Kobane: Spari nel silenzio
Giovedì 6 novembre. I fuochi della sera li troviamo spenti al nostro risveglio. I musicisti sono ancora qua e la colazione diventa un momento collettivo e di racconto della serata. Ci sembra che il villaggio si riempia sempre più di popolazione. Incontriamo ora curdi che arrivano da tutta Europa: Olanda, Francia, Germania. Con loro è più facile dialogare, così, passando dall’inglese al francese, a farci descrivere meglio cosa accade nel Rojava e allo stesso tempo ci aiutano a tradurre le diverse interviste che abbiamo realizzato nei differenti dialetti curdi.
Verso le 10, fuori dalla moschea, troviamo un passaggio per Suruc e lì ci imbuchiamo subito in un internet point per un paio d’ore per inviare in Italia tutto il materiale prodotto. Finito il lavoro, torniamo al campo profughi e ci accorgiamo che qualcosa è accaduto. Giunti al Centro Culturale (altro presidio delle nostre reti) ci raccontano quello che è successo. Come ogni mattina, centinaia di persone si dirigono da Meheser al confine con Kobane per chiedere l’apertura del confine turco-siriano.
Ieri mattina a questa iniziativa si sono aggiunti anche gli artisti venuti il giorno prima per i 50 giorni dell’assedio a Kobane e in tanti hanno cominciato a cantare e manifestare. Quando un gruppo di un centinaio di persone ha tentato simbolicamente di superare il confine, l’esercito turco ha cominciato a sparare lacrimogeni ad altezza uomo e proiettili di gomma.
Non contenti, hanno poi aperto il fuoco all’impazzata uccidendo una ragazza: Kader Ortakaya, turca di 28 anni, appartenente al gruppo Collective Freedom Platform, era qui da più di 20 giorni e non era armata, se non dalla volontà di poter, nel proprio piccolo, dare una mano. Ci sono stati anche molti feriti. E di tutto questo nessuno sembra interessarsi: la stampa e i giornali non ne parlano. Come se fosse normale venire uccisi a 28 anni mentre si chiede l’apertura di un corridoio umanitario.
La sera al villaggio nessuno canta: bisogna onorare i morti.
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