1° Maggio all’ ARARAT: una quotidiana Resistenza
di Maddalena Celano – Seguo la “questione curda” sin dal lontano 1998, una “causa” che mi ha affascinata e che non ho mai abbandonato. Conobbi diversi anni fa le loro “guerrigliere” tenaci e coraggiose, allora “ignorate” dai più o considerate semplicisticamente e banalmente delle “terroriste”. Eppure, in realtà, queste donne combattono da diversi e lunghi anni in quasi tutto il territorio Mediorientale. Nel frattempo, il leader del Partito Indipendentista Curdo, Abdullah Ocalan, tra il 1998 ed il 1999, si trovò al centro di un intricato caso internazionale e diplomatico. Delusa e sconcertata notai che, qui in Italia, Abdullah Ocalan, fu abbandonato a se stesso e consegnato agli aguzzini turchi. Perciò decisi di continuare a seguire la “questione” con un’ atteggiamento più riservato e rassegnato. Passano gli anni ed intanto, il 21 marzo 2013, Abdullah Ocalan, dal carcere di massima sicurezza di Imrali, annuncia, tramite la diffusione di un documento, la tregua con il governo turco e la fine della lotta armata. Da allora, il PKK (il partito capeggiato da Abdullah Ocalan) sviluppa diverse teorie e strategie per garantire al suo popolo un relativo riconoscimento ed una relativa libertà.
Dallo scorso agosto 2014, quando sentii parlare per la prima volta della lotta contro ISIS a Kobanê, nel Kurdistan Siriano, mi sono chiesta perché così poche persone in Italia parlano del Cantone Rojava. Non è una grande novità che un’ area Liberata in Medio Oriente sia guidata da socialisti libertari e da femministe? Un’ area del Medioriente in cui le persone prendono decisioni attraverso pubblici consigli locali e in cui le donne detengono circa il 40 per cento delle posizioni di leadership a tutti i livelli? Diversi attivisti di sinistra non hanno ancora sentito la storia dei cantoni Rojava, Afrin, Cizîre, e Kobanê-nel nord della Siria, o del Kurdistan occidentale. Rojava è una parola kurda che significa “Ovest”, un territorio che per diversi mesi fu dominato da ISIS. A metà del 2012, le forze di Assad in gran parte si ritirarono dalla zona, e la battaglia fu lanciata dalle milizie curde: lo YPG (Protezione Unità Popolare) e lo YPJ (Forze di Difesa delle donne), le milizie autonome delle donne. Queste milizie non sono le stesse dei peshmerga iracheni, anche se la stampa americana utilizza erroneamente tale nome per entrambe le milizie o per tutte le milizie curde. Lo YPG e lo YPJ il 27 gennaio 2015, ottennero una vittoria importante quando sconfissero ISIS in Kobane. Da allora hanno vinto città strategiche come Tel Hamis e Tel Tamr (sui bordi del Cantone di Cizîre). Mentre l’opposizione siriana è comprensibilmente amareggiata per il fatto che lo YPG e lo YPJ si sono ritirati dalla guerra contro Assad, le forze di sinistra in tutto il mondo dovrebbe essere grate agli notevoli compiuti dai curdi siriani e i loro alleati per costruire una zona liberata, dove si possano sviluppare le proprie idee di socialismo, di democrazia, di rinnovata dignità e libertà femminile, e di ecologismo nella pratica quotidiana.
I curdi lavorano su queste idee a partire dal lontano 2003, quando il PYD (Democratic Union Party) venne fondato, da membri siriani del partito curdo bandito della Turchia, il PKK. Nel gennaio 2014, avevano stabilito un sistema bottom-up di governo in ogni cantone, con le decisioni politiche prese dai consigli locali e servizi sociali e questioni giuridiche amministrate dalle strutture della società civile locale sotto l’ombrello di TEV-DEM (Democratic Society Movement). Il TEV-DEM comprende persone provenienti da tutti i gruppi etnici dei cantoni, che sono rappresentati da più di un partito politico, ma la maggior parte della leadership ideologica viene dal PYD. Conquistata da tempo, da questa lunga e complessa questione, decido, questo 1° maggio 2016, di trascorrere il pomeriggio presso il Centro Ararat di Roma (Centro Culturale Curdo, nato nel maggio 1999, nel quartiere Testaccio a Roma), dove lavorano i miei due amici Kazim Toptas e Sara Can (nome italianizzato che utilizza l’ unica donna del centro, per non creare difficoltà “linguistiche” gli italiani).
