Viviamo, impariamo e combattiamo. Le donne di Kobane sul fronte delle contraddizioni
In una recente intervista dal fronte realizzata dalla reporter australiana Tara Brown, una donna combattente curda delle YPJ (Unità di protezione delle Donne) ha dichiarato che lo Stato Islamico è un nemico dell’umanità. Per lei e per le donne della sua brigata Kobane è il confine globale che separa la civiltà dalla barbarie.
C’è qualcosa di spiazzante in queste parole perché sono le stesse che, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, hanno preteso di giustificare una guerra combattuta senza frontiere, dall’Afghanistan all’Iraq alle periferie delle città americane ed europee, in nome della «duratura libertà» di un Occidente minacciato dal terrorismo globale.
Ma è altrettanto spiazzante il radicale cambiamento di prospettiva che impongono il contesto e la posizione di chi parla: se ci muoviamo dalle stanze blindate del Pentagono a una terra di passaggio in Medioriente non abbiamo più davanti un manipolo di uomini che pretende di guidare una guerra giusta per la libertà – anche quella delle donne oppresse dall’integralismo talebano –, ma donne protette soltanto da sottili muri di pietra e dalle proprie armi che combattono per liberare se stesse. Quest’osservazione, però, non basta a quietare il senso di spiazzamento.
È davvero sufficiente che sia una donna a pronunciare quelle parole per cambiare il loro significato, per rovesciare un discorso che ha veicolato gerarchie e oppressione e per trasformarlo in una canzone per la libertà? Il fatto che siano le donne a imbracciare le armi è sufficiente a farci rinunciare al pacifismo che abbiamo sostenuto di fronte all’invasione statunitense dell’Afghanistan, a farci riconoscere le ragioni della guerra?
Le fila delle Unità di protezione del popolo contano 45mila unità, il 35% sono donne. Quasi 16mila guerriere contraddicono praticamente ogni legame sostanziale tra il sesso, la guerra o la pace. Si tratta, per la maggior parte, di curde siriane, ma ogni giorno nuove combattenti provenienti dalla Turchia e dalla Siria, non soltanto curde, si uniscono alle YPJ. Un detonatore per questa ondata di reclutamenti è stata la presa del Sinjar da parte dello Stato islamico, lo scorso 3 agosto.
Migliaia di donne curde yezidi sono state catturate. Quelle che non sono state uccise per essersi ribellate o aver tentato di fuggire e quelle che non si sono uccise per scampare al proprio destino sono state stuprate, ridotte in schiavitù e vendute a combattenti ed emiri al solo scopo di soddisfare le loro esigenze sessuali e la necessità di produrre e allevare martiri jihadisti. Centinaia di bambini sono stati catturati e rinchiusi in scuole coraniche per essere trasformati in combattenti.
Dietro all’odio sfrenato dell’IS nei confronti delle donne – obbligate da norme ferree che regolano il loro abbigliamento e limitano la loro mobilità, che le dichiarano «disponibili allo stupro» – c’è la loro riduzione a strumenti di riproduzione di un ordine violentemente patriarcale secondo una logica che, per quanto estremizzata e connotata confessionalmente, ha un carattere terribilmente globale.
A Kobane si sta perciò combattendo una «guerra di posizione» e questa definizione non ha nulla a che fare con le strategie militari. Il fatto è che in gioco c’è anche il posto che le donne occupano nel mondo e per questo le guerriere delle YPJ sono orgogliose di avere imbracciato le armi, come lo sono le loro madri organizzate nel gruppo Şehîd Jîn’. L’etica della cura di cui queste donne sono portatrici assume forme del tutto impreviste per chi, da questa parte del mondo, fa della cura qualcosa che riguarda la vita e che, per sua natura, nega la guerra.
A Kobane, però, la guerra è la scelta obbligata per chi intende curarsi della propria vita e della propria libertà, della vita e della libertà dei propri compagni e compagne, della propria regione, delle proprie idee. Intervistata da Rozh Ahmad, che ha realizzato un bellissimo documentario dal fronte della Rojava, la madre di una combattente, che indossa il velo, racconta: «due delle mie figlie sono andate via nella stessa settimana. Una è entrata nelle YPJ, l’altra si è sposata.
