Love in a hopeless place
Il redattore del blog Lower Class Magazine Peter Schaber è stato a Raqqa – non come giornalista, ma nelle file delle YPG. Ha scritto per noi le sue esperienze al fronte. -In realtà potrei essere di nuovo in Germania da tempo. Quando otto mesi fa sono entrato nella Siria del nord non avevo né previsto di restare così a lungo né di prendere in mano un’arma. Inizialmente ho lavorato come giornalista, il mio lavoro appunto. Poi a volte come operaio edile, come operatore sociale, pulitore, interprete. La rivoluzione ha molti aspetti e quindi si devono fare diverse cose. Anche alcune che è necessario imparare dall’inizio.
Per me per esempio è stato il lavoro di difendere una rivoluzione sul campo di battaglia contro coloro che vogliono soffocarla. Prima non sapevo come si usa un fucile, una bomba a mano o un lanciarazzi. Quindi ho fatto un apprendistato. E a un certo punto è arrivato il giorno quando insieme a tre internazionalisti sono salito su una macchina per Raqqa.
Ancora 100 Chilometri
„La paaaaatria è lontana …“, così Heval Ciwan accenna la marcia della Colonna Thälmann, mentre corriamo lungo la Assad-Highway in direzione di Raqqa. „Ma noi siamo proooontiiiii” rispondiamo Kajin, Hogir e io. Portiamo il nostro rext, la cartucciera piena di caricatori, il kalashnikov è appoggiato al sedile anteriore e Heval Botan, un cecchino 17enne di Hasakeh distribuisce dolci e Pepsi. Alle canzoni tedesche della guerra di Spagna qui le compagne e i compagni autoctoni rispondono con la marcia del Rojava: „Kec u xorten soresvan …“ Non provo più nervosismo. Piuttosto curiosità e determinazione.
Ancora 30 Chilometri
Paesaggi di un verde sazio circondano Raqqa. L’acqua dell’Eufrate e un sofisticato sistema di irrigazione infondono la vita a questa zona.
Luoghi balneari popolari e arterie vitali nella regione – uno dei canali prima di Raqqa
Gli alberi si allineano in piccoli boschi, in mezzo frutteti, mais, prati. Davanti a tende di cuoio donne e uomini siedono insieme, circondati da pecore e mucche. Tutto sembra normale. Bambini e giovani ci salutano dal ciglio della strada con il segno della vittoria. Heval Dilser risponde al saluto, si gira verso di noi e dice: „Non prendetelo tanto sul serio. Quando qui c’era Daesh, salutavano con un dito alzato. E ora invece con due.“
Ancora 5 Chilometri
Scendiamo dal bus. Siamo in sobborgo di Raqqa. A qualche centinaio di metri di distanza inizia il cumulo di detriti che prima era la città. Salutiamo il nostro comandante di Cephe e passeremo ancora una notte sul tetto di quel rudere di grattacielo vengono guidati i destini dell’anello di accerchiamento a sudovest intorno ai miliziani dello Stato Islamico rimasti. Dai nostri materassi fissiamo come incantati la città completamente scura. C’è un bagliore. Gumm. Un botto. Crolla un edificio. Già da lontano i bombardamenti sono impressionanti. Tra poco li conosceremo da vicino.
0 Chilometri
Molte cose che si imparano in Rojava si capiscono passo per passo. Nel corso di settimane, mesi. Ma non cosa sia un fronte in una guerra come questa. Ti assale in modo repentino. Poco fa si era ancora fuori nella vita normale. Ora si è dentro la guerra.
Nöbet (settimana) sul balcone in una postazione dell’anello di accerchiamento occidentale
Quando arrivo nella guerra è sera. Tra gli occasionali colpi di artiglieria c’è silenzio quando il crepuscolo scende su Raqqa. Gli aerei, droni ed elicotteri hanno ancora davanti la loro opera notturna. Gli scontri che durante il giorno scoppiano di tanto in tanto con armi leggere e bombe si interrompono brevemente prima che tutto inizi davvero. La città diventa sempre più scura. I contorni della via lattea si rivelano in modo sempre più netto nel cielo stellato non coperto da un’illuminazione urbana. Ora tra le 20 di sera e le 7 di mattina, noi che siamo qui al fronte dobbiamo fare nöbet, stare di guardia. Di giorno non abbiamo quasi niente da fare, perché Daesh non si muove. Gli jihadisti stanno sotto terra, invisibili, in agguato. Quando il sole abbandona il cielo, iniziano gli attacchi.