Conosco Kazim da circa due anni e Sara, invece, da circa 6-7 anni. Kazim, nel momento in cui lo conobbi, scriveva discretamente in italiano ma parlava male (credo per scarsa abitudine o timidezza). Mentre, ora, il suo italiano è notevolmente migliorato ed è in grado di discutere, per ore intere, di complesse questioni internazionali. Sin dal momento in cui lo conobbi mi colpì la sua timidezza, mista a passione e radicate convinzioni verso le idee ed i principi che professa. Alla realizzazione del Centro Ararat, ci cui Kazim è il coordinatore principale, hanno collaborato l’ Associazione Azad, il Villaggio Globale, l’ Associazione Senza Confine, le Donne in Nero e tante altre organizzazioni e membri della società civile. Per chi ancora non ne fosse a conoscenza, informo che il Centro Culturale Ararat ha ricevuto una lettera dall’ amministrazione capitolina il 22 marzo scorso, che ne ha intimato lo sgombero. La formalizzazione della concessione della sede da parte del Comune di Roma è arrivata nel 2009, della durata di sei anni. Il rinnovo è stato richiesto già nel novembre 2014 ma, al suo posto, è arrivata invece l’ intimidazione di sgombero. Nel frattempo, decido di intervistare il mio amico Kazim per comprendere meglio quanto accaduto in questi giorni.
Siete riusciti ad evitare l’ azione di sgombero?
Il mese scorso abbiamo realizzato diverse riunioni ed iniziative per evitare il peggio. Il Centro Ararat resta l’ unico riferimento della Comunità Curda in tutto il Centro Italia. Perciò perdere un simile “legame” significherebbe indebolire ulteriormente la nostra azione sociale e politica, sia livello locale che a livello internazionale. Inoltre rappresenterebbe un attacco diretto alla nostra comunità. Nel frattempo, abbiamo ricevuto la solidarietà di diverse associazioni di volontariato, nonché da varie organizzazioni politiche orientate a sinistra. Questo sabato 2 aprile è stata organizzata una “colazione resistente” a partire dalle 06:30 del mattino. Diversi studenti e lavoratori ci hanno portato il loro sostegno e consenso. Lo stesso Corteo del 25 Aprile, indetto a Roma, è stato dedicato all’ esperienza politica e sociale del Centro Ararat, infatti è confluito simbolicamente all’ interno del Centro Ararat. Diversi attivisti e diversi membri della società civile, hanno deciso di supportare la nostra causa e difendere Ararat da eventuali minacce di chiusura.
La solidarietà dimostrata verso la vostra causa, basterà ad impedire il peggio, cioè la chiusura del Centro?
Potrebbe anche non bastare. Dipende anche da chi vincerà a Roma le prossime elezioni Comunali. Un futuro sindaco, con idee reazionarie, potrebbe peggiorare notevolmente la nostra situazione. Perciò, in questo momento, ci troviamo in una fase “attendista”.
Tornando alla politica internazionale, secondo fonti legate a Kurdistan Report e Rojava Calling, il cantone Cizîre, nel mese del dicembre 2014, possiede 300 membri effettivi e due eletti co-presidenti, un maschio, una femmina. Diciotto comuni costituiscono un quartiere, ed i co-presidenti vengono eletti direttamente. I consigli decidono tutto in materia di amministrazione e di economia, come la raccolta dei rifiuti, la distribuzione di gasolio, la proprietà della terra, dal basso, con una forte impronta “di-genere”. Si tratta, in effetti, di una novità a livello internazionale. Da diversi anni, penso che persino gli italiani più progressisti ed evoluti, non sarebbero pronti ad un esperimento sociale e civile così radicalmente “egualitario” e femminista. Forse sbaglio?
Tutti i comuni e i consigli sono composti da un 40% di donne. Lo PYD, è orientato a rivoluzionare i rapporti di genere tradizionali, ha anche istituito organismi autonomi paralleli composti da donne a ogni livello. Questo determina la politica su questioni di particolare interesse per le donne, come i matrimoni forzati, i delitti d’onore, la poligamia, la violenza sessuale e le discriminazioni. Dal momento che la violenza domestica è un problema annoso e mai del tutto superato, è stato istituito un sistema di rifugi per donne violate. Noi uomini curdi, non siamo nati “femministi”, né siamo stati cresciuti con l’ idea di “eguaglianza” di genere. Il patriarcato e la sua eredità è molto radicato anche nel Kurdistan. Noi uomini curdi abbiamo semplicemente intrapreso un cammino di consapevolezza e crescita personale. Abbiamo compreso che, reprimere le donne e soffocare le loro aspettative, non ci avrebbe aiutato a conseguire risultati durevoli. Abbiamo compreso che, per un concreto sviluppo sociale ed umano, il contributo culturale e creativo femminile vale almeno quanto quello maschile. Soffocare l’ azione e la creatività femminile, comporta solo un regresso di civiltà e non è quello che desideriamo.
Se le vostre idee prevarranno contro quelle di ISIS, il nazionalismo curdo, e gli stati ostili che circondano i Cantoni, potrebbero influenzare la creazione di una diversa disposizione politica nell’intera regione?
