L’asilo politico di Apo è valido, scandaloso il silenzio italiano»
Kurdistan. Intervista a Luigi Saraceni, avvocato del leader del Pkk vent’anni fa: «Non poteva essere cacciato, D’Alema non aveva i mezzi né politici né giuridici. Non ci fu un complotto ma una dichiarata e militante volontà turca, americana e israeliana di catturarlo»
Milano, presidio per la liberazione dei detenuti politici curdi e del leader del Pkk Abdullah Ocalan
«La prima volta che vidi Abdullah Ocalan fu poco dopo il suo arrivo, all’ospedale militare a Palestrina: era tranquillo, sul letto, leggeva Germinale di Émile Zola in francese». A ricordare quei giorni del novembre 1998 è Luigi Saraceni.
Ex giudice, avvocato, tra i fondatori di Magistratura Democratica, ha fatto parte del team legale che seguì il leader curdo al suo arrivo in Italia. Fino all’arresto in Kenya, il 15 febbraio 1999. Racconta quei mesi in un libro appena pubblicato, Un secolo e poco più, edito da Sellerio. Lo abbiamo incontrato in occasione dei venti anni dalla cattura di Ocalan e l’inizio di un isolamento lungo due decenni.
Cosa accadde in quei primi giorni italiani di Apo?
Era novembre 1998. Giuliano Pisapia, caro amico, mi chiamò per dirmi che Ocalan era stato arrestato a Fiumicino, al suo arrivo in Italia. Sapevo vagamente chi fosse, in pochi in Italia lo sapevano. Rifondazione comunista aveva chiesto a Pisapia di seguire la cosa, ma lui stava partendo e mi chiese di sostituirlo. Fui nominato suo difensore. Sono subito andato a Palestrina: lo avevano condotto all’ospedale militare e non in carcere. Con Ocalan c’era una persona,di cui nel libro non indico il vero nome, che mi fece da tramite e interprete. In mano aveva un comunicato che intendevano lanciare lì a breve, mentre fuori si affollavano operatori e giornalisti, tutti a caccia di Ocalan. Nel comunicato i curdi esprimevano rabbia: pensavano che all’arrivo in Italia ad Apo sarebbe stato riconosciuto l’asilo politico. Il comunicato era molto duro con il governo italiano. Guardando le carte, capii che lo avevano arrestato a causa di un mandato di cattura spiccato dalla Germania, la polizia italiana non poteva fare altrimenti. Gli spiegai che il governo formalmente non c’entrava nulla, con quel tipo di comunicato potevamo giocarci l’asilo politico. Ocalan intervenne dandomi ragione, mi sorprese favorevolmente. Il comunicato venne modificato. Così è cominciata la storia.
All’epoca si prospettò una soluzione internazionale, un processo fuori dalla Turchia. Perché non fu fatto?
Nessuno lo voleva fare, tutti i paesi avevano lo stesso atteggiamento: scansare la palla. La soluzione, lo scrisse anche Rodotà all’epoca, era di processarlo in Italia. Il governo italiano non voleva questo processo (D’Alema mi disse, nel mio dialetto calabrese, se n’adda ij), voleva che noi avvocati lo convincessimo ad andarsene. Se il processo si fosse tenuto in Italia, sarebbe stata una tribuna incredibile per i curdi, per la causa curda. E se anche Ocalan avesse dovuto scontare un periodo in prigione, non sarebbe mai stato paragonabile a una detenzione in Turchia. Ma Ocalan e soprattutto i suoi consiglieri dicevano di non poter accettare un processo: il suo popolo non poteva vederlo alla sbarra degli imputati o in galera. Decise quindi di partire e andare in Russia, da cui era scappato poco prima. Organizzare il viaggio fu complicato, nessuna compagnia aerea voleva trasportarlo: si temeva che i turchi o gli israeliani potessero abbattere l’aereo.
Alla fine, e in questo fu bravo il governo, il viaggio fu organizzato in tutta segretezza: la versione ufficiale è che una compagnia d’aerea privata, con una cospicua assicurazione, lo portò in Russia. Già il giorno dopo, però, venimmo a sapere che era nei guai, non sapevamo nulla di più. Ci arrivò una richiesta dai curdi di Bruxelles: io e Giuliano dovevamo partire per un paese africano per raggiungere Ocalan. Andò Pisapia, i curdi gli comunicarono la destinazione all’ultimo momento: Kenya. A Nairobi incontrò Ocalan nella residenza dell’ambasciatore greco, ospite su ordine del ministro degli Esteri, ma non del governo di Atene. Giuliano tornò a Roma per trovare un’altra soluzione. Ma un paio di giorni dopo la tv mandò le immagini, terribili, del rapimento: bendato, drogato, immagini che facevano soffrire.
Perché quel passaggio in Russia?
