Trump: via dalla Siria. Più vicino l’attacco turco contro Rojava
Medio Oriente. Il presidente Usa annuncia il ritiro dei marines: «Isis sconfitto». Pentagono contrario. Per Erdogan è una luce verde anti-Pkk: Ankara ha già intensificato i raid nell’irachena Sinjar e ora punta alla siriana Kobane
Lunedì i jet turchi hanno colpito il villaggio di Bene, ad Afrin, cantone curdo nel nord-ovest della Siria: due civili feriti, enormi i danni alle case. Meno di una settimana fa avevano centrato il campo profughi di Makhmour dall’altra parte del confine, nell’Iraq del nord: uccise quattro donne, tra i 14 e i 73 anni. Il governo di Baghdad si è infuriato e ha convocato l’ambasciatore turco.
Il presidente Erdogan, da anni, fa il bello e il cattivo tempo nel Kurdistan siriano e iracheno, con un obiettivo unico: distruggere il confederalismo democratico di Rojava ed eliminare il Pkk operativo tra le montagne irachene di Qandil.
UN’escalation che sta generando grandi timori tra le comunità curde, sicure che la minaccia di Erdogan si concretizzerà a breve: l’operazione oltre l’est dell’Eufrate, ha detto lunedì, «è imminente». Dopo Afrin, occupata nel marzo scorso e soggetta a una dura azione di sostituzione demografica – con gli abitanti curdi cacciati per fare spazio a miliziani islamisti sunniti e ai loro familiari – la Turchia si spinge a oriente, verso i cantoni di Kobane e Jazira.
A darne in qualche modo conferma è stata ieri la Casa bianca: il Pentagono sta avviando il ritiro dei marines di stanza in Siria, a nord a sostegno della campagna anti-Isis delle Forze democratiche siriane (Sdf, federazione di combattenti di diverse fedi ed etnie di cui Ypg e Ypj curde sono la guida) e a sud nella base di al-Tanf, confine con l’Iraq, area altamente strategica: è da qui che transitano uomini e armi dall’Iran a sostegno del governo di Damasco.
L’amministrazione ha dato ordine alla Difesa di «iniziare a pianificare l’immediato ritiro» e, riporta la Reuters, lo staff del Dipartimento di Stato sarà richiamato entro 24 ore. Spiega la mossa lo stesso Trump, con il solito tweet: «Abbiamo sconfitto l’Isis, la mia sola ragione per essere lì».
L’Isis, come sanno bene siriani e iracheni, non è affatto sconfitto: è presente con cellule sparse sul territorio (alla frontiera tra i due paesi si stimano 2.500 miliziani) e si fa vedere con cadenza regolare con attentati brutali contro le due popolazioni. Lo confermava pochi giorni fa Brett McGurk, inviato del presidente per la coalizione anti-Isis: «Nessuno dice che sta scomparendo, nessuno è così naif. Per questo resteremo sul terreno, per assicurare stabilità».
Trump lo smentisce mentre il Pentagono preferisce tacere, lasciando che a parlare siano le indiscrezioni: il Dipartimento della Difesa vuole impedire il ritiro, sebbene la portavoce della Casa bianca Sarah Sanders parli di rientro già iniziato.
Alla finestra c’è Erdogan che, senza i marines Usa tra i piedi, avrebbe tutt’altra libertà di manovra: la presenza americana a Rojava costituisce un problema, non perché Washington intenda difendere le Sdf o le unità curde (lo si è visto ad Afrin, invasa sotto gli occhi degli Stati uniti, senza che questi aprissero bocca), ma perché un’avanzata terrestre turca porterebbe a un vis-à-vis imbarazzante.
Soprattutto a fronte di un nuovo accordo militare tra Washington e Ankara: martedì il Pentagono ha approvato la vendita di sistemi di difesa Patriot ai turchi, 3,5 miliardi di dollari. Un sì che sblocca l’annoso stallo che aveva spinto Erdogan tra le braccia russe: nel 2017 Ankara ha firmato con Mosca un accordo per l’acquisto di sistemi di difesa S-400, da installare entro ottobre 2019, giudicati dalla Nato uno sgarbo al Patto atlantico.
A sopportare il peso devastante di un’operazione turca saranno le comunità curde. Stavolta, di fronte, non avranno l’artiglieria di una milizia come l’Isis, ma i caccia e i droni del secondo esercito della Nato, con il suo potenziale distruttivo e la sua «legittimità» internazionale. Ankara ha già avvertito: intensificheremo le operazioni anti-Pkk nell’irachena Sinjar, ha detto il ministero degli Esteri, mentre il presidente stimava in «qualche giorno» l’operazione nella siriana Rojava.
di Chiara Cruciati, Manifesto