La risposta sta in parte nelle modalità in cui si definisce la solidarietà internazionale. Sembrerebbe esserci la proiezione del potere statunitense in tutta la regione e questo non rende i giochi facili, neanche per noi. Non abbiamo mai considerato gli USA un alleato affidabile, soprattutto perché sostiene lo stato Turco, uno stato che stermina curdi a centinaia e che si mostra incapace di rispettare i diritti umani più elementari. Possedere un “alleato” così ambiguo ed ingombrante rende piuttosto opache le nostre prospettive.
Ma quali sono le motivazioni degli Stati Uniti? Fin’ora gli statunitensi si sono sempre mostrati disponibili a fornire ogni genere di aiuto.
Gli USA ci hanno fornito un aiuto relativo e funzionale ai loro interessi. Inoltre, gli USA, si sono sempre mostrati piuttosto indifferenti nei confronti della rivoluzione in atto, nel Rojava. Questo modo di inquadrare la questione è piuttosto unilaterale;la critica anti-imperialista non è sufficiente senza la solidarietà ed un supporto concreto alla causa.
Le grandi potenze ignorano o “ghermiscono” ogni tentativo di radicale rivoluzione civica e sociale. Nel frattempo, molti a sinistra, anche nella sinistra radicale, sembrano aver tacitamente adottato una politica che parte dagli stessi principi conservatori (cioè ignorare o s-vilire i tentativi rivoluzionari in corso), anche se si continua a far rumore e chiasso, ma solo superficialmente. Si atteggiano a puritani “anti-imperialisti” ma valorizzano esclusivamente i ruoli dei singoli governi o dei capitalisti in corso e, questo, diventa l’unico gioco di cui vale la pena parlare. I Curdi non hanno una nazione, siamo i nuovi “apolidi”. Perciò i reazionari ci detestano ma anche i “puritani” dell’ anti-imperialismo nostrano ci guardano con diffidenza. Gli “apolidi”, per via della struttura “nomade” ed “indefinita” delle loro esistenze, risultano sempre destabilizzanti per tutti gli schieramenti, soprattutto se gli schieramenti sono ingessati da schemi dogmatici.
Pensi che siamo troppo cinici o depressi per credere che qualcosa di nuovo possa accadere?
Si riconoscono le idee rivoluzionarie quando provengono da Grecia, Spagna, o dall’ America Latina, ma non dal Medio Oriente. In Italia è ancora troppo diffuso un viscerale sessismo per prendere sul serio l’idea di una rivoluzione femminista. Ad esempio, in Italia non esiste un vero e proprio Welfare State che faccia da supporto alla vita familiare delle madri, soprattutto se esse lavorano. Inoltre, nel lavoro, le donne italiane si collocano sotto la media europea (lo dice il World Economic Forum), i tassi di occupazione femminile sono bassissimi, sette anni fa (nel 2009) si registrava un 47, 02 di donne impiegate contro il 70, 3 di uomini impiegati, molto al di sotto rispetto alla media europea. Inoltre, credo che non si siano registrati notevoli cambiamenti. Non ho dati alla mano ma immagino, addirittura, che la situazione sia peggiorata. L’ Italia sembrerebbe un paese fermo, ostile al cambiamento … Perciò non è sempre facile fare politica e combattere per determinati ideali, soprattutto in una città come Roma.
Si dice che i Curdi non siano tutti uguali. Che esistano diverse fazioni e orientamenti, spesso contrastanti. Ritieni sia vera quest’ affermazione?
Mentre i curdi siriani e turchi sono teoricamente alleati contro ISIS, i curdi iracheni sono alleati anche alla Turchia e, questo, ha portato a tensioni significative tra le fazioni curde.Vi sono enormi differenze politiche su questioni di governance, i diritti delle donne, l’ecologia, e il nazionalismo.I partiti politici dei curdi iracheni, preferiti dagli Stati Uniti, sono in procinto di stabilire un proprio Stato indipendente, autonomo e basato sugli introiti petroliferi. Le donne curde, ad esempio, vivono meglio a Kirkuk che nel resto dell’Iraq, in cui sono ancora molto comuni i delitti d’onore, le mutilazioni genitali femminili, i matrimoni forzati, i matrimoni precoci, la lapidazione, lo stupro, lo stupro coniugale e molte altre forme di violenza. Il governo Barzani ha fatto poco per affrontare questi problemi. Come scrive la femminista curda Dilar Dirik, “vi è mancanza di organizzazioni veramente indipendenti, dalla parte delle donne”, nel Kurdistan iracheno il dominio “tribalista e la politica feudale incoraggia gli atteggiamenti patriarcali “. Noi curdi-turchi abbiamo poco in comune con queste realtà ed i rapporti interni, tra realtà curde divergenti, non sono idilliaci. Nonostante ciò, non smettiamo mai di creare ponti e tentare, tra noi, nuove forme di dialogo. Lentamente si forma la consapevolezza che soltanto uniti si potrà raggiungere obbiettivi ambiziosi e duraturi. L’ ostacolo più grande non è la popolazione curda, ma una parte della nostra leadership che, soprattutto in Iraq, “de facto” non guida più il proprio popolo, ma rincorre interessi privati e personali.
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