Sfidare la modernità Capitalista II: Gandhi e Öcalan; dai circoli oceanici al confederalismo democratico
Intervento di Joám Evans Pim (Åbo Akademi University) alla conferenza “Sfidare la Modernità Capitalista II” Amburgo 3-5 Aprile
Abstract: Questo documento discute dei parallelismi fra le proposte politiche di Gandhi e Öcalan, nel contesto delle lotte di liberazione nazionale in India e in Kurdistan. Gandhi descrisse la visione politica di una società senza stato nonviolenta, in forma di “circoli oceanici”, ossia una struttura costituita da innumerevoli villaggi con “cerchi sempre più ampi e mai tendenti a salire”, non una “piramide con un apice sostenuto dalla base di fondo”, ma un “cerchio il cui centro sarà l’individuo” (1946). L’indipendenza dovrebbe avere inizio dal fondo, basata su un piccolo villaggio autosufficiente “in grado di gestire i propri affari fino alla difesa di se stesso contro il mondo intero”. Tale visione corrisponde alla proposta di Öcalan di Confederalismo Democratico, auspicante l’autosufficienza e l’autogoverno di comunità come “sistema democratico di un popolo senza uno stato” (2011). L’analisi comparativa degli sviluppi, sia teoretici che pratici, di tali visioni offre nuove prospettive su come le idee politiche gandhiane rimangano applicabili nel mondo contemporaneo e su come il confederalismo democratico rappresenti, nonostante divergenze e difficoltà, un tangibile esempio della loro attuazione nel 21esimo secolo.
E’ stato ampiamente riconosciuto che le idee di Murray Bookchin sull’ideologia sociale, sul municipalismo libertario e sul comunalismo siano state strumentali nello sviluppo del concetto di Confederalismo Democratico di Abdullah Öcalan, quale “paradigma sociale non statuale” (Öcalan, 2007), indubbiamente la pietra angolare di profondi cambiamenti sociali e politici la cui attuazione ha avuto inizio dopo la Dichiarazione del Confederalismo Democratico in Kurdistan, nel 2005. La storia non statuale, ovvero l’arte di non essere governati da stati circostanti, per utilizzare l’espressione di Scott (2009), del popolo kurdo e di altri nella grande area mesopotamica, è stata un fattore d’influenza ugualmente importante nell’emergere del confederalismo democratico come “amministrazione politica non statale o democrazia senza stato” (Öcalan, 2011: 20). Per Öcalan la differenza è chiara: “Gli stati sono fondati sul potere; le democrazie sono basate sul consenso collettivo. (…)
Lo stato utilizza la coercizione come strumento legittimo. Le democrazie poggiano sulla partecipazione volontaria” (id.). Alcune opere hanno esplorato la corrente attuazione dei principi del confederalismo democratico da parte del Koma Civakên Kurdistan (Confederazione di Comunità del Kurdistan), sia nel contesto di “conflitto di bassa intensità” del Kurdistan settentrionale, sia dal 2012 nel contesto di guerra aperta del Rojava siriano, in uno sforzo volto a istituire un esteso sistema di consigli di villaggio e di vicinato che incorporino i principi dell’ecologia, della liberazione di genere e della democrazia diretta (TATORT, 2013; 20014).
Mentre le analogie fra Kurdistan e movimento Zapatista sono state altresì rilevate (Saadi, 2014), altri movimenti di liberazione nazionale, del passato e del presente, hanno assunto simili principi libertari o simili pratiche. Il movimento d’indipendenza indiano, specialmente dopo l’adozione della strategia di resistenza civile nonviolenta di Gandhi da parte del Congresso Nazionale Indiano, è probabilmente il meno noto di tali casi. Alcune ragioni richiedono una considerazione congiunta delle proposte di Gandhi e Öcalan: 1) entrambi i leader hanno rifiutato la creazione di uno stato-nazione come soluzione nella lotta di liberazione nazionale, considerando piuttosto lo stato come parte del problema; 2) quantunque in contesto di violenza e severa repressione, includente anche la loro carcerazione, entrambi i leader hanno compreso la rilevanza della nonviolenza quale strumento di mutamento sociale (TATORT, 2014; Graeber, 2014); 3) sia Gandhi che Öcalan sono stati ostracizzati in ambito internazionale in quanto etichettati come “combattenti per la libertà”, “nazionalisti” o “terroristi” – termini di fatto utilizzati per respingere le cinque candidature di Gandhi al Premio Nobel per la Pace (Tønnesson, 1999) e per mantenere il movimento kurdo nelle liste del terrorismo internazionale ai giorni nostri; 4) la nonviolenza gandhiana in India e il confederalismo democratico kurdo sono stati in grado di presentare un integrale approccio ad alcune fra le più urgenti questioni dei nostri tempi, offrendo un modello rilevante non soltanto riguardo alle loro specifiche circostanze, ma anche in termini globali.
