La terza via di Kobane
In quello che i curdi siriani chiamano Rojava, si cerca di portare avanti la costruzione di una società più giusta oltre a una graduale riconquista della propria identità.
La SS48, la strada statale che attraversa la Siria del Nord, è un racconto per immagini. Case semi distrutte circondano l’asfalto ed è difficile capire se siano destinate a rimanere macerie o tornare a ospitare la vita. Ma a Kobane no, non ci si può sbagliare. A Kobane tutto quello che è in piedi è stato ricostruito dopo la cacciata dello Stato islamico della Siria e del Levante (Isis). All’ingresso della città, diventata simbolo della resistenza agli jihadisti dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, ci sono una trincea, un posto di blocco e il cimitero dei martiri. Dall’altra parte della strada un salone per celebrare i matrimoni. La guerra e la sopravvivenza camminano ancora insieme, a Kobane: «Abbiamo i nostri martiri e stiamo soffrendo. Ma marciamo uniti verso il nostro obiettivo: veder riconosciuta la nostra esistenza». Rewsan è una donna di circa 50 anni. Siede nel cortile di casa sua, kalashnikov a fianco, sigaretta eternamente accesa. Quando, a fine 2014, i miliziani dell’Isis costrinsero i soldati curdo-siriani alla difesa degli ultimi due quartieri rimasti, Rewsan era a poche centinaia di metri di distanza, poco distante dal confine con la Turchia. Quando le Unità di protezione popolare (Ypg, in curdo Yekîneyên Parastina Gel), le Unità di difesa delle donne (Ypj, Yekîneyên Parastina Jin) e i bombardamenti della coalizione occidentale a guida americana hanno invertito il destino della battaglia, Rewsan è tornata nella sua Kobane. A combattere e a portare il tè agli altri combattenti. «Ho cinque figli, tutti sono impegnati nel nostro movimento di autodeterminazione dei popoli. Non ho dovuto mai dirgli niente, hanno deciso da soli», racconta. Come altre donne, Rewsan fa parte delle Forze di difesa civili (Hpc, in curdo Hêzên Parastina Cewheri) che pattugliano Kobane e le altre città curde, giorno e notte.
Il Kurdistan siriano, o Rojava in curdo, è dentro la guerra fino al collo. Sin dall’inizio, dal 2011, i curdi hanno scelto una terza via: né con il regime di Bashar al-Assad, né con i ribelli. Quando la rivoluzione ha preso la deriva delle divisioni e delle ingerenze straniere, i curdi e gli altri popoli della regione hanno deciso di puntare all’obiettivo impossibile: guadagnare l’autonomia delle loro terre. Repressi per decenni nell’identità – non potevano parlare né insegnare la loro lingua, suonare la loro musica, usare le lettere dell’alfabeto finora bandite perché usate solo dai curdi, usare nomi curdi, avere carte d’identità, ambire a posti di rilievo nella pubblica amministrazione – i curdi si ritrovano adesso a capo di un esercito protagonista nella liberazione di Raqqa. La città sull’Eufrate, che da metà 2014 è stata la capitale dell’autoproclamato califfato dell’Isis, è quasi interamente tornata nelle mani delle Forze democratiche siriane (Sdf), le truppe curde, siriache, arabe e turcomanne create e armate dagli Stati Uniti per liberare la Siria nord-orientale dall’Isis e gettare le basi per un futuro autodeterminato dalle popolazioni locali.