La notte a Raqqa ha un’estetica particolare. Le rovine risplendono nella luce della luna, luce elettrica non ce n’è. Il clima è gradevole, spesso soffia un vento leggero e a volte fa perfino un po’ fresco. Nella città già morta quasi non si sentono rumori. Nessuno parla, nessun televisore disturba i vicini, non ci sono bambini che gridano. Ci potrebbe facilmente convincere che una guerra atomica o un virus abbia cancellato l’umanità e di essere rimasti da soli tra le rovine.
Ma il silenzio è un’astrazione. Esiste solo nei pochi minuti nei quali c’è una pausa delle esplosioni, bombe e degli spari che notte dopo notte e – di meno, ma comunque – giorno per giorno fa buchi nelle case, nelle strade e nelle persone. La sinfonia arriva da molti strumenti: le RPG e i fucili di precisione; i BKC e Kalashnikov; i mortai e obici che vengono sparati da un sobborgo, gli elicotteri che spesso sparano dozzine di razzi in sequenza.
E gli attacchi aerei. „Tra cinque minuti torna l’aereo. Sdraiatevi “, dice la mia comandante. Ci si mette per terra, alcuni incrociano le braccia dietro la testa. Lascio la bocca aperta, me lo ha consigliato un compagno, per via dell’onda d’urto. Quando arriva la bomba, prima fischia, poi si illumina il cielo, a partire dal punto in cui cade una luce brillante si estende sull’orizzonte. Poi arriva il botto che squarcia l’aria. Poi l’onda d’urto, i muri si piegano. Solo ora si sente la partenza del jet.
Sempre turno di notte – durante il giorno Daesh riesce a stento a muoversi in città.
Il mio lavoro in questa parte è semplice. Una giornata di lavoro tipo è più o meno così: mi inginocchio accanto a una colonna e guardo fisso dentro un buco nero. Ho messo un colpo in canna del mio AK, una compagna delle YPJ copre il balcone alle mie spalle dal quale guardiamo dalla strada nel territorio di Daesh. Siamo in stato di allarme. IS ha attaccato i posti di guardia accanto a noi con un RPG e cecchini. Il buco nero è la nostra rampa delle scale. Non è barricato. Il mio compito è che quando sento un rumore devo decidere se arriva il nemico o un gatto. Se è il nemico devo sparare o lanciare una bomba. Per cinque ore sto seduto davanti al buco, i muri accanto a me tremano per il fuoco di artiglieria e i colpi d’aria. Dal buco nero si sente cigolare, baccano, le centinaia di bottiglie di plastica vuote crepitano.
In questa notte arrivano solo gatti. Gatti che strisciano come striscerebbero persone. Gatti che urlano come persone che imitano gatti. E gatti che sfondano barricate, proprio come persone che sfondano barricate. „Se fossi Daesh, metterei a ogni combattente uno zaino pieno di gatti“, scherza uno del nostro gruppo. „Quando durante un attacco silenzioso per sbaglio fai un rumore tiri fuori in gatto, gli stringi un po’ il collo perché strilli e poi lo lasci andare. La sentinella pensa „ey, un altro gatto “. E via, ammazzi tutti.“ Inizio a odiare i gatti.
Se nelle prime notti ancora ci si spaventa per ogni rumore di un gatto o di un cane, presto però ci si abitua alla colonna sonora. Si è in grado di distinguere: animale, immondizia trasportata dal vento, porta aperta o chiusa dal vento, persona. Anche la melodia della guerra aerea che si ripete ciclicamente presto non è più una sensazione. Quando non si è di turno si dorme dimenticando le bombe.
Il nemico lo si vede appena. Solo poche postazioni dispongono di visori notturni. La maggior parte sparano contro movimenti o rumori. O appunto sulla vampata degli spari dell’avversario quando attacca. Daesh stesso lo conosciamo soprattutto dalle tracce che gli jihadisti hanno lasciato nelle case nelle quali entriamo quando avanziamo.
