Sakine, che ha lottato tutta la vita. Per la libertà
Esce il secondo volume dell’autobiografia di Sakine Cansiz: “Tutta la mia vita è stata una lotta”, fondatrice del Pkk, imprigionata e torturata per dieci anni, morta in un attentato
inserito da Emanuela Irace
Esce in edizione italiana il secondo volume dell’autobiografia della Pasionaria curda uccisa nel 2013 a Parigi insieme ad altre due attiviste. Il libro, “Tutta la mia vita è stata una lotta”, presentato alla Casa Internazionale delle donne il 13 febbraio per iniziativa del Uiki onlus e alla presenza di Silvia Baraldini. Nel testo si raccontano gli episodi più cruenti della vita carceraria delle detenute. Un excursus sul sistema di detenzione riservato ai prigionieri politici accusati di terrorismo.
Simbolo della resistenza e della battaglia per l’emancipazione femminile, Sakine Cansiz è l’icona dell’anima collettiva e rivoluzionaria del movimento di liberazione curdo. Nome in codice Sara. Combattente e guerrigliera fin dagli anni ‘70 è una delle due donna co-fondatrici del Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan, formazione tutt’oggi nella lista nera dei movimenti terroristi, secondo i desiderata di Turchia, Usa e Ue. Nonostante le richieste provenienti da più parti di considerare il Pkk legittima forza di resistenza ed emblema di lotta contro le persecuzioni a base etnica. E nonostante la guerra condotta con successo contro le milizie jihadiste del Daesh in Siria e Iraq, o forse proprio per questo. Sakine nasce nel 1958 a Tunceli, nella Turchia centro-orientale da una famiglia tradizionale di religione sciita che non condivide le sue scelte politiche, al punto che giovanissima fugge ad Ankara dove incontra il leader curdo Abdullah Ocalan. È l’inizio della svolta. Consapevole che nessun movimento rivoluzionario può prescindere dalle donne, Sakine Cansiz partecipa attivamente alla battaglia per la liberazione dei territori curdi violentemente assimilati dalla Turchia.
Nel 1979 viene arrestata e per dieci anni resiste alle torture nelle carceri turche. Tutta la sua vita coincide con la storia del movimento di liberazione curdo. Dal periodo in cui questo si andava formando fino al momento cruciale in cui la sua esistenza si spezza sotto il fuoco di una scarica di proiettili assassini: omicidio politico. Sakine Cansuz muore a Parigi il nove gennaio 2013 insieme alle compagne Fidan Dogan e Leyla Saylmez. L’esecuzione avviene nel decimo arrondissement, negli uffici del Centro di informazione del Kurdistan dove le tre donne vivevano e lavoravano. Un atto ignobile, a pochi giorni dall’annuncio dell’apertura di negoziati tra Ankara e Abdullah Ocalan. Una esecuzione che sembra portare la firma del Mit, il potente servizio segreto turco. Non è un mistero che su Sakine si concentrasse l’attenzione del Governo. Come evidenziano le note pubblicate nel 2007 da Wikileaks in cui Sakine appare una delle principali attiviste politiche per il finanziamento del movimento curdo in Europa.
La notizia del triplice assassinio fa il giro del mondo e nel cordoglio generale il ritratto che ne fa la parlamentare Sebahat Tuncel (inttervistata da NOIDONNE proprio nel 2013) ben si adatta alla forza del carattere di un personaggio dai tratti decisamente epici: “Sakine è stata un esempio formidabile per tutte noi, siamo cresciute sentendo parlare di lei e di come riusciva a sopportare la tortura del carcere reagendo contro i propri aguzzini e sputando loro in faccia, senza mai piegarsi ne arrendersi alle violenze. È stata un riferimento per il femminismo. La sua battaglia è sempre stata duplice: contro il feudalesimo del dominio maschile e a favore dei diritti negati al popolo curdo”. Femminista e guerrigliera, leader politica e scrittrice con un proprio punto di vista e una elaborazione di genere anche sulla guerra, Sakine Cansiz lascia il proprio testamento politico nella corposa autobiografia iniziata nel 1996.
“È probabilmente il primo libro che descrive il movimento di liberazione visto da una donna”, si legge nella prefazione al secondo volume di “Tutta la mia vita è stata una lotta” uscito a gennaio in traduzione italiana, per l’edizione Mezopotamien Verlag a cura di UIKI Onlus – Ufficio di Informazione del Kurdistan. Un testo da cui emerge l’analisi lucida delle persecuzione subita dal suo popolo accanto al racconto quotidiano ai limiti dell’umana sopportazione del sistema carcerario turco.
All’introspezione psicologica e alla descrizione dei caratteri Sakine unisce la ricerca di metodo. La pratica da attuare per resistere e per mantenere il contatto con l’esterno. Con gli avvocati a cui si negano gli incontri a seconda dei momenti. Pratica ancora attuale assieme alla detenzione amministrativa in gran parte del territorio turco, Istanbul compresa.
Un libro che squarcia il velo del silenzio e del compromesso di chi per convenienza politica preferisce non vedere, dimenticando i principi minimi di legalità riconosciuti a livello internazionale. Il racconto agile e spietato di un pensiero femminile che mai si arrende, come si legge in questo passaggio: ”La prigione era la continuazione della fase di interrogatorio. Non era solo questione di isolare i prigionieri e tenerli sotto controllo. Piuttosto, l’obiettivo era quello di spezzarne la volontà e le convinzioni, e di privarli di ogni significato. In un primo momento sembrò che il nemico facesse conto per questo principalmente sulla forza bruta. Poi divennero chiari i vari metodi con i quali costantemente si cercava di logorare le persone e dissuaderle da essere se stesse. In tale situazione si è costretti a chiedersi come si vuole vivere. Sei un prigioniero nelle mani del nemico e sai cosa significa. Vi è uno squilibrio. Come puoi premunirti? Come puoi mantenere vivo lo spirito rivoluzionario in queste condizioni? Da una parte c’è il nemico, dall’altra il tradimento interno. Devi combattere, ma come puoi essere all’altezza di tutto questo? La situazione era molto istruttiva, ma che lezione ne traevano i singoli? E che cosa voleva dire imparare?” (da “Tutta la mia vita è stata una lotta”, pag. 73).
Emanuela Irace, Noidonne