlare kurmanji nella Repubblica turca è stato vietato e significava discriminazione, persecuzione e torture. Mako Qocgiri, del centro NAV-DEM, uno dei gruppi di curdi a Berlino più politicizzati, mi racconta che suo padre da bambino parlava curdo: “Poi è andato alla scuola elementare e lì c’era un maestro che era stato mandato apposta dallo Stato turco. Parlava solo turco e i bambini solo curdo. Aveva il compito di insegnare ai bambini il turco e proibire il curdo. Mio padre mi ha raccontato che il maestro li picchiava se parlavano curdo”.

La questione linguistica è, dunque, una questione politica e l’impegno politico è ciò che caratterizza l’identità degli immigrati curdi dalla Turchia, ma non solo loro.

Per un popolo cui è sempre stata negata l’identità nazionale e geografica, la cultura e la lingua hanno rappresentato l’unico modo per mantenere viva la coscienza nazionale. Vietare la diffusione della lingua, come accadeva in Siria e in Turchia, dove fino al 1992 era reato esprimersi in curdo, equivale a volere cancellare l’esistenza di quel popolo. La questione linguistica è, dunque, una questione politica e l’impegno politico è ciò che caratterizza l’identità degli immigrati curdi dalla Turchia, ma non solo loro.

La prima ondata di migranti dal Kurdistan, che rappresenta anche la prima generazione di curdi a Berlino, risale agli anni Sessanta e sono migranti economici. In base agli accordi fra Turchia e Germania, questi, dopo un po’ di anni di lavoro, tornavano nella propria patria. Più o meno negli stessi anni, però, fin dal primo colpo di Stato militare in Turchia nel 1961, un flusso sempre più grande d’immigrati curdi lasciava la propria terra per non tornarvi più: “Dopo il secondo golpe militare del ’71, quelli che fuggivano erano consapevoli di essere rifugiati politici e non più Gastarbeiter”, ci spiega Ibo del Kurdisches Zentrum, aiutandoci a capire. “Fine Settanta, inizio Ottanta, cominciano a formarsi le prime organizzazioni curde in Germania Ovest, a Mannheim”. Poi viene il terzo colpo di Stato militare, nell’ottobre 1980: “È stato terribile, atroce. 250.000 curdi e turchi di sinistra in prigione, torturati e a volte uccisi”. In seguito, dal ’92 al ‘95, una vera e propria guerra, con una dura repressione da parte del regime turco nel Kurdistan del Nord, 5000 villaggi curdi distrutti, 27mila civili massacrati e uccisi: ”Sono cifre ufficiali, rilasciate da parte dello Stato turco”, spiega Ibo. “Di queste 27mila persone, la maggioranza erano civili, non guerriglieri del PKK. Erano insegnanti, impiegati di banca, sindacalisti, burocrati curdi che lavoravano nell’amministrazione turca. La Turchia creò formazioni militari antiguerriglia, illegali, con uomini dell’esercito e dei servizi segreti che rapivano le persone nelle case, per la strada, e le incarceravano, le torturavano e poi le uccidevano”. Fino ai primi anni del nuovo millennio si è protratto il flusso di migranti, per lo più verso la Germania e in buona parte verso Berlino, alimentato da un’altra ondata di rifugiati, sorta dalle proteste e dalla conseguente repressione turca che hanno avuto luogo in seguito all’arresto di Ocalan, avvenuto in Kenya il 15 febbraio del 1999.

Poi è iniziato un lungo, inutile, tentativo di dar forma a un processo di pace fra la Turchia e PKK, spesso su iniziativa di Ocalan, il quale, il 21 marzo 2013, annuncia in un documento storico, indirizzato ai due milioni di curdi che stavano festeggiando a Diyarbakir il Newroz, la tregua con il governo turco e la fine della lotta armata. “Questo ha dato grandi speranze al popolo curdo”, dice Ibo, “perché sembrava che la Turchia volesse riconoscere i diritti dei curdi ed era stato stabilito un processo a più fasi, corto, medio e lungo termine, per costruire la pace”. Poi sono scoppiate le Primavere arabe, che nel 2011 raggiungono la Siria. Da allora il quadro si complica e la lotta fra Erdogan e il PKK riprende con ferocia. Attualmente, i curdi che lottano in Siria e in Iraq contro le milizie estremiste dello Stato Islamico e di Al Nusra, che ora ha preso il nome di Jabhat Fatah al Sham (Jfs), sono oggetto di ripetuti bombardamenti da parte dell’aviazione turca. Erdogan approfitta della guerra contro l’ISIS per colpire duramente, ancora una volta, le Unità di Difesa del Popolo (YPG/YPJ), il movimento curdo vicino al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK).

