Anche in Iran i curdi vogliono sperimentare una “terza via”

Creare i presupposti per una democratizzazione dell’Iran-  Questo articolo è un breve abbozzo di alcuni sviluppi in Iran e Rojhilat (Kurdistan orientale), che offre una panoramica della situazione in questa regione, finora poco descritta.

Il neoeletto presidente iraniano Hassan Rohani ha annunciato, nel corso della sua campagna elettorale e anche successivamente, riforme per il riconoscimento dei diritti dei gruppi religiosi ed etnici in Iran e per l’apertura democratica in relazione alla libertà di espressione e di organizzazione politica. Dopo più di metà anno dal suo insediamento, è importante affrontare la questione se tali riforme debbano essere attuate sul serio o se siano state solo annunciate per stabilizzare il potere del governo in superficie.

Sarà possibile con Rohani un cambiamento politico democratico in Iran, o la precedente politica di soppressione delle “minoranze” verrà solo adornata con belle parole?

In tutto il Medio Oriente attualmente si stanno verificando cambiamenti; se si guarda alla Siria, alla Turchia, all’Iraq o agli altri paesi della regione. Segmenti della popolazione aspirano a una democratizzazione della loro società, altri segmenti ad una islamizzazione. In particolare, l’opposizione in esilio senza una base tra la popolazione aspira spesso a una condizione subordinata in una nuova dipendenza coloniale, nel quadro delle strategie dell’Unione europea e degli Stati Uniti, secondo la propria partecipazione al potere e ai profitti.

Nel Rojava, i cantoni curdi della Siria, la popolazione organizzata in maggioranza dal Partito dell’Unione Democratica (PYD), sia contro gli attacchi del regime sia contro i seguaci di Al Qaeda sostenuti dall’estero, è passata a una “terza via”, un percorso di autogoverno democratico con la partecipazione di tutti i gruppi di popolazione e gruppi religiosi. Curdi, cristiani, armeni e arabi sono coinvolti nelle amministrazioni autonome dei governi regionali fondate nel frattempo, e stanno lavorando insieme per costruire una società valida e solidale. Le province curde sono di conseguenza in Siria attualmente le uniche stabili.

Anche l’Iran non può sfuggire del tutto alla dinamica dei cambiamenti nell’intera regione, nonché agli effetti degli interventi delle (neo) potenze coloniali occidentali. L’insediamento di Rohani alle elezioni presidenziali è una mera risposta a questo “cambiamento”. Rohani è saldamente radicato nella élite iraniana al potere, ma ha la capacità di agire “con sensibilità” a livello internazionale . Per anni è stato presidente della delegazione iraniana ai negoziati sul programma nucleare iraniano. Come conseguenza il governo di Rohani si è ora spostato verso l’Occidente in relazione al programma nucleare iraniano, per risolvere la crisi dell'”isolamento”. Se questo sia sufficiente a placare gli “attori occidentali”, o se questi ultimi attaccheranno direttamente o indirettamente l’Iran “a tempo debito”, è ancora da vedere.

Rohani è generalmente considerato moderato. Questa reputazione moderata è tuttavia contraddetta dal fatto che anche dopo la sua elezione è stata messa in atto una nuova ondata di esecuzioni contro i prigionieri politici e sociali. In questo modo la popolazione apparentemente dovrebbe essere gettata di nuovo nella paura e nel terrore, e allo stesso tempo impedita nell’organizzazione politica auto-determinata. La pressione contro il gruppo religioso di Yarsan, tra cui vi sono molti curdi, ha assunto sotto Rohani proporzioni ancora più vaste rispetto al passato. Negli ultimi mesi si è assistito dunque a diverse auto-immolazioni in segno di protesta – soprattutto da parte delle donne.