Per fortuna non mi preoccupo per quella che è nelle YPJ. Hanno buone idee e per noi è un onore avere una figlia nelle loro fila. La mia figlia sposata sta bene, ma sono ancora preoccupata per lei». Questa madre non dice quale sia la sua preoccupazione, ma possiamo immaginarlo dal racconto della sua figlia combattente: «la nostra società guardava le donne solo come buone casalinghe, le donne erano fatte su misura per gli uomini e rinchiuse in casa come schiave.
Ora abbiamo appreso questa realtà amara. Ora siamo cambiate: viviamo, impariamo e combattiamo. Siamo soldatesse ora […] viviamo pienamente la nostra diversità».
Le donne combattenti di Kobane, in primo luogo, sono diverse da ciò che sono state. Le armi hanno segnato un cambiamento decisivo rispetto all’inesausta continuità della tradizione e forse anche rispetto alla «Carta del contratto sociale» della Rojava, che alle donne garantisce l’uguaglianza e la partecipazione attiva a ogni organo di autogoverno.
Si tratta di un cambiamento che è dovuto, in una certa misura, alla spinta politica del PKK, nella cui «ideologia» si riconosce pienamente l’Alto consiglio delle donne del movimento di liberazione del Kurdistan. Come spiega Handan Çağlayan, la persistenza di consuetudini come il namus, l’obbligo di sorvegliare i corpi, i comportamenti e la sessualità delle donne da parte degli uomini, costituiva un grosso limite alla mobilitazione di massa in favore della causa curda. Il nesso stabilito da Öcalan tra la liberazione delle donne e la rivoluzione sociale (Woman and Family Question, 1992) non può comunque essere letto esclusivamente alla luce delle «strategie di mobilitazione», ma deve essere considerato allo stesso tempo una risposta a un massiccio protagonismo delle donne, anche nella guerra, a partire dalla fine degli anni ’80. Inoltre, il mancato riconoscimento della minoranza curda da parte della Siria ha prodotto nelle donne un sentimento di oppressione e, con esso, il senso della possibilità e della necessità della ribellione.
Lo racconta chiaramente a Rozh Ahmad una delle combattenti intervistate: «noi ragazze curde eravamo costrette a parlare arabo tra di noi a scuola. Noi curdi eravamo oppressi, lo Stato controllava completamente le nostre vite. Ma ci siamo sempre ribellati contro tutto questo». Al di là dell’identificazione di queste donne con la causa curda c’è, però, qualcosa di più. Una di loro racconta che, secondo alcuni, le combattenti «sono tagliate fuori dalla vita sociale» perché hanno preso le armi.
A loro risponde con orgoglio che, assieme alle sue compagne, ha «una vita molto più ricca di quello che loro possono pensare». Con orgoglio un’altra afferma che alcuni uomini, che non hanno avuto il coraggio di combattere, abbassano la testa al loro passaggio. Benché ciò passi in secondo piano rispetto all’impressionante resistenza che stanno opponendo all’IS, sembra che queste donne stiano portando avanti anche una battaglia sul fronte interno per affermare il loro diritto a conquistarsi la libertà.
È stata la partecipazione alla guerra che le ha portate a sentirsi uguali. Contro ogni retorica nazionalistica costruita sulla «difesa delle nostre donne», le guerriere delle YPJ hanno preso a difendere se stesse e hanno accettato il rischio di morire, senza per questo avere una felice propensione al martirio. Contro l’incredulità dei loro padri e dei loro fratelli che dubitavano della loro forza e ben oltre il formale riconoscimento della loro uguaglianza espresso nella costituzione della Rojava, queste donne hanno dimostrato di avere non solo la forza, ma anche il coraggio.
A loro non piace la guerra, a loro non piace uccidere, a loro non piacciono le armi e lo ripetono nelle loro interviste. Una combattente racconta che pulire il suo fucile non era poi così difficile, ma per sparare ha dovuto superare la paura. Ognuna di queste donne ha combattuto prima di tutto contro una parte di sé, la propria «passività», come la chiama qualcuna, l’ignoranza di che cosa possa significare «essere una donna», per andare sul fronte di Kobane. Nessuna di loro era già libera, ciascuna di loro ha dovuto conquistarsi un pezzo di libertà.