Reperti dei tempi passati – rovistando tra le nostre rovine troviamo bandiere, passaporti, liste di nomi, lettere e materiale per la formazione
In una postazione di Daesh troviamo un passaporto azerbaijano e – come sempre in queste occasioni – una gran quantità di pasticche: antidolorifici, oppiacei, rilassanti muscolari, roba che tiene svegli. Tutto intorno al luogo del ritrovamento c’è l’abbigliamento da battaglia del terrorista di IS. Deve esserselo tolto in fretta e averlo buttato lì. Forse si è sganciato. Nella stessa casa continuiamo a frugare e troviamo un piccolo tesoro: una scatola di materiali per membri stranieri di IS. Scritti più e meno voluminosi che introducono nel mondo del pensiero dello Stato Islamico: grossi tomi su come si debba punire il „sesso illegittimo“; un libretto che in base a passi del Corano cerca di dimostrare che gli attentati suicidi non sono haram; istruzioni su dove bisognerebbe colpire l’infedele quando per l’attacco si usa un coltello. E ricette scritte a mano per brownies di cioccolato e banane.
Leggiamo tutto scrupolosamente. I pensieri degli jihadisti ci sembra assurdo. Heval Ciwan ride. „Ascoltate come suona bene“, dice e ci legge da un opuscolo: „How to react when you encounter the enemy. Rule one: Keep calm. Rule two: think of the prophet very often. Rule three: Be patient. And noooooow the last rule“,Ciwan costruisce la curva della tensione. „Massacre the kuffar. Ci puoi stampare una maglietta: Keep Calm and massacre the Kuffar.“ I Kuffar, gli infedeli, tra l’altro, come apprendiamo da un altro scritto formativo, non siamo solo noi comunisti e tutti gli atei, cristiani, ebrei, whatever, ma anche il „95 percento dei musulmani di oggi“.
Nella scatola con gli scritti propagandistici troviamo anche indicazioni sui loro proprietari. Una coppia di olandesi che ha iniziato il cammino verso il Califfato. Troviamo lettere in olandese nelle quali i genitori si lamentano del loro figlio evidentemente ancora molto piccolo. Il suo entusiasmo per il modo di vivere islamico lascerebbe a desiderare. Quando vede donne mostrerebbe invece un interesse scostumato. Le lettere sono come rapporti sulla trasformazione del bambino in un islamista. I quaderni di scuola del bambino documentano i primi progressi nella scrittura della lingua araba. Sulla prima pagina ha disegnato con diligenza una bandiera di Daesh, poi solo gatti con dozzine di zampe e antenne come di un extraterrestre.
Gioie rare: Heval Ciwan si concede un Energy-Drink
Se si sta per qualche giorno al fronte la guerra vera e propria, fisica, contro lo Stato Islamico appare straordinariamente poco spettacolare. Perché ha contorni chiari: stiamo seduti dentro case che formano un cerchio intorno alle postazioni rimaste della milizia terroristica. Trasformiamo queste case in piccole fortezze e ci diamo il cambio nel sorvegliare strade ed edifici. Durante il giorno non fai praticamente niente. Di notte spari se succede qualcosa. O lanci bombe. La guerra contro Daesh è brutale. Ma la sua brutalità è banale. Chiaro, c’è un nemico che ti vuole uccidere. Vuole farti saltare in aria, con mine o razzi. Vuole buttarti addosso bombe da droni autoprodotti. O ti vuole semplicemente sparare in testa, nella pancia, nel cuore. Tutto questo non è particolarmente piacevole. Ma non è di gran lunga la cosa peggiore nella guerra. Perché questo nemico ti sta di fronte apertamente. Tu puoi difenderti. Anche tu hai un fucile. Non sei un oggetto, sei soggetto del tuo agire. Tu sei qui per una ragione che ha a che fare con le tue convinzioni più profonde. E fino a quando quelle ci sono, l’avversario militare non può farti niente.