I requisiti minimi per una democratizzazione dell’Iran dovrebbero includere la cessazione di una tale oppressione e politica di sterminio, oltre a consentire il lavoro politico e di autogoverno locale. Anche la soluzione democratica della questione curda sarebbe un aspetto essenziale per consentire la democratizzazione del paese. In questo senso, il Partito della vita libera in Kurdistan (PJAK) si schiera per una “terza via” per il Kurdistan orientale (Rojhilat) e per tutti i gruppi di popolazione in Iran. Le persone dovrebbero essere coinvolte direttamente, in un Iran sovrano, nell’organizzazione della vita delle proprie regioni nel quadro delle strutture di auto-governo locale organizzate in consigli. Ciò non riguarda solo i kurdi che vivono in Iran, ma anche gli azerbaijani, i luri, gli arabi, gli armeni, i baluchi, i turkmeni e i cristiani.

Il PJAK e il governo iraniano si trovano dal 2011 in una tregua, da quando l’esercito iraniano insieme all’esercito turco cercò senza successo e riportando gravi perdite di penetrare nel territorio di Qandil per attaccare il PJAK e il PKK. Da allora il PJAK ha anche cercato di avviare un dialogo con il governo. Un dialogo di successo potrebbe portare a una stabilità politica interna ed esterna dell’Iran, tenendo conto della ricchezza culturale. Sarebbe basato su una lunga tradizione. Prima dell’acquisizione del potere da parte dei safavidi, i governanti nell’area persiana hanno coinvolto per secoli i diversi gruppi demografici e religiosi nell’organizzazione della società. Così nacque la prosperità, la stabilità e una società culturalmente ricca.

Nonostante il fragile ma durevole cessate il fuoco, la repressione contro i curdi politicamente attivi non si è fermata fino ad oggi. Ci sono ancora diciassette curdi condannati a morte nel braccio della morte, migliaia sono imprigionati. I prigionieri politici sono regolarmente torturati, spesso fino a provocare lesioni gravi e irreversibili.

E’ importante sapere che i centri politici in Iran sono il leader religioso Khamenei e il consiglio religioso. Anche l’esercito ha un grande potere economico e de facto. Attualmente vi è un conflitto per la supremazia tra i militari e il consiglio religioso. I militari tentano sempre più di acquisire potere, e si appoggiano a collegamenti mafiosi nella prostituzione e nel traffico di droga, per espandere la propria sfera di influenza e controllare la popolazione.

In questa costellazione di potere, non può essere un presidente da solo a realizzare cambiamenti fondamentali, ma solo una popolazione organizzata che dà espressione alle proprie richieste attraverso l’azione politica, almeno quando incontra l’apertura di parti rilevanti delle élite dominanti.

Le richieste e le politiche del PJAK

Nel 2004 si è formato il PJAK, con la richiesta di un sistema democratico e di un auto-governo democratico in Iran. Dalla sua istituzione, è l’organizzazione più attiva e influente nel Rojhilat (in kurdo: est). Ha un forte sostegno nella popolazione ed è attualmente la forza di opposizione più forte all’interno di tutto l’Iran. Molti altri partiti di opposizione, attraverso anni di repressione e di emigrazione dei membri in esilio, si sono dissolti, indeboliti o resi quasi impotenti.

Questo vale anche per i due partiti precedentemente più forti, PDK-I (Partito democratico del Kurdistan iraniano), e Komala (Organizzazione rivoluzionaria dei lavoratori del Kurdistan iraniano). Soprattutto le donne, gli studenti e i giovani sono le forze dinamiche all’interno del PJAK. Il partito è riuscito negli ultimi anni a sviluppare in modo significativo la coscienza politica della popolazione del Kurdistan orientale.

Il PJAK chiede che tutti i gruppi demografici e religiosi siano coinvolti nelle discussioni e nella formazione del futuro del paese. “La mentalità della nazione unica in cui tutte le “minoranze” vengono assimilate, come praticato dal regime per decenni, non esprime lo spirito della popolazione”, dice in proposito Fuad Beritan, membro del PJAK. Il PJAK non è un classico movimento di liberazione nazionale.

Le sue richieste non sono mirate alla creazione di uno stato nazionale curdo o solo al riconoscimento dell’identità curda. Mette in relazione la liberazione della popolazione curda con la liberazione sociale. Questo include la liberazione delle donne e un orientamento ecologico. Per implementare questo, il PJAK è contro ogni forma di centralismo politico. Ritiene che la popolazione possa decidere meglio, come una società in grado di sviluppare il bene di tutte le persone.