“Il 10 marzo scorso”, ci informa ancora Ibo, “c’è stata una dimostrazione davanti al Reichstag qui a Berlino, per protestare contro l’aggressione armata alla popolazione civile degli yazidi, nel Kurdistan iracheno, da parte dei Peschmerga, le forze armate della Regione autonoma del Kurdistan, con l’ausilio di unità militari turche”. Gli yazidi sono una minoranza etnico-religiosa del Sinjar, (Shengal in curdo) una regione ricca di fiumi nell’Iraq Nord-occidentale. Parlano schengali, un dialetto del kurmanji e professano una propria religione esoterica e misterica che assomiglia all’Islam, ma se ne differisce molto: sono monoteisti ma non hanno un libro sacro, praticano una stretta endogamia e per pregare si prostrano verso il sole, il maggiore intermediario fra gli uomini e il Dio inconoscibile. Il 14 agosto 2007, in Iraq, gli yazidi sono stati il bersaglio del secondo attentato terroristico per numero di vittime, dopo quello dell’11 settembre, con 800 morti e 1500 feriti. Considerati dai fanatici dello Stato Islamico come “infedeli”, sono stati oggetto di un vero e proprio genocidio a partire dal 2014 e costretti all’esilio. Per molti di loro, rifugiati a Berlino, non è facile ottenere asilo politico: “Vengono come perseguitati politici e spesso ottengono asilo. Ma ora per gli yazidi è difficile ottenerlo perché l’Iraq è pacificato. Inoltre, se iniziano a diventare attivi in associazioni come la nostra, hanno problemi per il permesso di soggiorno”, ci dice Mako.

Dall’Iraq e dall’Iran il flusso dei profughi curdi verso la Germania e in particolare Berlino, si fa rilevante verso la fine degli anni Ottanta. Nel 1988, alla fine della guerra fra l’Iran dell’ayatollah Khomeini e l’Iraq di Saddam Hussein, uno dei più lunghi e cruenti conflitti del Medio Oriente, i curdi vengono attaccati da ambedue le parti: “Durante la guerra i curdi iraniani erano per il regime di Saddam e i curdi iracheni combattevano per il regime iraniano”, racconta Ibo. Solo a pochi riesce però la fuga verso l’Europa e in particolare a Berlino. Poi arriva l’operazione Anfal, il nome usato dalla dittatura irachena per indicare la strategia, fra il 1988 e il 1989, per sterminare i curdi iracheni, e il massacro di Halabja, una città dell’attuale Regione autonoma del Kurdistan, abitata prevalentemente da curdi: “Fu un attacco con armi chimiche, più di 5.000 vittime e oltre 180mila curdi deportati e costretti a lasciare le proprie case. Domani ci sono cerimonie commemorative di quel tragico evento, anche a Berlino”, rivela Ibo. Era il 16 marzo 1988. Molti di quei curdi iracheni vivono ancora oggi nella capitale tedesca, così come molti di quelli che furono costretti a rifugiare prima in Turchia e poi in Europa in seguito alla Prima guerra del Golfo (1990-1991), quando l’Iraq di Saddam Hussein invase il Kuwait e venne poi sconfitto da una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti di George Bush senior.

Dersim
La cenere della legna arsa per il Newroz è ancora nel cestino di metallo. La struttura prefabbricata a un piano, con le pareti bianche graffitate, che ospita il centro culturale della comunità di Dersim, è illuminata da un sole splendente. In una stanza si sta riunendo il Vorstand, il consiglio direttivo. In una grande sala, famiglie con donne e uomini di più generazioni si godono con affetto e calore questo pomeriggio festivo di domenica. Si tratta di uomini e donne che appartengono a una minoranza etnica dell’Anatolia orientale: sno Zaza-Aleviti. Provengono dalla regione di Dersim, il territorio corrispondente all’odierna provincia turca di Tunceli, con il suo omonimo capoluogo. Parlano lo zazaki, una lingua a forte rischio di estinzione, diversa dal kurmanji, parlata solo in questa regione di 8.000 chilometri quadrati dell’altopiano anatolico. “Quando i curdi parlano, noi non capiamo niente e quando noi parliamo zaza, loro non capiscono. I linguisti dicono che lo zaza è una lingua a sé, non un dialetto del curdo. Nella regione da cui proveniamo ci sono un po’ di armeni, un po’ di curdi e poi solo zaza”, mi racconta un signore mentre è impegnato a giocare con la figlia piccola. Il turco è parlato dalla minoranza dei funzionari pubblici: “Dai soldati, dai poliziotti, da insegnanti e ingegneri”, mi dice.

