La risposta non può essere il silenzio
Intervista a un medico dell’ospedale di Suruç, che racconta le condizioni terribili in cui lavorano. Tra la mancanza di medicinali e attrezzature e l’impossibilità di varcare il confine per arrivare a Kobane.
“Non voglio che esca il mio nome, né che ci siano video o foto dell’intervista perché le ripercussioni nei miei confronti potrebbero essere non solo causa di allontanamento dal lavoro, ma anche il motivo per cui lo Stato Turco mi imprigiona”.
Inizia così l’ intervista ad un dottore dell’ospedale di Suruç.
Tra un cay ed un biscotto ci racconta la sua esperienza sul campo. “Qui in città ci prendiamo cura di 60.000 persone con dottori sia turchi che curdi, suddivisi in tre policlinici. In questi 55 giorni di assedio le medicine offerteci dalla solidarietà internazionale sono finite subito. Ora non abbiamo più medicinali. Oltre ai feriti, le malattie continuano ad aumentare soprattutto tra i bambini: diarrea, malattie della pelle, influenza. 20.000 persone infatti vivono nelle tende. Oltre a queste poi, ci dobbiamo occupare delle 30.000 persone che vivono nei villaggi. E purtroppo non abbiamo abbastanza ambulanze, né macchine per poterci occupare anche di loro.
Le ambulanze del governo non si muovono durante la notte per “motivi di sicurezza”. Ma il motivo reale è che in questo modo non possono essere utilizzate per andare a prendere i feriti da Kobane. A causa di ciò 17 persone hanno perso la vita per mancato soccorso.
A Kobane c’è un piccolo pronto soccorso insufficiente per gestire le emergenze. Viene continuamente bombardato dall’ Isis. “Qui a Suruç ci sarebbero 30 dottori pronti a partire per dare il loro aiuto continua il medico – ma la capienza troppo piccola dell’ambulatorio fa si che ci sia solo una rotazione tra di loro. Per questo motivo quando ci chiamano, noi andiamo sempre sul confine”. Il gate però è controllato dall’ esercito turco. Viene aperto solo durante il giorno, saltuariamente e per qualche ora, ma non è abbastanza: “ogni volta dobbiamo fare pressione, spingere, costringerli ad aprire per recuperare i feriti. In tutto questo, come dicevo prima, le ambulanze non ci sono”.
“Andiamo noi con le nostre macchine; spesso trovandoci sotto la linea del fuoco. Il governo turco in tutto ciò, non dà alcun tipo di supporto neanche per quanto riguarda le medicine o i dottori. I medicinali costano troppo per chi come queste persone scappa da una guerra. In questo momento mancano gli strumenti essenziali: una macchina a raggi x e un respiratore. Queste sono le prime attrezzature che dobbiamo in qualche modo recuperare. Quindi quello che potete fare dall’Italia e dall’ Europa è costruire una raccolta fondi nei vostri territori per aiutarci a reperire il materiale che ci serve.”
Al ritorno da questa testimonianza, passiamo davanti ai campi profughi; vediamo i bambini che scorazzano nelle tendopoli, pensiamo al confine come ad una gabbia e ci ricordiamo dei bombardamenti della notte precedente. Una domanda allora ci facciamo: dov’è la comunità internazionale in tutto ciò? Cosa sta aspettando per iniziare ad aiutare attivamente queste persone?
Fino ad ora, l’unica risposta è stata il silenzio.
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