“L’indipendenza deve avere inizio sul fondo”: repubbliche di villaggio e consigli
La visione di Gandhi di una società indiana libera e nonviolenta era poggiata su due pilastri basilari: Swaraj (autogoverno di comunità non gerarchica) e Swadeshi (autosufficienza), presentati come reciprocamente interdipendenti. Il pensiero gandhiano su questioni sociali, politiche ed economiche fissa un precedente per molti sviluppi teoretici e pratici che si sarebbero poi cristallizzati nell’ultimo quarto del 20esimo secolo e agli inizi del 21esimo secolo nei campi dell’economia (Schumacher, 1973; Ostrom, 1990), della tecnologia (Mumford, 1967 & 1970), dell’energia (Trainer, 2010) e della politica (Bookchin, 2003). L’adozione, da parte di Öcalan (2011), di ecologia sociale, comunalismo e liberazione di genere come spina dorsale del confederalismo democratico colloca con chiarezza tale paradigma politico sullo stesso terreno, non solo teoretico ma anche pratico, come il nuovo “contratto sociale” nel Rojava esemplarmente dimostra: “le aree di democrazia autogestita non accettano i concetti di nazionalismo statale, apparato militare o religione o di gestione centralizzata e governo centrale” (Baher, 2014).
Come per il sistema decentralizzato di consigli del confederalismo democratico, così Gandhi etichettava la struttura socio-politica che avrebbe sostenuto una società nonviolenta come “repubblica di villaggio” o “Swaraj di villaggio” (Gandhi, 1962). La definizione gandhiana di Swaraj, autogoverno, include “un continuo sforzo per essere indipendenti dal controllo governativo, sia che si tratti di governo straniero, sia che si tratti di governo nazionale”, dal momento che nessun governo dovrebbe curarsi della regolamentazione della vita di ogni giorno (1988 [1925], vol. 32: 258). Lo Swaraj, caratterizzato da “vera democrazia” e “libertà individuale”, sarà conseguito “solo quando tutti noi saremo fermamente convinti che il nostro Swaraj è stato ottenuto, elaborato e tenuto in vita solo attraverso la verità e l’Ahimsa” (1988 [1939], vol. 75: 176).
Ogni individuo e ogni comunità dovrebbero autonomamente praticare lo swaraj. Gandhi argomentò nel 1946: “L’indipendenza deve avere inizio sul fondo. Così, ogni villaggio sarà una repubblica o panchayat con pieni poteri. Consegue perciò che ogni villaggio deve autosostenersi ed essere in grado di gestire i propri affari, fino alla misura tale da essere in grado di difendersi contro il mondo intero” (1998 [1946], vol. 91: 325). La “repubblica di villaggio” quale unità societaria sarebbe naturalmente fondata non sullo status sociale o su titoli di proprietà ma sulla verità, la nonviolenza e il lavoro egualitario, delineando nuovamente quel che le prassi dell’autonomia democratica sono state impegnate ad attuare nell’ultimo decennio (TATORT, 2013). Il villaggio swaraj è presentato come “repubblica completa, indipendente dai suoi vicini per i propri bisogni vitali, e tuttavia interdipendente per molti altri aspetti riguardo ai quali la dipendenza è una necessità” (1998 [1942], vol. 81: 113). Tale modello era evidentemente ispirato al sistema dell’Asia meridionale panchayati raj, proprio come il confederalismo democratico è un modello fondato sulle prassi di autogoverno dell’antica Mesopotamia:
… la prima preoccupazione di ogni villaggio sarà far crescere i propri raccolti di cibo e cotone per il vestiario. Dovrebbe avere un’area riservata per il bestiame, aree ricreative e terreni di gioco per adulti e bambini. (…) Ogni attività sarà condotta, nei limiti del possibile, su base cooperativa. Non vi saranno caste come le abbiamo oggi, con la loro gradualità d’intoccabilità. La nonviolenza, con la sua tecnica del satyagraha e della non-cooperazione, sarà la misura sanzionatoria della comunità di villaggio. … Il governo del villaggio sarà guidato da un Panchayat di cinque persone annualmente elette dagli adulti del villaggio, uomini e donne, in possesso di minimi requisiti prescritti. Queste avranno tutta l’autorità e la giurisdizione richieste. Dal momento che non vi sarà alcun sistema punitivo nel senso accettato del termine, tale Panchayat sarà il sistema legislativo, giudiziario ed esecutivo combinati insieme, operativo nel suo anno in carica. … Qui vi è perfetta democrazia fondata sulla libertà individuale. L’individuo è l’architetto del proprio governo. La legge della nonviolenza regola lui e il suo governo. Egli e il suo villaggio sono in grado di sfidare la potenza del mondo. (1998 [1942], vol. 81: 113)
In termini pratici, Gandhi argomenta che l’istituzione di una tale forma di villaggio indipendente swaraj non richiede autorizzazione esterna e non ha bisogno di attendere che una importante rivoluzione politica avvenga nello stato circostante, pertanto fissa un precedente chiaro per le comunità coeve intenzionate, come i villaggi ecologici, che sono in grado di fiorire negli interstizi dello stato, ma anche per il confederalismo democratico, laddove stati esistenti e loro confini sono sorpassati (Öcalan, 2011: 34). Avviare un villaggio swaraj è un dovere individuale che dovrebbe espandersi per coinvolgere e impegnare la comunità intera:
Qualsiasi villaggio può diventare una simile repubblica oggi senza rilevante interferenza persino da parte del governo attuale, il cui solo efficace legame con i villaggi consiste nell’esazione dell’imposta sul reddito del villaggio. … Per modellare un tale villaggio potrebbe essere necessario l’operato di una vita intera. Qualsiasi amante della democrazia autentica e della vita del villaggio può impiantare un villaggio, trattarlo come suo mondo e sua sola opera, e conseguirà positivi risultati (1998 [1942], vol. 81: 113-114).
Già nel 1910 Gandhi mise in guardia: se l’India avesse replicato le istituzioni politiche, economiche, amministrative, legali, educative e militari britanniche, sarebbe andata in rovina, dal momento che erano tali istituzioni, indipendentemente da chi ne detenesse il controllo, a costituire il maggiore ostacolo allo sviluppo nonviolento di swaraj e swadeshi (1998 [1910], vol. 10: 258). La libertà dei popoli dell’India non poteva essere ridotta a un trasferimento dell’amministrazione dell’apparato statale, ma doveva soprattutto significare rimozione completa di tali strutture. Sfortunatamente, non era questo il caso, come Gandhi asserì chiaramente in “His Last Will and Testament” (29 gennaio 1948):
Avendo l’India conseguito l’indipendenza politica mediante gli strumenti ideati dal Congresso Nazionale Indiano, il Congresso nella sua forma attuale, vale a dire come veicolo di propaganda e macchina parlamentare, è sopravvissuto al proprio utilizzo. L’India deve ancora conseguire l’indipendenza sociale, morale ed economica in termini di oltre 700000 villaggi in quanto distinti dalle sue città (1998 [1948], vol. 98: 333-334).