La regione di Dersim, che conta circa 70.000 abitanti, un numero in costante, allarmante diminuzione, specie negli ultimi quindici anni, è un ricco mosaico di culture e correnti religiose minoritarie dell’Islam e del Cristianesimo. Ma quasi la totalità della popolazione è di fede alevita: ”Noi di Dersim al 95% siamo aleviti, mentre i curdi sono sunniti. L’alevismo appartiene all’Islam, e in Turchia ci sono oltre dieci milioni di Aleviti, ma da noi l’Alevismo è qualcosa di diverso, vicino allo sciamanésimo, alle antiche religioni persiane (manicheismo, zoroastrismo n.d.r.). È una religione centrata sulla natura. Diamo molto significato al fulmine, all’acqua, alle foreste”, racconta Kenan, un signore che fa parte del consiglio direttivo della Comunità di Dersim qui a Berlino, e che ora, finita la riunione, insieme al presidente della comunità, Müslüm Karadaş, risponde con gentilezza alle nostre domande.

La loro associazione, mi racconta, è stata fondata nel 1993 e conta attualmente centottanta membri. Le attività del centro sono indirizzate tutte al mantenimento e alla trasmissione della cultura, della lingua e del passato di questa minoranza etnica. Mako Qocgiri del centro NAV-DEM mi aveva avvertito: “Quelli di Dersim Cemaati, la comunità di Dersim, sono extra, un po’ a parte. Sono sempre stati autonomi, hanno sempre voluto mantenere la propria tradizione”. Per difendere la propria identità etnica, culturale e religiosa, gli abitanti di Dersim hanno subito uno dei massacri più brutali della storia. A cavallo fra il 1937 e 1938, 70.000 fra uomini, donne, vecchi e bambini furono barbaramente uccisi dalle forze militari turche. “I miei nonni vengono da una cittadina alevita vicino Dersim”, mi aveva detto Mako. “C’è un fiume che attraversa la città. Per tre giorni, si racconta, il fiume è stato rosso del sangue delle vittime. Il nome turco attuale della città, Tunceli, è stato dato alla città di Dersim dopo il massacro. Significa in turco “pugno di acciaio” ed è lo stesso nome che lo Stato turco aveva dato all’operazione militare con la quale intendeva sconfiggere la resistenza degli abitanti di Dersim, con il pugno di ferro”.

Quello perpetrato ai danni della popolazione di Dersim è stato un criminale tentativo di pulizia etnica di cui l’opinione pubblica è quasi totalmente all’oscuro. La politica e le istituzioni internazionali hanno fatto molto per riconoscere un altro genocidio, quello degli Armeni, anch’esso per mano dell’Impero ottomano. Molti degli Armeni sfuggiti all’orrore del massacro, trovarono rifugio proprio nella comunità alevita di Dersim. “Da anni siamo impegnati nel tentativo di far riconoscere legalmente dal parlamento turco e anche a livello internazionale che quello compiuto nel 1937/38 nella regione di Dersim è stato un genocidio”, ci dice Kenan. “La Turchia fino ad adesso si è rifiutata di riconoscerlo e di prendersi le responsabilità, ma ci siamo vicini”, mi racconta.

Mi dà un volantino che è un invito, per il 5 maggio 2017, alla manifestazione di commemorazione dell’80° anniversario del genocidio di Dersim: Vi è scritto:“Non ci stancheremo mai di portare avanti con mezzi democratici la battaglia per l’affermazione dei diritti umani. Quello che desideriamo è che in tutti i cuori germogli il fiore della pace”.

Biji Kurdistan!!

http://www.yanezmagazine.com/curdi-a-berlino-reportage/