La storia contemporanea scritta dalle donne (Rojava, Kurdistan)
«Alle donne afgane di Rawa, alle donne della resistenza iraniana, a quelle del Rojava dobbiamo guardare. Noi non abbiamo fatto che applicare un modello escludente, così maschile, e guarda il risultato: ci troviamo nel ventunesimo secolo sempre più emarginate e sulla difensiva». «Abbiamo comunque tracciato un cammino nella storia del femminismo, e questo è innegabile. Certo, poi ci siamo perse a teorizzare l’azione e questo voler capire dove fossimo e cosa eravamo diventate, così autoreferenziale, ci ha bloccate». «No, occorre spingersi oltre. La questione di genere è innanzitutto politica e politico-economica. Dobbiamo uscire da una logica di arretramento, non basta più l’azione di aiuto alle donne vittime di violenza o la rivendicazione di diritti acquisiti che stiamo perdendo. Il confine va ampliato, lavorando sul contesto storico e su noi stesse». Stralci di dialogo tra noi componenti della staffetta donne sull’aereo diretto in Turchia, destinazione Rojava.
Noi che negli anni ’70 abbiamo fatto parte del movimento femminista o intrapreso strade di lotta anche pesanti da cui profondamente segnate, coviamo dentro un senso di fallimento storico che va oltre la sfera dell’attivismo politico. Ci facciamo i conti quotidianamente come lavoratrici, come madri, come esseri umani. Nostra la responsabilità, nostra la ricerca di una nuova strada.
Ci muoviamo in formazione con le donne di Kobane, quelle rientrate dai campi profughi di Urfa, in Turchia, e quelle che la città non l’hanno mai abbandonata, lungo le strade polverose della parte ovest scandendo lo slogan simbolo di questo 8 marzo “Jin, Jiyan, Azadi”, Donna, vita, libertà. In mano sventolano bandiere tagliate a triangolo gialle e verdi sulle quali hanno ricamato le lettere “YPG” e “YPJ”.
Siamo dirette alla base dell’Unità di protezione delle donne per rendere loro omaggio e ringraziarle del coraggio e determinazione mai venuti meno contro le milizie del Daesh (Isis). In realtà, in programma avevamo la visita al fronte orientale, circa 100 chilometri da Kobane dove i combattimenti si sono spostati. Ma la mattina stessa era stata annullata. «Gli scontri sono pesantissimi» ci aveva spiegato Siam, la rappresentante del governo del cantone «solo ieri sono rientrati i corpi di cinque combattenti, quattro ragazzi e una ragazza, uccisi due giorni fa. Troppo pericoloso».Mi tengo in fondo accanto a Shavin, capo settore comunicazione, una giovane di 28 anni che mi traduce pazientemente in un inglese un po’ stentato quanto viene detto dalle partecipanti. Le donne sono vestite in abiti tradizionali arabi o curdi, alcune indossano pantaloni, camicia e giacca, altre ancora una sorta di divisa militare. Arriviamo al centro delle YPJ e veniamo accolte da una compagnia di combattenti sull’attenti.
Alzo il viso dal taccuino su cui per tutta la strada ho preso appunti. Una ad una passiamo di fronte alle YPJ stringendo loro la mano. L’emozione è molto forte, quella che mi sale alla gola e me la chiude riesco a malapena a nasconderla. Sono giovanissime, avranno tra i 15 e i 19 anni. Volti dolcissimi in cui brillano occhi d’acciaio. Accanto alla gamba in posizione di riposo tengono il kalashnikov. Tra loro scorgo la ragazza con cui solo due notti prima avevo passato il confine turco-siriano clandestinamente. Non riesco a trattenermi e l’abbraccio forte, spinta da un innato istinto materno a proteggere.
Una delle donne più anziane inizia a parlare a voce alta guardandole. «Sta ricordando che Kobane è libera perché tutte loro non si sono arrese di fronte al nemico. E le ringrazia per la lotta che continuano a portare avanti in difesa del Rojava» mi traduce Shavin. Le risponde la comandante della compagnia: «Ricordiamo oggi le martiri Arin, Destina, Zozan, Hebun e tutte le altre il cui sacrificio giorno dopo giorno ci infonde il coraggio a proseguire sul cammino da loro tracciato. E non dimentichiamo Apo (Ocalan, nda), padre del confederalismo democratico e ispiratore delle formazioni combattenti YPG e YPJ. La vittoria è nostra».
Applausi e grida di approvazione tra le donne in visita. Mi ferma una giovane reporter con teleoperatrice al seguito e mi chiede una breve intervista. Si presenta quale inviata della rete televisiva locale Ronahi TV. I loro uffici si trovano al Media Centre, un tempo sede dell’amministrazione siriana, a poche centinaia di metri di distanza.