La guerra molto più dura da fare è un’altra. Una che ti entra dentro molto di più perché attacca proprio queste profonde convinzioni. I miei compagni e io eravamo venuti qua per difendere un certo modo di vivere. Un progetto che deve rivoluzionare la vita insieme di tutti noi. Conoscevamo la guerriglia curda dalle montagne di Qandil, dal Bakur – alcuni per esperienze proprie, altri quantomeno da racconti. E questi la dimensione militare della lotta non li separa dalle parti politiche e sociali della rivoluzione. Che il PKK nonostante la lotta continua e dura non sacrifichi i principi della sua vita comune – relazione tra compagni, critica e autocritica, formazione – alla logica della guerra è quello che lo rende così forte – anche militarmente.
Il morale è alto: combattenti delle YPG posano per la fotocamera
Ma per questo ci vuole tempo. Perché in fondo significa che tutti coloro che vivono in montagna cercano di superare le loro idee liberali, feudali, sessiste, capitaliste, razziste e quali che siano, ereditate dalla società classista. La formazione dei guerriglieri dura, mesi, anni, tutta una vita.
Ma la guerra in Siria impedisce questa accuratezza. Da un lato sono morti centinaia se non migliaia di attivisti esperti nelle innumerevoli battaglie tra Kobanê, Minbic e Tabqa. Dall’altro la rapida avanzata ha risucchiato nelle strutture militari migliaia di persone che prendono le armi per motivi per niente ideologici: denaro, interessi personali, o semplicemente perché è una strategia di sopravvivenza quella di unirsi alla milizia rispettivamente più forte, vittoriosa nella regione.
Una guerra che viene condotta su così tanti fronti ha una dinamica propria. Il problema più grande a Raqqa non è la forza militare di Daesh. La crudeltà di questo inferno sta nel fatto che la guerra distrugge la vita per la quale qui in realtà combattiamo. Le migliaia di soldati, spesso molto giovani (e ormai in prevalenza arabi) che prestano servizio dalla parte delle YPG e QSD, sono uno specchio della società in Siria. Non hanno avuto alcuna istruzione, anche pochissimo addestramento militare. Gli ideali del movimento per il quale in realtà dovrebbero combattere li conoscono appena, meno che mai vivono secondo questi principi. Il fronte è un posto sporco, un posto che uccide solidarietà e amicizia.
L’afflusso di migliaia di persone la cui coscienza è impregnata della socializzazione nelle società sfasciate del Medio Oriente minaccia di rompere quel legame che caratterizza la guerriglia in montagna e che in realtà le YPG cercano di fare proprio: l’unità di costruzione civile, dell’impostazione della propria vita in comune e della lotta armata.
Equipaggiamento standard di una postazione Nöbet: kalashnikov, Bombe, buco, cicche
La lotta più difficile che oggi dobbiamo fare in Siria è contro la decadenza dei propri ideali. La lotta contro il fatto di diventare una milizia normale tra altre milizie. La lotta contro la mentalità di subordinare tutto alle necessità della guerra. Questa lotta abbiamo dovuto farla nelle nostre file. Questa è stata ed è la vera guerra che si prospetta su tutti i fronti. E ha portato tutti noi ai nostri limiti.
Siamo diventati incazzati, chiusi, respingenti. Abbiamo sviluppato pregiudizi. I problemi erano così pesanti che abbiamo dimenticato di analizzare le loro ragioni. Abbiamo iniziato a odiare persone e non le condizioni che le hanno rese quello che sono. Solo più tardi, da lontano, siamo riusciti di nuovo a pensare: perché qui tra i soldati della rivoluzione esistono forme di comportamento del genere? E la circostanza questa per cui le persone qui siano diventate come sono, ha le sue cause anche decisamente nel colonialismo e nello sfruttamento da parte dei Paesi dai quali veniamo? E con chi vogliamo fare la rivoluzione se non esattamente con queste persone?
Accanto al fatto che il modo di vivere al fronte non voleva affatto corrispondere alle nostre aspettative – effettivamente ingenue – la presenza degli americani ci dava filo da torcere. Potevamo capire la necessità di questa collaborazione, ma emotivamente era un peso per tutti noi. Stare dalla stessa parte di questi assassini e oppressori ci era difficile. Cercavamo di spiegarlo almeno a quelli che si aggrappavano all’illusione che i piloti bombardieri e artiglieri di Washington fossero nostri amici.