In Iran vivono tra gli 8 e i 14 milioni di curdi. La maggior parte di loro nelle province di Urmîya, Sine Samandadsch e Kurdistan. Anche a Ilam, Kirmashan (Kermanshah), Azerbaijan occidentale, Hamadan, Khuzestan e Lorestan vivono curdi. Dal momento che una delle 31 province dell’Iran si chiama Kurdistan, dovrebbero anche essere dotati di un quadro giuridico adeguato. La concessione dei diritti politici e culturali e l’autogoverno per i curdi potrebbe essere un buon passo avanti verso la stabilizzazione dell’Iran.

La repressione in Iran, oltre alla tremenda repressione contro le persone politicamente attive, in un certo modo lavora ad un livello più sottile. L’insegnamento della lingua madre o il diritto a praticare la propria cultura non esiste, nonostante l'”autorizzazione” legale. Tutte le culture delle “minoranze” vengono stigmatizzate nell’istruzione, sui media e dai governanti, e denunciati come inferiori. L’obiettivo è che i figli di curdi e altri gruppi della popolazione si vergognino della loro origine e, infine, neghino la loro cultura.

La repressione dei curdi è anche condizionata dalla religione, poiché la maggior parte di loro è sunnita o segue la religione di Yasar, mentre il regime ha un orientamento sciita. Attraverso una sistematica politica di discriminazione in ambito economico, culturale, sociale e religioso, prevalgono in molte parti delle regioni curde disoccupazione, povertà e migrazioni forzate. Inoltre, droga e prostituzione sono specificatamente utilizzate per spezzare la resistenza dinamica dei giovani e delle donne curde.

Revar Awdanan del Consiglio del PJAK racconta la storia del partito: “In primo luogo, il regime ha cercato di fermare le nostre attività legali con torture e persecuzioni. In ultima analisi, visto che non esisteva più alcuna strada democratica, per non essere annientati siamo andati in montagna e ci siamo organizzati nella guerriglia.

Con la presa del potere di Ahmadinejad la situazione si è poi ulteriormente deteriorata. Gli altri gruppi di opposizione e di popolazione erano già stati ridotti al silenzio. E’ accaduto tra l’altro a baluchi, azerbaijani, turkmeni, arabi, armeni e assiri. Il PJAK praticava la strategia della legittima difesa. Per difendere non solo se stessi ma anche gli altri gruppi di popolazione in Iran, le loro culture, i diritti umani e la dignità umana. Lavoriamo per democratizzare la società iraniana e le altre società nel Medio Oriente”.

La partecipazione alle attività del PJAK è ancora oggi sanzionata con la tortura e la pena di morte. E’ sufficiente partecipare alle riunioni politiche, distribuire giornali o solo essere accusati senza motivo. Le confessioni sono spesso estorte con la tortura, non c’è un diritto al giusto processo per i prigionieri politici in Iran.

Il PJAK ha un movimento di donne, e donne nella guerriglia. Per questo è nella posizione di liberare le donne dalla repressione domestica e statale. Il PJAK ha anche istituito una sua accademia delle donne. Sviluppando così la fiducia in se stesse danno a tutto il partito un’importante spinta. Questo vale per l’auto-difesa, ma anche per lo sviluppo dell’ideologia. “Seguiamo le idee per una autonomia democratica di Abdullah Öcalan.

Senza la liberazione delle donne non è possibile la liberazione della società”, afferma Awdanan. “Sulla base di questa prospettiva, sempre più persone sono entrate recentemente nel PJAK o sostengono il nostro lavoro. Molte persone lavorano intensamente per la libertà anche senza esserne membri. Se il governo rispetta i diritti di tutti i gruppi, la terra può essere trasformata in una democrazia stabile. Se non lo fa, prima o poi il popolo si ribellerà. Un grande rischio è un intervento dall’esterno. Questa per sarebbe una soluzione inaccettabile che farebbe precipitare il paese nel caos. Il popolo deve sviluppare da sé la democrazia”.

Il PJAK non guarda dunque alla lotta militare come soluzione per il problema curdo o per la democratizzazione dell’Iran, bensì alla lotta politica di una popolazione illuminata che deve di mobilitarsi.