Quando entra nella sala riunioni del Media Centre dove la stiamo aspettando, il suo sorriso aperto e sicuro illumina tutto. Alta, i capelli scuri tirati indietro a scoprire un volto stanco ma bello Xezne Nebi, direttrice di Ronahi TV ha un carisma naturale reso più spiccato dall’esperienza unica che si è trovata a vivere: rimasta intrappolata nella città insieme ad alcuni suoi colleghi dopo l’attacco improvviso lanciato dal Daesh, ha portato avanti l’ardua sfida di far conoscere al mondo quanto accadeva a Kobane.
La guardo parlare a scatti mentre ci racconta di quei giorni e di quelle notti interminabili. «Tutto era difficilissimo. L’attacco militare violento ci ha colti assolutamente impreparati. Ci siamo trovati a improvvisare ed era complicatissimo. Privi di elettricità anche ricaricare computer e batterie era un’impresa. Ma dopo i primi momenti di totale sbandamento abbiamo capito che non avevamo scelta e dovevamo rischiare perché raccontare i crimini che i miliziani dell’Isis stavano commettendo a Kobane era un nostro preciso dovere, non solo come giornalisti ma come cittadini».
Parla, muovendo le mani dalle dita lunghissime nell’aria, di come corressero per le strade bombardate rischiando ogni attimo di trovarsi tra il fuoco incrociato dei combattimenti, per scovare un punto qualsiasi da cui trasmettere. Attraversando nella notte quartiere dopo quartiere la città seguendo i combattenti di YPG e YPJ, assistevano alla loro morte o a quella di molti abitanti inermi: in un’unica notte in 163 vennero uccisi dal Daesh. La liberazione di Kobane richiedeva un impegno e una determinazione costante e incrollabile. «Per la prima volta la guerra era reale, non scorreva sugli schermi televisivi. Con essa la morte aveva fatto irruzione nella vita di tutti noi. Dovevo lottare ogni attimo di ogni singolo giorno contro il terrore, ma prendevo il coraggio e la forza dalla resistenza incredibile dei nostri combattenti: non avevo il diritto di aver paura. Anche io con il mio lavoro stavo contribuendo alla liberazione della mia terra».
Da non più di due anni Xezne è giornalista, ma in questi mesi si è caricata la responsabilità di un intero studio televisivo come una vera reporter di guerra. Con i suoi colleghi ha ripreso le immagini degli scontri, le ha montate sfruttando gli esigui mezzi a disposizione e le ha inviate al mondo. «Non eravamo giornalisti professionisti, lo siamo diventati sul campo come i combattenti di YPG e YPJ hanno dovuto crescere militarmente imparando quali fossero le tattiche di una guerriglia urbana mentre c’erano dentro. Una volta il Media Centre venne colpito dai bombardamenti. Sono rimasta leggermente ferita, i miei colleghi fortunatamente indenni, ma non vi nascondo che la mia prima preoccupazione fu lo stato di salute delle telecamere e dei computer. L’unico mio pensiero in quei giorni era poter realizzare al meglio l’informazione».
Sono incuriosita su quale sia stata la reazione dei tanti reporter arrivati qui a Kobane in questi ultimi mesi, di fronte al racconto della sua esperienza. Sorride quando glielo chiedo e scuote la testa. «Veramente non ne ho incontrato nessuno finora. Comunque, avrei bisogno di cinque anni per scrivere quanto vissuto in questi mesi. Non avevo l’esperienza del giornalista navigato, me la sono costruita in mezzo alla battaglia, alla distruzione, alla morte. Lo dovevo ai tanti caduti tra i combattenti soprattutto alle ragazze che non avevano esitato a prendere le armi e affrontare un nemico oscuro e terrificante. Lo dovevo alla mia terra, a Kobane per quello che è e rappresenta nella storia della regione. Il giornalismo non è sensazionalismo, è raccontare innanzitutto i fatti. Nel Rojava è in atto una rivoluzione sociale, politica, economica che va testimoniata, resa all’opinione pubblica con rispetto. La verità è l’unica scelta che abbiamo».
Ci alziamo, deve partecipare ad una riunione ed è in ritardo. Ride di gusto quando al momento dei saluti le chiediamo un parere sull’uso che gli organi d’informazione internazionali fanno delle immagini che ritraggono le giovani componenti di YPJ. «Riflette la funzione del capitalismo neoliberista. Mostrare in prima pagina, quasi in vetrina le fotografie delle graziose combattenti curde rientra nel sistema di mercificazione. Ma la verità è un’altra, quella che noi non ci stancheremo mai di riportare: al di là delle loro belle facce quelle donne hanno il coraggio e la capacità di realizzare qualsiasi cosa. Il capitalismo mostra l’involucro e non l’anima delle persone. Non solo qui nel Rojava ma in tutto il mondo è doveroso rivelare la vera natura delle donne di cui proprio queste ragazze di YPJ sono divenute il simbolo».
di Patrizia Fiocchetti – LASPRO