Cosa significa la decisione degli USA per un ritiro dalla Siria?
Il Presidente USA Donald Trump, con il suo tweet di ieri „Abbiamo sconfitto lo Stato Islamico Siria” ha provocato una valanga di reazioni. Le prese di posizione seguite da parte della Casa Bianca, del Pentagono e del Ministero degli Esteri, mostrano che la decisione è stata presa senza accordo. Tra le persone sorprese da Trump c’è anche il consulente nazionale per la sicurezza John R. Bolton.
“In questo momento continuiamo la nostra collaborazione con i partner sul posto”, ha detto Robert Manning, portavoce del Pentagono, inizialmente evasivo. „Abbiamo iniziato a riportare a casa i soldati USA mentre passiamo alla prossima fase della missione”, è stato detto poi dalla portavoce della Casa Bianca, Sarah Sanders.
Più tardi un rappresentante del governo USA si è pronunciato sui seguenti dettagli:
– Il ritiro inizierà con la fine dell’ultima operazione contro Stato Islamico (IS).
– Il crono-programma per il ritiro USA dalla Siria comprende da 60 a 100 giorni.
– La partenza del personale del Ministero degli Esteri USA è prevista entro le prossime 24 ore.
Secondo un rappresentante del governo Trump avrebbe preso la decisione sul ritiro mercoledì in una telefonata con il Presidente RecepTayyip Erdoğan. Un altro rappresentante lo ha negato con le parole: “Ha preso la decisione da sé. Non l’ha discusso con Erdoğan, ma lo ha solo informato di questa decisione”.
Un altro rappresentante del governo USA ha dichiarato che le Forze Siriane Democratiche (FSD) sarebbero state informate della decisione del Presidente mercoledì mattina.
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All’inzio del mese il capo di stato maggiore USA Joseph Dunford affermava ancora che gli USA intendevano equipaggiare e addestrare dalle 35.000 alle 40.000 “forze locali” in Siria del nord. Dopo questa affermazione, come si è arrivati all’improvvisa decisione sul ritiro, quando finora solo il 20 percento di questo piano è stato attuato?
Ricordiamoci due cose per togliere a questa situazione l’effetto sorpresa:
La promessa elettorale del governo Trump nell’anno 2016, era il ritiro immediato dalla Siria. Ma per via della pressione del Pentagono e degli alleati nella regione del Golfo, questo piano è stato messo agli atti e la missione nella regione attualizzata con tre obiettivi centrali:
– La vittoria contro IS
– Il ritiro di elementi iraniani
– Una transizione politica in Siria
Secondo il piano. il territorio controllato a est dell’Eufrate sarebbe il più importante asso nella manica nell’impostazione del futuro della Siria. Lo aveva detto Rex Tillerson prima di dare l’addio all’incarico di Ministro degli Esteri.
Nel frattempo Trump ha cercato di coinvolgere i suoi alleati nel Golfo, incoraggiandoli a spostare militari nella regione e a dare sostegno finanziario. Mentre ci si aspettavano dagli arabi dai quattro ai cinque milioni di dollari, i mezzi investiti nel Progetto-Eufrate sono arrivati solo di 350 dollari. Doveva essere fondata e impiegata in Siria una “Nato araba”. Anche questo era fantasia pura.
Anche il piano per arginare l’Iran non ha dato frutti. Gli statunitensi parlarono con le FSD di avanzare da Deir ez-Zor fino alla base militare presso al-Tanf sul confine con la Giordania e di chiudere all’Iran il valico di confine dalla Siria in Iraq. L’esercito siriano con un’offensiva rapida ha vanificato questo piano. Quando la strategia per ricacciare indietro l’Iran non ha funzionato come previsto, la collaborazione con la Russia è stata considerata un percorso diretto.
Il fronte sud, che si trova sotto il controllo del centro operativo a guida USA situato nella capitale della Giordania Amman, a fronte della promessa della Russia di rimuovere forze iraniane a 80 – 100 chilometri dal confine, con il venire meno del sostegno USA è crollato. Questa strategia era vantaggiosa anche per l’Iran. Alla fine dei conti aveva vinto il suo alleato Siria. Con la fine di IS era evidente che per gli USA sarebbe diventato difficile restare in Siria con il pretesto di bloccare IS. Inoltre questo strapazza anche le relazioni turco-statunitensi.
Per questo è iniziata la ricerca di una nuova strategia. L’idea principale consiste nel comprare la trasformazione politica nel Paese, reperendo dai 300 ai 400 miliardi di dollari che sono necessari per la ricostruzione della Siria. Per questo un dialogo con Damasco è inevitabile. Mentre nel processo di Astana la Turchia, l’Iran e la Russia sono arrivati al punto di fondare un comitato costituente, tra gli arabi ha avuto risonanza la posizione che il futuro di un Paese arabo non si deve lasciare ad altri. La delegazione di arabi sauditi e degli Emirati Arabi a Damasco, il messaggio solidale del Bahrain verso Damasco, l’apertura di un valico di confine tra la Giordania e la Siria, la visita a Damasco del Presidente sudanese Umar al-Bashir e l’inversione a “U” dell’Unione Araba, vanno intesi in questo quadro.
Se ci fossero stati i risultati sperati, gli USA avrebbero dovuto mettere fine alle loro storie in Siria. Ma la nuova strategia non aveva bisogno di un ritiro così rapido. Proprio su questo punto diventa rilevante il fattore Turchia. Ankara con la pressione di un’operazione in Siria dell’est ha spinto Trump alla scelta tra la Turchia e i curdi. Il governo USA dal 2016 a oggi ha tenuto in sospeso la Turchia con tattiche per ammansirla e distrarla per non arrivare a questo punto. Forse Trump ora ha colto questa pressione di Ankara anche come occasione per tornare al suo piano originario.