Similmente, Öcalan (2011: 33) ci avverte che lo “stato non incrementerà la libertà di un popolo” ma sarà piuttosto un gravoso ostacolo allo sviluppo sociale di qualsiasi popolo. Perciò “il confederalismo democratico è un paradigma sociale non statuale”. Gandhi concorderebbe, considerando che “lo stato rappresenta la violenza in una forma concentrata e organizzata. L’individuo ha un’anima, ma essendo lo stato una macchina priva di anima, mai può essere immunizzato dalla violenza, alla quale deve la propria esistenza” (1998 [1934], Vol. 65: 318). Dalla disobbedienza civile di profondamente politica emergente dalla libertà dallo stato o dall’indifferenza verso lo stato, implicando in tal modo la decentralizzazione assoluta degli impegni politici (Lane, 2005; Jenco, 2009). Come Öcalan, anche Gandhi asserì: “La centralizzazione come sistema è incoerente con una struttura nonviolenta della società” (1998 [1942], vol. 81: 424).
I principi di ecologia sociale incorporati dal confederalismo democratico lo pongono ai ferri corti con il binomio stato/capitalismo, proprio come Gandhi riteneva che la visione del villaggio swaraj non solo fosse incompatibile con la configurazione occidentale dello stato indiano ma anche con l’ethos industriale e urbano che attualmente lo governa: “Non puoi costruire la non-violenza su una civiltà di fabbriche, ma essa può essere costruita su villaggi capaci di provvedere a se stessi… Tu hai pertanto necessità di disporre dapprima di una mente orientata verso la ruralità, per poter poi essere nonviolento, e per poter essere di mentalità rurale devi aver fede nella ruota che gira [simbolo di autosufficienza]” (1998 [1939], vol. 77:abbr 43).
Gandhi argomentava che due divergenti scuole di pensiero si sfidavano reciprocamente per spingere il mondo in direzioni opposte: quella Thoreau Gandhi prese a prestito il motto “sarà lo stato meglio governato quello che è governato minimamente”, aggiungendo: “ecco perché ho detto che lo stato idealmente non violento sarà un’ordinata anarchia” (1998 [1940], vol. 79: 122). L’idea di autogoverno di Gandhi, tuttavia, intesa sia come autogoverno individuale che comunitario, è anche uno dei contributi più significativi di Thoreau espressi in Walden, laddove l’autogoverno è presentato come un’esperienza quotidiana del villaggio rurale, basata sul lavoro manuale, e quella delle città, dipendente dalle macchine, dall’industrializzazione e dalla guerra (1998 [1944], vol. 85: 233). Le moderne città sono presentate come “un’escrescenza” avente l’unico scopo di “drenare la linfa vitale dei villaggi”, essendo “una minaccia costante all vita e alla libertà degli abitanti dei villaggi” (1998 [1927], vol. 38: 210). Come Thoreau e Tolstoj ebbero effetto rimarchevole sulla visione della politica di Gandhi, la sua corrispondenza con Edward Carpenter, autore di “Civilisation, Its Cause and Cure” (1921), influenzò la contrapposizione stabilita da Gandhi fra Satyagraha e civiltà industriale, intesa come “malattia che ha bisogno di cura”. L’industrialismo era basato sulla “capacità di sfruttare” e sulla “cura” per far sì che le popolazioni urbane “acquisissero realmente la mentalità del villaggio” (1998 [1946], vol. 91: 390). Gandhi acutamente asserì: “Il sangue dei villaggi è il cemento con cui l’edificio cittadino è costruito” (1998 [1946], vol. 91: 56-57). Non vi era spazio per sfruttamento o coercizione nel contesto del villaggio autosufficiente e autogovernato.
Molti dei mali che Gandhi attribuiva all’industrialismo colpivano di fatto l’India sotto l’egida del nuovo stato indipendente, nonostante i ripetuti avvertimenti. Le conseguenze sono evidenti nel libro di Vandana Shiva “The Violence of the Green Revolution”, del 1991, che espone i tragici risultati dei programmi governativi indiani di sviluppo agricolo, lanciati con il sostegno tecnico ed economico di agenzie internazionali e con sottostanti promesse di “rapidi aggiustamenti”. Tali misure lasciarono un letale strascico di violenza in termini di conflitti associati, distruzione della fertilità del suolo, soppressione della diversità genetica ed ecologica, indebitamento dei coltivatori. Mentre Gandhi asseriva senza dubbio che “trattori e fertilizzanti chimici segneranno la nostra rovina” (1998 [1947/48], vol. 98: 88, 289), pubblicamente egli stesso sosteneva gli sforzi contemporanei per sviluppare l’agricoltura organica. Di fatto, i principi dell’agricoltura organica sviluppati da Balfour (1944) e Howard negli anni ’40 e ancora oggi attuali erano basati principalmente sull’osservazione di metodi agricoli tradizionali in India, esperienza facilitata anche da Gandhi e dai suoi accoliti. È interessante che apprendimento e sperimentazione sul campo dell’agro-ecologia e della perma-coltura nel contesto dell’autonomia democratica kurda (TATORT, 2013) costituiscono un settore che ha indubbiamente spinto in avanti gran parte delle innovazioni economiche ed ecologiche del movimento.