Conclusioni

E’ molto importante che il governo Rohani prenda le distanze dalla politica di Ahmadinejad e rilasci tra l’altro tutti i prigionieri politici. Rohani non può fermarsi all’annuncio di una democratizzazione in campagna elettorale. Il diritto di riunione pacifica, la libertà di espressione e la libertà di associazione sono momenti centrali di una democrazia e devono essere concessi, la tortura e la pena di morte devono essere abolite.

La “terza via” richiesta dal PJAK dell’autogoverno locale e del dialogo fra tutti i gruppi della popolazione sarebbe un buon passo per uno sviluppo democratico sostenibile. In particolare, nel quadro della forte pressione internazionale sul governo iraniano, un cammino autonomo verso la democratizzazione sarebbe certamente più favorevole per l’equilibrio del paese di un nuovo distruttivo intervento neo-colonialista dall’esterno come in Afghanistan, Iraq, Libia o in Siria. Solo attraverso la partecipazione democratica si può spezzare il circolo vizioso di violenza e contro-violenza.

Sarà difficile che l’élite iraniana al potere accetti un tale cambiamento se non ne ravvisi l’impellente necessità. Attori internazionali come l’Unione europea e gli Stati Uniti non hanno grande interesse per una democratizzazione autodeterminata della regione e dei curdi.

Il co-presidente dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK) Cemil Bayik ha valutato la situazione in un’intervista rilasciata all’agenzia di stampa Firatnews (ANF) a fine dicembre 2013: “Il cessate il fuoco tra Iran e PJAK è importante. Volevamo e continuiamo a volere che venga rispettato. Le domande sul futuro dell’Iran dovrebbero essere risolte attraverso il dialogo e le trattative con i curdi.

L’abbiamo suggerito sia all’Iran sia al PJAK. In ultima analisi, sarà necessario trovata una soluzione politica. In Medio Oriente non si può trovare attualmente una soluzione alla questione curda senza accettare i curdi e il loro diritto a una vita libera. […] Tuttavia, l’Iran non ha ancora sviluppato un approccio chiaro per la soluzione della questione curda e si comporta passivamente in una fase di sviluppo dinamico di tutta la regione del Medio Oriente. […]

Sono esecuzioni politiche, quelle che si svolgono attualmente in Iran. Certo è che i curdi iraniani non possono essere dissuasi dalla loro volontà ad una vita libera e democratica da questa politica di esecuzioni. […] Forse il tentativo da parte del governo iraniano di creare un equilibrio in politica estera, continuando allo stesso tempo a reprimere la popolazione del paese, fino ad oggi in un certo senso ha avuto successo. Ma siamo convinti che sia un errore credere che l’Iran possa continuare a guadagnare influenza attraverso una tale politica. Al contrario, solo una stabilizzazione politica interna dell’Iran può proteggere meglio contro i rischi politici dall’esterno.

E questa stabilizzazione interna non funziona mantenendo la politica di repressione, ma rafforzando la fratellanza dei popoli e della democrazia. Questa è la nostra valutazione. [ … ] Ecco perché la questione curda in Iran deve essere risolta attraverso dibattiti, colloqui e negoziati all’interno dei confini dell’Iran”.

Il Presidente del PJAK Haci Ahmedi ha detto in un’intervista del gennaio 2014: “La popolazione in Iran vuole uno stato laico e democratico. Tutti i gruppi di popolazione non-persiani vogliono gli stessi diritti di cui godono i persiani. Niente più e niente di meno. Aspirano a questo in termini di diritti politici, sociali, culturali, economici e religiosi.

Non importa che nome gli si vuol dare – se autodeterminazione, autonomia, federalismo, confederalismo ecc – qualunque. Aspiriamo in Iran a uno stato federale dai confini aperti, visto che siamo consapevoli del fatto che non ci sono chiari confini territoriali tra i gruppi religiosi e di popolazione. In particolare, al fine di prevenire potenziali guerre civili future tra i diversi gruppi, vediamo questo modello come la migliore opportunità di sviluppo”.

di Martin Dolzer, giornalista, e Centro curdo per le Relazioni Pubbliche