Riconquistare la Turchia e strapparla dalla morsa russa era in ogni caso la priorità predominante in un’ala del governo USA. Con il piano di attirare a sé la Turchia, il Ministro degli Esteri martedì ha tollerato la vendita di un sistema di difesa anti-missile Patriot alla Turchia. Con questo gli USA hanno reagito all’acquisto turco di sistemi antimissile russi S-400. La seconda avanzata in questo contesto, si sviluppa ora in Siria.
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Cosa succederà adesso? Ci sono molte cose non chiare. Il ritiro da un lato può andare per le lunghe. Al momento si parla di un periodo dai due ai tre mesi. Mentre continuano le reazioni contro la decisione Trump, il ritiro si può complicare.
Secondo descrizioni di rappresentanti politici sul New York Times, gli argomenti di nomi come il Ministro della Difesa degli Stati Uniti James N. Mattis, che sarebbe un “tradimento dei curdi”, “i curdi potrebbero diventare vittime di un attacco turco”, “l’influenza della Russia e dell’Iran crescerebbe“ e “che un allontanamento dai curdi renderebbe più difficile per gli USA conquistare la fiducia di forze locali nella regione dall’Afghanistan, allo Yemen fino alla Somalia”, potrebbero portare questo processo su un altro livello. E con IS, non è ancora finita come ha dichiarato Trump. Accanto a Mattis, anche il Ministro degli Esteri degli Stati Uniti, Mike Pompeo, l’incaricato speciale per la coalizione internazionale contro Stato Islamico, Brett McGurk, e il rappresentante speciale degli USA per la Siria, James Jeffrey, hanno dichiarato che il controllo di IS su determinati territori continua ancora. Ovviamente un ritiro non equivale alla fine delle operazioni contro IS. Gli USA possono continuare le operazioni attraverso l’Iraq e la Turchia.
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Un punto ignoto è se Trump come contropartita in cambio del ritiro ha fatto un accordo con Erdoğan. Il ritiro dei soldati USA non equivale a un via libera per l’operazione pianificata dalla Turchia. Nonostante questo bisogna porre la domanda se Trump potrebbe aver spiegato a Erdogan quanto segue: “Noi ci ritiriamo, state tranquilli e lasciateci regolare questa vicenda con un accordo politico.” Oppure Trump ha trasferito il ruolo del gendarme, che aveva pensato per gli arabi, al partner NATO Turchia e in questo modo vuole imporre gli interessi statunitensi? Non poche congetture vanno in questa direzione. Secondo Nicholas Heras del Center for a New American Security, Trump ha creduto alle parole di Erdogan, che avrebbe tolto dalle spalle degli USA il peso della Siria.
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Mentre nasce un nuovo equilibrio, la posizione della Russia rispetto alla questione se la Turchia attraverserà o meno l’Eufrate, è critica. È stata una decisione utile per la Russia quella di liberare il percorso per un’operazione per mettere in difficoltà sia la presenza militare USA sia aprire crepe nelle relazioni tra i due alleati nella NATO e conquistare i curdi per compromessi con Damasco. Ma il ritiro degli USA può solo ostacolare questa opzione. La Turchia al posto degli USA non va bene né alla Russia né all’Iran o alla Siria. Inoltre la Russia vede che senza il coinvolgimento dei curdi non si può raggiungere una soluzione duratura. Su questo punto non fanno neanche mistero dei loro conflitti con la Turchia.
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Non è chiaro quello che aspetta le FSD e la popolazione curda in Siria Quando hanno preso la decisione di ingrandire il progetto con il sostegno degli USA che nel 2014 sono arrivati “senza invito”, e di andare fino a Raqqa e Deir ez-Zor, a questo legavano tre aspettative:
– Rimuovere IS come pericolo dalla zona dell’Eufrate
– Protezione da possibili operazioni della Turchia e dell’esercito siriano
– Riconoscimento politico
Nella regione si trovavano anche diplomatici statunitensi, ma la speranza di un riconoscimento delle strutture democratiche di autogoverno è stata vana. Il silenzio degli USA della presa del controllo su Kirkuk, tolto al governo regionale curdo e passato al governo centrale iracheno, lo scorso anno è stato un brutto segnale per possibili sviluppi in Siria. Intanto non c’era un impegno concreto, ma la partnership americana non ha avuto un effetto deterrente ad Afrin.
Ora i curdi per una prevenzione di un possibile attacco turco possono solo osare un accordo con il governo siriano. La Turchia invece probabilmente continuerà a sfruttare la sua presenza militare come fattore deterrente per impedire uno status per i curdi. I curdi si trovano nella posizione di “prezzo del sangue” per una nuova stretta di mano tra Ankara e Damasco. La mano dei curdi questa volta è più debole e non è chiaro se Damasco sarà in grado di soddisfare o meno Ankara. E qui aumenta di significato l’influenza della Russia. Anche se la Turchia non si rivolgerà verso l’est dell’Eufrate, con il suo controllo militare su Afrin, Jarablus, Al Rai, Azaz e Al Bab e con le sue dozzine di organizzazioni a Idlib può continuare ad influenzare i processi. Se questi conti torneranno, ovviamente dipende dalla continuazione della sua partnership con la Russia e l’Iran.
di Fehim Taştekin, giornalista, Gazete Duvar.