Convinte che la guerra e la pratica della violenza non siano proprie delle donne, alcune potrebbero arrivare a negare che queste donne siano davvero tali. È già accaduto di fronte alle immagini di Lynndie, la fiera torturatrice di Abu Grahib. Tra lei e le combattenti della Rojava c’è un abisso, ma in entrambi i casi è chiaro che vi sono molti modi di stare al mondo come donne, al di là di qualsiasi destino tracciato dall’ordine simbolico del padre o da quello della madre. Convinte che l’uguaglianza non sia altro che l’espressione politicamente corretta del perpetuarsi di un potere sessuale sulle donne, altre potrebbero vedere in queste guerriere la riproduzione di un «modello maschile» di autonomia.
Eppure, queste combattenti sono donne e per le donne combattono, contro una schiavitù che non indossa solo le maschere nere dell’IS e del suo fondamentalismo, ma che, come ricorda una di loro, arriva in Europa nelle vesti accettabili e colorate del capitalismo. Forse, allora, non è la storia di queste donne a essere inadeguata rispetto alle alte vette della libertà femminile. Forse sono i discorsi che donne e femministe hanno a disposizione a non essere all’altezza della storia delle combattenti di Kobane.
Non si tratta, evidentemente, di fare della lotta armata il paradigma di ogni percorso di liberazione, né di dimenticare quanta oppressione e quanto sfruttamento passano per l’uguaglianza formale. Non si può neppure ignorare, però, che mentre rivendicano di essere «una brigata di sole donne che vivono in modo completamente indipendente», combattendo al fianco dei loro compagni sul fronte queste donne rivendicano e praticano l’uguaglianza e insegnano qualcosa agli uomini.
C’è, in questo, qualcosa di profondamente sovversivo, che forse non sarà decisivo dal punto di vista militare ma senz’altro lo è dal punto di vista politico. Duemila donne, miseramente equipaggiate e con scarso appoggio internazionale, danno un contributo fondamentale alla difesa di una città asserragliata da novemila jihadisti ben armati. La loro forza – come ha ricordato la combattente delle YPJ Xwindar Tirêj – non è nei fucili ma nella determinazione. Certo, anche i loro compagni sono determinati, ma nell’uguaglianza femminile c’è qualcosa di più. È il volto e il corpo di quella determinazione a terrorizzare i combattenti dello Stato islamico convinti che, se saranno uccisi da una donna, non andranno in paradiso.
Così, mentre i miliziani dell’IS aspirano al paradiso, le donne di Kobane pretendono di portarlo sulla terra e, nel farlo, pongono domande davvero scomode al di qua di Kobane. Forse questo spiega il muto e fragoroso silenzio di molte donne e femministe di fronte a questa guerra e al ruolo delle Unità di protezione delle donne.
Forse è più facile schierarsi nella guerra quando la parte delle donne è quella di vittime, quando il loro corpo è un terreno di battaglia, quando si fanno mediatrici e ambasciatrici di pace, quando sono uno fra i molti generi che subiscono la discriminazione e l’oppressione fondamentalistica, quando possono essere guardate come la metafora di una vulnerabilità che unisce il genere umano e rivela le bellicose pretese di dominio del soggetto Maschio, Bianco e Occidentale, quando sono esotici soggetti post-coloniali.
Forse è più difficile prendere parte alla guerra quando significa ammettere che le stesse che danno la vita possono toglierla a colpi di mortaio, che le stesse che incarnano la pace possono decidere di armarsi e andare al fronte, che le stesse che si prendono cura possono colpire, che le stesse che dovrebbero contestare il potere lottano per prendere potere e lo fanno come donne.
Mentre ridono e sparano, mentre riposano e danzano con tute mimetiche e foulard colorati, le donne combattenti di Kobane sembrano indicare il punto in cui ogni discorso formulato fin qui da donne e femministe rischia di sbriciolarsi sul fronte delle contraddizioni. Per questo, piuttosto che trincerarsi nel silenzio, vale forse la pena ascoltare e provare a capire la posta in gioco globale della guerra delle donne di Kobane.
di Paola Rudan
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