Siamo tutti Cicek Kobane
Forse anche la cattura di Dozgin Temo (nome di battaglia Cicek Kobane), ferita, da parte di Ahrar al-Sham (una gang jihadista al servizio di Ankara, formalmente sotto l’incongrua bandiera dell’Esercito nazionale siriano) in Rojava nel novembre 2019 era destinata a sprofondare nel dimenticatoio, nel tritacarne mediatico-spettacolare. E probabilmente anche l’epilogo era quasi scontato. Un ennesimo brutale femminicidio, uno dei tanti di cui si sono resi responsabili sia i mercenari islamisti che l’esercito turco.
Forse, dicevo. Ma una serie di coincidenze, in particolare lo sdegno universale suscitato dalla recente uccisione (ugualmente messa in rete dagli aguzzini) di Hevrin Khalaf, stuprata e decapitata, aveva costretto le autorità turche a riprendere in mano la situazione. Portando Cicek Kobane in Turchia (comunque illegalmente), sottoponendola a cure mediche (almeno ufficialmente, ma vedremo poi come la cosa sia opinabile, per lo meno in quanto a efficacia) e consegnandola alla giustizia per sottoporla a processo.
Restano le immagini disgustose dei suoi aguzzini sghignazzanti, le loro offese sessiste, il loro totale disprezzo per una donna che aveva osato l’impensabile: ribellarsi all’autorità patriarcale e combatterla. Le minacce, per niente retoriche, di ucciderla.
E di lei, unica persona dotata di dignità umana in mezzo al branco.
Inevitabile ripensare alle immagini di donne curde catturate, torturate, violentate, assassinate, talvolta decapitate. Ai loro corpi denudati e gettati in strada.
Sia per mano delle bande fascio-islamiche che dell’esercito turco; sia in Rojava che in Bakur.
E anche – si parva licet – ripensare a quei “ricercatori” appollaiati sui loro scanni a sparare sentenze sul “tradimento” dei curdi per l’alleanza (puramente tattica, militare) con gli Usa nel contrasto all’Isis. Tutta gente che – anche quando si definisce “anticapitalista” e di sinistra – mi sembra piuttosto colorarsi di vistose tonalità rosso-brune.
Il 28 luglio si è svolta l’udienza contro Cicek Kobane, la prigioniera di guerra Cicek Kobane, davanti al tribunale penale della provincia di Urfa. Membro delle YPJ (Unità di difesa delle donne) , la giovane viene accusata di “perturbare l’unità e l’integrità della Turchia”, di “appartenere a una organizzazione terrorista armata” e di “tentativo deliberato di assassinio”.
In tribunale Cicek Kobane ha rigettato le accuse ripetendo quando già dichiarato, ossia di trovarsi nel nord della Siria in missione umanitaria di sostegno ai civili. Ha poi spiegato che alcune delle sue ferite da arma da fuoco, in particolare due alle gambe, le erano state inferte dopo la cattura, quando già si trovava, inerme e indifesa, in mano ai miliziani. Prima di essere portata in carcere -prima a Urfa, poi a Hilwan – aveva subito un intervento chirurgico, sostanzialmente non riuscito. Infatti, come si è visto, ora non è nemmeno in grado si sollevarsi. Va detto che questo non sarebbe il primo caso in cui le operazioni di prigionieri curdi feriti vengono intenzionalmente utilizzate per danneggiarli ulteriormente. Al momento – con alcuni frammenti metallici rimasti ancora nella gamba – Cocek non può né muoversi né vestirsi da sola e tuttavia per almeno sei mesi non ha ricevuto cure adeguate – e nemmeno regolari controlli – nonostante le richieste dei famigliari.
I quali, in compenso, sono stati minacciati, arrestati e maltrattati. Per questo hanno deciso di lasciare la Turchia e tornare in Rojava da cui sono originari.
Il suo avvocato (Hidayet Enmek, curdo, a sua volta minacciato e arrestato) ha dichiarato come non esista un solo elemento concreto di prova a sostegno delle accuse. Inoltre l’atto di accusa non spiega né come è avvenuta la cattura – e da parte di chi – né come era stata ferita. Il processo è stato aggiornato al 22 settembre.
Gianni Sartori