C’erano compagni giovani che gioivano dei rumori delle detonazioni. Non potevamo prendercela con loro per questo. Molti che combattono sul fronte non hanno alcuna ideologia, alcuna istruzione. Per loro era semplice: di la c’è Daesh e questo rumore fa in modo che lì ci sia meno Daesh. Questo era giusto, e tuttavia ci sforzavamo di far notare sempre: „Ora gli americani per un periodo di tempo hanno gli stessi nostri interessi per quanto riguarda la lotta contro Daesh. Ma tutte queste bombe, cannoni, fucili, aerei, obici e carri armati non sono stati pensati per liberare le persone. Opprimono le persone. A un certo punto useranno tutte queste armi contro di noi, così come le hanno già usate migliaia di volte contro tutti coloro che si oppongono all’imperialismo. E così come già da 40 anni le usano contro il PKK nel Kurdistan del nord.“
This neighborhood has been visited by your dear american liberators. please don’t drink the water or you will look like the incredible hulk.
Se ancora ci fosse stato bisogno di una prova dell’indifferenza dell’imperialismo USA nei confronti delle persone in Siria, allora ci è stata data nella forma di un rumore. Quando lo abbiamo sentito per la prima volta, dopo ci siamo fissati sconcertati. Cos’era appena successo qui? Aerei giravano sopra il cratere, più rumorosi e probabilmente più bassi dei bombardieri. Poi il cielo si illuminava di rosso. Per tre, quattro, cinque secondi tutto intorno a noi era riempito da un rumore assordante che suonava come se un gigante conficcasse un enorme apparecchio per l’elettroshock nella pancia della città. Mancano le lettere per dipingere il suono di questo rumore, ma sarebbe più o meno un: „WWWWFFFFRRRRVVVVWWWWRRR“. Quando abbiamo sentito il suono per la prima volta, il giorno dopo ne abbiamo parlato ad amici curdi. Conoscevano il rumore fin troppo bene, ma nessuno sapeva a quale arma appartenesse. Lo chiamavano solo „la corrente“, pensavano che fosse un qualcosa di elettrico. Settimane dopo abbiamo scoperto cosa avevamo sentito: il Gatling Gun GAU 8 Avenger del Warthog A-10. E quello spara depleted uranium, quindi munizioni radioattive. Proprio accanto all’Eufrate, l’arteria vitale di tutta la regione.
A parte il fatto che quindi Raqqa è stata psicologicamente e ideologicamente pesante, sporca, malsana, pericolosa e soprattutto quando cadevano degli amici – anche triste, quindi i nostri stessi „alleati“ ci hanno irradiati. Se ora si potesse dire: beh, forse andarci è stata una decisione sbagliata, è vero l’esatto contrario. Proprio per noi internazionalisti era un dovere.
E posso dire di aver trovato in tutta quella sporcizia qualcosa che è più importante di tutte le difficoltà che ti si mettono sul cammino: l’amore per i propri compagni. Quello che mi ha aiutato a passare questo periodo non è stato altro che la nostra intesa tra compagni, come persone che condividono un percorso. Se penso a Raqqa da una certa distanza, come prima cosa penso all’amicizia. Penso ai compagni che insieme a me hanno iniziato il cammino comune nella città apocalittica dei fantasmi della milizia terrorista Daesh. A Heval Ciwan, con il quale già mesi prima avevo potuto condividere l’epico cielo stellato delle montagne di Sengal e le malattie diarroiche causate dalla mancanza di igiene dell’addestramento militare. A Heval Kajin, il miglior cuoco di Endomi in tutto l’anello di accerchiamento intorno al Califfato morente. E a Heval Hogir, al quale andrebbe senza dubbio dato il compito di dipingere con tanti colori i muri della Raqqa un giorno ricostruita.
L’amicizia che ci lega, nel momento in cui abbiamo raggiunto la periferia della metropoli siriana contesa, era ancora molto giovane. Ma fin dall’inizio è stata un’amicizia che era data da un obiettivo comune, da un’utopia concreta. Ci conoscevamo solo da pochi mesi, di volta in volta due di noi avevano passato più tempo insieme. Eppure nelle settimane successive siamo diventati tutto gli uni per gli altri: compagni e padri spirituali, insegnanti e allievi.