Per arrivare a Raqqa si deve attraversare un deserto pieno di profughi e villaggi abbandonati. Migliaia di persone stanno scappando dalla città per evitare le bombe della coalizione o di diventare scudi umani nella disperata resistenza dei jihadisti. «Fra chi scappa spesso ci sono terroristi in incognita e dobbiamo stare molto attenti», racconta il comandante Hery, a capo del battaglione del fronte Nord di Raqqa. È quanto successo al campo di Ain Issa, una tendopoli da centomila posti in mezzo al deserto, diventato casa provvisoria per chi è riuscito a caricare in macchina un materasso e qualche pentola e lasciare la vecchia vita. Qui, pochi giorni dopo l’apertura, un uomo è entrato armato di pistola e coltello e ha ucciso una decina di persone, prima di essere ucciso: «Arrivano in uno stato di completa alterazione, sotto l’effetto delle droghe», racconta Mustafa Hadid, un dottore scappato sei mesi prima da Raqqa e che adesso fa il volontario al campo. «Conosco bene quello che può fare l’Isis. Ho visto con i miei occhi uomini decapitati o buttati dal tetto di un palazzo perché avevano infranto una delle mille loro regole. Non davano valore alla vita, per l’Isis era importante solo che fosse rispettato il volere di Allah». Racconti e paure si susseguono, man mano che l’avanzata delle Sdf libera villaggi e anime: «Per mesi ci siamo nascosti in questo scantinato, tre metri quadri a famiglia», racconta un ragazzo di Tabqah, la città sulla diga Assad sottratta all’Isis poco prima che iniziasse la battaglia di Raqqa. Uomini con la barba finalmente tagliata tornano a vedere cosa è rimasto delle loro abitazioni, schivando le mine lasciate dai jihadisti in fuga e rimettendo insieme i pezzi della vecchia esistenza. Le vite del dopo Isis sono atomi impazziti. Nel campo di Ain Issa si trova una decina di donne, vedove dei jihadisti catturate a Raqqa insieme ai loro figli. Bambini che, ormai a centinaia, dovranno trovare il modo di dimenticare il lavaggio del cervello subìto a colpi di fondamentalismo. Accanto a loro intere famiglie che non hanno più nulla, ferite, dimezzate, lontane da tutto quello che conoscevano prima dell’arrivo delle bandiere nere. Il contesto è un cumulo di rovine: Raqqa non esiste più, come non esiste più Sinjar in Iraq e come non esisteva più Kobane: «Stiamo ricostruendo la nostra città con le nostre mani e il nostro cemento – racconta Yadgar, intento a tirar su le pareti della sua cucina, a poche decine di metri dal confine con la Turchia – Ma c’è una parte di Kobane, quella più distrutta, che non toccheremo. Rimarrà un museo a cielo aperto, per ricordare al mondo ciò che è stato. Kobane, una parola così corta, ha assunto il significato della vita che nasce».
La vita che nasce non ha solo l’aspetto dei nuovi palazzi. È un’idea, è la rivoluzione della Federazione Democratica della Siria del Nord. «In Rojava ci sono 38 partiti politici, controlliamo il confine di Semalka con il Kurdistan iracheno, abbiamo il petrolio e il grano. Costruiremo delle industrie, ce la faremo», profetizza Kardon, un curdo iraniano di 33 anni che sta per mettere piede per la prima volta nella Siria del Nord. Kardon è un professore di scienze politiche dell’Università di Dublino, da cui ha preso due anni sabbatici perché dalla Siria gli hanno detto che c’era bisogno di lui: «Vogliamo costruire la prima università di scienze politiche in Siria e mi hanno chiesto di formare gli insegnanti. È il mio contributo al movimento. E sì, so che questa scelta potrebbe essere senza ritorno. Potrei rimanere per sempre in Siria». Il movimento è il Tev-Dem, sigla curda per «movimento per una società democratica» che comprende al suo interno tutte le componenti etniche, religiose e di genere. Guida l’autorità regionale, le province, le regioni e i singoli quartieri di tutto il Rojava. I comitati cittadini si riuniscono e prendono decisioni, in un meccanismo che ha nelle donne il suo motore: «Così come nell’esercito, anche in politica ci sono assemblee miste di uomini e donne e altre solo al femminile. Ce lo ha insegnato Abdullah Ocalan: nessuno può decidere sulle cose che riguardano le donne, se non le donne stesse. È questo il cuore della nostra rivoluzione», spiega Bahia Morad, decana della casa delle donne di Qamishlo. Le case delle donne sono i luoghi deputati ad ascoltare e a fare politica sulle istanze di genere. Una delle ultime conquiste è stata Hamala Jin, una legge del 2014 che ha corretto molte storture nei rapporti sociali nella Siria di Assad: «La poligamia non è più legale, la violenza sulle donne è reato, dare in sposa una bambina è reato, così come dare una donna in dote alla famiglia dello sposo. Per quanto riguarda il lavoro, i salari sono stati equiparati e se c’è un divorzio la donna ha gli stessi diritti dell’uomo, mentre prima valeva la legge islamica e la parola della donna non aveva importanza. Non male, no?», sorride Bahia.