Costruire l’interdipendenza: circoli oceanici e confederalismo democratico
Il confederalismo democratico non è presentato come paradigma o soluzione per un unico popolo, ma piuttosto come sistema democratico di fondo che può essere applicato all’intera Mesopotamia, al Medio Oriente e oltre, quale “unico approccio che possa confrontarsi con diversificati gruppi etnici e diverse religioni e con differenze di classe” (Öcalan, 2011: 33). Quantunque uniche per capacità d’inclusione, le formulazioni di Öcalan escono rafforzate nella loro adeguatezza dal confronto con alcune proposte precedenti, originate, in Medio Oriente, da differenti realtà.
Oltre mezzo secolo fa Hannah Arendt (1948), a sua volta fautrice della democrazia diretta, espresse la propria opposizione alla creazione di uno stato ebraico, preferendo un accordo confederale fondato su “consigli municipali e rurali misti, ebraico-arabi, di autogoverno locale, su piccola scala, quanto più possibile numerosi” come “sola misura politica realistica che possa infine condurre all’emancipazione politica della Palestina”. Anche Templer (2008), 50 anni dopo, suggerì una “soluzione non statuale” per il conflitto apparentemente inestricabile fra Palestina e Israele, incorporando una visione di un sistema decentralizzato consistente in un “commonwealth cooperativo” multiculturale e dalle molteplici fedi, costruito sulla base di “nuove forme di democrazia diretta decentralizzata, di partecipazione popolare e di orizzontalità e di autonomia di vicinato”, che andrebbe al di là della Palestina storica, includendo altri territori dell’area della Mezzaluna Fertile, seguendo una prospettiva bio-regionale che consideri il bisogno di gestione economica comune di risorse sempre più scarse, quali acqua, gas e petrolio.
Come discusso nella precedente sezione, mentre Gandhi formulava le specificità delle “repubbliche di villaggio” in maniera alquanto dettagliata, la visione complessiva di come queste unità autogovernate dovessero correlarsi l’una con l’altra in un contesto privo di stato restava alquanto vaga, ed è uno degli aspetti meno esplorati del suo pensiero politico. Gandhi prefigurò i “circoli oceanici” come una federazione globale di piccole repubbliche di villaggio autosufficienti ma interdipendenti, “una struttura di innumerevoli villaggi (…) [in cui] vi saranno cerchi sempre più ampi e mai tendenti a salire” (1998 [1946]: 326). Questa non sarebbe una “piramide con il vertice sostenuto dalla base” ma un “cerchio il centro sarà l’individuo” (1998 [1946]: 326). Summy (2013: 55-56) ha interpretato la visione di Gandhi del “cerchio più esterno” quale federazione mondiale di unità interdipendenti basate su piccole repubbliche di villaggio autosufficienti.
Ispirato dagli accordi confederali del municipalismo libertario di Bookchin, il confederalismo democratico è il più chiaro esempio di applicazione pratica di un “sistema democratico di un popolo senza uno stato” a un livello regionale ampio, come prefigurato non soltanto da Gandhi attraverso il suo concetto di “circoli oceanici” ma da molti altri teorici, in ciò includendosi la federazione “di comuni liberi” di Proudhon (The Principle of Federation, 1863) o “il commonwealth dei commonwealth di commonwealth” di Landauer (1978[1911]). Pratica, implementazione e sviluppo del confederalismo democratico e dell’autonomia democratica offrono un esempio realmente significativo di come possano emergere forme sociali e politiche di organizzazione, oltre lo stato e il capitalismo, in ambito locale, regionale e globale.
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