A volte sei completamente distrutto. Ma è per questi momenti che ci sono le compagne e i compagni.
Infermieri e psicologi
E abbiamo conosciuto altri che ci sono entrati nel cuore in tempi ancora più brevi. Senza queste persone, delle quali al fronte ce ne sono decisamente troppo poche, ci si spezza. Per poter resistere a Raqqa bisogna comunque essere un po’ matti. Ma l’importante è non andare alla deriva. Altrimenti ci si instupidisce e si rinuncia a se stessi.
Ma se si sta vicini gli uni con gli altri, si può riuscire nel bilanciamento della follia. E almeno a posteriori subentra una sensazione meravigliosa: si è fatta questa cosa insieme. Per quanto tutto fosse sempre rognoso, questo non può togliertelo più nessuno. L’amicizia politica però è anche più di questo. Perché perfino quando non ci si trova nello stesso luogo, perfino quando non si hanno più notizie degli altri perché e necessità di una rivoluzione dividono, si resta uniti. Quando abbiamo lasciato il nostro Nokta e siamo partiti, abbiamo lasciato buoni amici.
Per esempio Heval Leswan, il nostro ultimo comandante di Team, che ha iniziato a mancarci già quando la nostra macchina non aveva ancora oltrepassato i confini della città. Con lui siamo stati forse dieci giorni nello stesso posto. Ma dieci giorni nei quali si passano insieme 24 ore al giorno in situazioni estreme sono metà di una vita. Quando siamo repentinamente partiti, mi ha messo in mano un regalo per ricordo, ci siamo baciati sulla guancia e ci siamo salutati con serkeftin. Siamo saliti nella nostra macchina. Leswan stava davanti all’ingresso della nostra postazione, il Kalashnikov rivolto verso l’alto pronto a sparare. „Non sparare, non dobbiamo sparare in giro a vuoto“, ha ammonito uno degli autisti. Leswan gli ha rivolto uno sguardo pungente e ha detto solo: „I miei compagni vanno via.“ Stava dritto, lo sguardo rivolto in avanti e ha sparato. Una biglia, due, tre … Forse non rivedremo mai Heval Leswan. E lui noi. Ma così come combatterà sempre per quello che per noi è importante, noi combatteremo sempre per quello che è importante per lui.
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A 30 Chilometri di distanza
Siamo sul piano di carico aperto di un Toyota Hilux e l’incubo sparisce chilometro per chilometro dalla nostra vita. La freddezza critica per poter analizzare tutto in modo sobrio, ancora lo abbiamo a stento. La mancanza di disciplina pericolosissima (e a volte mortale), le modalità di relazione abbrutite, le idee feudali, la mancanza di igiene che si fa beffa di ogni descrizione – di tutto questo ora ci eravamo liberati. Siamo contenti di lasciarci alle spalle la sporcizia. Siamo incredibilmente arrabbiati con alcune compagne e alcuni compagni. E nonostante questo iniziamo pian piano a vedere anche i lati positivi. „Salta davvero agli occhi” dice Hogir. „La differenza tra la vita dei ragazzi e quello delle compagne nelle strutture delle donne.“ Concordiamo. Le compagne anche a Raqqa erano l’avanguardia. Sono più organizzate, più disciplinate, prendono più sul serio i principi del partito.
A 100 Chilometri di distanza
Discutiamo. La rabbia e l’immediata minaccia data dal comportamento di alcuni che hanno combattuto insieme a noi si allontanano sempre di più. Abbiamo una visione più distaccata. Da cosa dipendeva? La massima „Mai più ci metteremo in una situazione del genere“ diventa la riflessione „Come potremmo funzionare in condizioni del genere in modo più organizzato, cambiare qualcosa“. Questa volta è Heval Kajin, che accenna un canto partigiano ebraico. Ciwan e io non lo conosciamo, ma è bellissimo. „Non dire mai che compi l’ultimo cammino / quando temporali spazzano via anche il blu del cielo. / L’ora agognata arriva, è già vicina / i nostri passi rimbomberanno, siamo arrivati.“
Dopo cantiamo, nel modo migliore che ci riesce, Leonhard Cohens The partisan. „I have changed my name so often / i have lost my wife and children / but i have many friends / And some of them are with me“. Penso ancora a tirare fuori we found love in a hopeless place di Rihanna, ma interrompo l’operazione per mancanza di voce decente. Il sole tramonta. Andiamo a casa, dovunque si trovi.