«È meglio vivere solo 20 anni da uomo libero che 100 da schiavo», dice il nostro autista, contento perché a fermarci per un controllo sia stato un poliziotto curdo con cui ha potuto parlare in curdo. Una novità per lui, curdo di Turchia da cui è scappato dopo una condanna a 35 anni per il suo attivismo politico nel movimento. La libertà dei curdi siriani esplode nella musica. Capita di poter sfruttare la rinnovata sicurezza di Kobane per una passeggiata notturna ed essere attratti da una finestra semi aperta da cui esce un canto. Sono Delil e Xemsin, una giovane coppia che, lui al saz (la chitarra saracena) e lei alla voce, fanno parte della neonata accademia musicale di Kobane. A scuola infatti, oltre alle materie classiche si insegnano la musica, la lingua curda, l’arabo, l’inglese e le religioni, non solo quella islamica. Ma c’è una cosa che ai bambini del Rojava ancora non appartiene: «Questa guerra e gli orrori dell’Isis hanno minato la serenità dei nostri bambini. Per mesi hanno fatto solo disegni e giochi violenti – ricorda Shirin, insegnante di matematica –. Adesso sono costretti a giocare tra le macerie. Ci sono ancora cadaveri sotto le case distrutte dalle bombe. Ai nostri figli manca ancora la bellezza. Ma ci stiamo lavorando. La bellezza è fondamentale perché vivano una vita etica».
Rojava, spina nel fianco per Ankara
Il Kurdistan siriano (Rojava) continua ad essere una delle principali preoccupazioni della Turchia. Ankara sta provando in tutti i modi a bloccare i curdi siriani. Nell’agosto 2016 aveva lanciato l’operazione Scudo dell’Eufrate in Siria, per impedire che i curdi unissero tutti i loro territori a ridosso del confine. I cantoni curdi (Efrin a ovest, Kobane e Hasakah a est) ancora oggi non sono uniti di fatto, ma i rapporti di collaborazione con le truppe di Assad e con la Russia permettono una sorta di ponte via terra. Negli ultimi mesi la Turchia ha aumentato la pressione militare nei pressi di Silopi, a ridosso del confine con la Siria e non distante dal Kurdistan. Il timore di un’offensiva in grande stile non è venuto meno da aprile ad oggi, quando le bombe turche furono un segnale chiaro. Ankara però deve scontare il veto degli Stati Uniti, che hanno nei curdi siriani il miglior alleato nella lotta contro l’Isis e nella battaglia per la riconquista di Raqqa, l’autoproclamata capitale del califfato.
La Turchia sta cercando con ogni mezzo di convincere gli Usa ad abbandonare i curdi, ma Washington finora ha fatto orecchie da mercante. Proprio agli Usa i curdi siriani si sono rivolti dopo gli attacchi della primavera: «Una nazione che combatte il più brutale gruppo terrorista oggi è sotto attacco – ha dichiarato Salih Muslim, leader del partito curdo siriano Pyd legato alle milizie Ypg –. La coalizione internazionale non può più stare in silenzio e accettare questo assalto».
E la Turchia? Ankara giustifica i bombardamenti come autodifesa, sottolineando i legami tra curdi siriani e Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), spesso accusato di azioni terroristiche all’interno della Turchia. Le azioni contro ik Rojava sarebbero da inquadrare come il tentativo di prevenire l’afflusso di armi ed esplosivi dalla Siria al Pkk turco.
testo di Andrea Milluzzi
foto di Linda Dorigo