I curdi fecero un grave errore: il governo, mi disse all’epoca Marco Minniti che era sottosegretario alla presidenza del consiglio, gli aveva proposto di andare in Africa, in un paese dove gli sarebbe stato assicurato almeno un biennio di ospitalità sicura. Recentemente D’Alema mi ha raccontato di aver preso accordi con il governo russo perché desse ospitalità a Ocalan per qualche tempo per poi trasferirlo in Africa. Ma Ocalan non accettò: voleva andare in Grecia perché altrimenti sarebbe venuto meno il suo ruolo di leader politico, in Africa non sarebbe riuscito a svolgere. I curdi non si sono fidati di Roma e secondo me non accettare quella proposta fu un errore. In quei giorni eravamo così disperati che andammo anche da Gianni Minà a chiedergli se Fidel Castro poteva ospitare Apo a Cuba. Non abbiamo fatto nemmeno in tempo a rivolgerci a L’Avana che vedemmo le immagini del suo rapimento in Kenya.
Avevate chiesto l’asilo politico in Italia e l’avevate ottenuto. È tuttora valido?
Qui sta la beffa. Sullo stato di rifugiato decide una commissione ministeriale, ma noi sostenemmo che l’asilo politico si può ottenere per via giudiziaria perché è un diritto soggettivo perfetto, assicurato dall’articolo 10 della Costituzione. Avevamo dunque presentato domanda a un tribunale ordinario. Che ci diede ragione. Ma era troppo tardi: Ocalan era già in Turchia. È ancora valido: Ocalan è assistito da asilo politico italiano. Lo scrivo nel mio libro: «È scandalosa l’indifferenza con cui l’Italia tollera in silenzio da quasi 20 anni che un cittadino del mondo al quale ha accordato asilo politico sia sottoposto a un regime carcerario certamente inumano e degradante». Ma con la Turchia non si vogliono problemi: all’epoca ci fu una caduta verticale dei rapporti commerciali, è inimmaginabile che oggi il governo intervenga. Quando cercammo di andare in Turchia a incontrarlo, in qualità di legali e deputati, la Farnesina ci comunicò che saremmo stati respinti. Quest’ostracismo dura ancora, non posso entrare in Turchia.
Qual è stata la responsabilità italiana?
L’Italia avrebbe dovuto riconoscergli l’asilo politico, accoglierlo. Ha preferito liberarsene. Ma non è stata l’Italia a farlo arrestare. Non ho particolare interesse a difendere il governo, però è stato Apo a decidere di andarsene e chi lo ha mal consigliato. Non poteva essere cacciato e D’Alema lo sapeva benissimo, lo diceva pubblicamente. Non aveva gli strumenti né politici né giuridici. Sarebbe scoppiato un putiferio, c’erano talmente tante pressioni esterne e interne che il governo rischiava di cadere. Apo, lo dico con rammarico, gli ha tolto le castagne dal fuoco con le sue mani.
C’è chi ritiene che quell’arresto fu figlio di un complotto internazionale che coinvolse diversi attori. Cosa ne pensa?
Non ci fu un complotto ma una precisa, dichiarata, militante volontà politica turca, americana e israeliana di catturarlo. Fu un atto di pirateria internazionale: non fu un arresto ma un rapimento. Ma è successo perché Apo ha lasciato l’Italia, se non se ne fosse andato non sarebbe successo. È vero che eravamo minuto per minuto controllati da otto servizi segreti ma D’Alema sapeva di non poterlo cacciare, era giuridicamente impossibile espellerlo perché c’era una domanda d’asilo pendente. Il governo italiano aveva provato a “mollarlo” alla Germania che aveva spiccato il mandato di cattura, ma Berlino si rifiutò per la presenza di un milione di curdi e un milione di turchi sul proprio territorio. In Turchia non lo si poteva mandare per la pena di morte. Se Ocalan fosse rimasto in Italia, la cosa peggiore sarebbe stata affrontare un processo qui.
Ha passato due mesi fianco a fianco con Ocalan. Che persona ricorda?
La sua visione era chiara. Facemmo una conferenza stampa su sua indicazione: otto punti per la pace. Voleva porre fine alla guerra già allora, lanciare l’idea dell’autonomia. Andavo da lui all’Infernetto quasi ogni giorno. Ricordo quando si giocò Galatasaray-Juventus, Ocalan da ragazzino era un tifoso della squadra di Istanbul. La partita fu rinviata di una settimana per timore di incidenti ma non successe nulla. Vedemmo la partita insieme, c’era anche mio figlio, molto invidiato dai suoi coetanei: Apo era diventato un eroe agli occhi di tanti. Mio figlio girò un video, l’unico esistente di Ocalan in Italia. Lo conservo ancora.
di Chiara Cruciati, Il Manifesto