200 Chilometri
Inizia una strana sensazione. Ancora poche ore fa volevo una cosa sola: andare via da Raqqa. Ma allora appunto ero ancora a Raqqa. Ora mi sento come se stessi scappando da qualcosa. Non da Daesh. Non dal combattimento militare. Ma dalla lotta molto più difficile per la trasformazione delle condizioni di vita sul nostro stesso fronte. Avevo portato a termine il mio periodo e non ero scappato prima. Ma nonostante questo è stato come una fuga. Altri che ho imparato ad apprezzare erano ancora lì. E migliaia – che fosse Raqqa o altri luoghi paragonabili – sarebbero subentrati. Era un privilegio potersene semplicemente andare. Prima o poi anche di nuovo in Germania.
Quello che mi ha consolato è stato: alla guerra per la nuova vita non possiamo sfuggire comunque. Ci aspetta, dovunque possiamo andare. E se non ci raccontiamo bugie, non ci ritiriamo in una qualche bolla di consenzienti priva di significato o diventiamo traditori, ci accompagnerà per tutta la vita. Per questa lotta Raqqa è stata una buona scuola.
A 400 Chilometri di distanza
Incontriamo i nostri compagni. Sono arrivati in molti, anche amici che non avremmo sperato di rivedere così presto. Ci confrontiamo, anche contro altri che hanno visto il fronte. Noto: quello che ho visto è stata solo una parte della guerra. Per quei Tabur che hanno condotto operazioni, attaccato postazioni del nemico, il focus è un altro: „Non voglio sminuire i problemi della condotta di vita. Ma voi eravate di guardia. Quando devi assaltare posizioni e accanto a te le persone cadono come mosche, allora gli altri problemi che ci sono a volte vanno in secondo piano“, dice Heval Cihan, un esperto combattente delle YPG.
Sono ancora distrutto, ma comincio a capire che a Raqqa ho potuto vedere come in una lente convergente la realtà del Medio Oriente. Certo, solo una piccola parte, ma di più che nei molti mesi precedenti.
Home sweet home
„Io la vedo così“, spiega Cihan, un esperto quadro internazionale del movimento curdo a noi quattro di ritorno dal fronte „Voi avete conosciuto le contraddizioni alle quali il movimento curdo lavora da 40 anni. Questo qui è il Medio Oriente. Noi dell’occidente abbiamo potuto condurre una vita che con tutte le difficoltà non è neanche lontanamente così distrutta come quella che fanno le persone qui. Ancora: perché le nazioni dalle quali veniamo noi hanno sempre depredato, derubato il Medio Oriente, noi abbiamo potuto vivere in quel modo e le persone qui invece hanno dovuto vivere come ora avete potuto vedere. E se noi al fronte come rivoluzionari viviamo noi stessi anche una piccola parte di questo dolore, allora questo non solo ci rende più forti. Ci aiuta anche a capire meglio il nostro ruolo come trasformatori di questa realtà. E questo è un prezzo che dobbiamo pagare.“
Che noi – e molti altri quadri (anche curdi) – ancora siamo a stento all’altezza di questo compito è evidente. Cihan critica anche loro: „Ci sono gli Sloganci, che non fanno che sputare frasi fatte. E ci sono coloro che per pregiudizi razzisti non vogliono lavorare con i giovani arabi. Per loro allora vale: sono arabi, vivono così male. Mandateli al fronte e basta. Ma com’era la società curda prima che il PKK iniziasse a trasformarla? Anche lei aveva rinunciato a se stessa. Ci sono voluti 40 anni per raggiungere i progressi di oggi. E ora il punto è: prepariamoci per i prossimi 40 anni nei quali trasformiamo le altre società del Medio Oriente.“ e per i prossimi anni di cui avremo bisogno per noi tedeschi.
di Peter Schaber
Da: http://lowerclassmag.com/2017/10/love-in-a-hopeless-place/