Ritorno a Kobane 1
Nel mese di giugno Patrizia Fiocchetti è stata nel cantone kurdo-siriano del Rojava, in occasione dell’inaugurazione della Casa delle Donne di Kobane, realizzata in collaborazione con l’associazione Ponte Donna. Ha ritrovato una regione alle prese con gli strascichi di un difficile dopoguerra, ma forte delle istituzioni democratiche realizzate con il confederalismo. In questo primo articolo, il ritorno nel capoluogo, Kobane, una città che Fiocchetti aveva trovato in macerie tre anni prima (qui l’articolo), subito dopo la liberazione dal Daesh, e che ora affronta i problemi quotidiani, senza dimenticare chi si è sacrificato per la sua libertà.
La scenografia dei lastroni grigi e anonimi che segnano il confine tra la Turchia e il Rojava l’abbiamo abbandonata da un po’. Il mezzo su cui viaggiamo si è introdotto in strade provinciali che si snodano all’interno di cittadine piene di vita.
È il tramonto che attutisce l’impatto pesante del caldo di questa metà di giugno. Siamo stanchi, ore di viaggio alle spalle e Kobane che ancora non si vede. La desideriamo, ci appare come l’araba fenice che rincorriamo ma non riusciamo a raggiungere.
Gli occhi persi fuori dal finestrino, disorientati, guardiamo la vita muoversi in quella sera di vigilia dell’Eid al Fitr, la seconda festa più importante dell’Islam che segna la fine del sacro mese del Ramadan, mentre il pulmino si ferma all’ennesimo check-point delle forze di protezione popolare (YPG).
«Ecco Kobane». L’annuncio sperato arriva inaspettato. Ma ciò che spiazza è la città stessa. Ricostruita, illuminata, pulsante di persone. Non più macerie. Non più silenzio. Non più l’assenza.
Nel tragitto che ci porta alla guesthouse, vediamo le serrande delle botteghe alzate con i proprietari seduti all’esterno a prendere il fresco della sera. Un anziano è allungato su un materassino steso sul marciapiede e i bambini intorno si rincorrono festosi. All’interno dei barbieri fila ordinata di uomini in attesa di tagliare barba e capelli per prepararsi alla festa.
Poco più di tre anni sono passati da quando la visitai un mese dopo la liberazione dal Daesh. Ciò che vedo manda in frantumi i ricordi di allora: Kobane è risorta a dispetto dell’embargo turco, dell’indifferenza dei potenti, della sottile inimicizia dei curdi iracheni.
Il monumento nel cimitero di Kobane
Kobane ai civili 15 – 18 giugno 2018
Eid al Fitr. Il giorno di festa non può che iniziare con il rendere omaggio ai caduti nelle tante battaglie che si sono succedute dalla liberazione di Kobane al tempo presente.
Sulle tombe perfettamente allineate al cimitero militare veglia un monumento a tre guglie, la più alta al centro, maestoso nella sua essenziale linearità. «Rappresenta le montagne» ci spiega Emin Sales co-presidente della commissione esteri che accompagna la nostra delegazione in quella visita. «Per noi curdi le montagne hanno un significato profondo».
Ci muoviamo, distanti gli uni dagli altri, tra le tombe calcando il lastricato di marmo della pavimentazione e leggendo i nomi, i luoghi di nascita e di morte dei caduti. Ma soprattutto le date: la maggior parte sono giovanissimi, nati a metà degli anni ‘90.
Combattenti in divisa, famiglie, soprattutto donne e tantissimi bambini si aggirano tra le lapidi. Qualcuno si siede a terra: una madre circondata dalla parentela tutta al femminile fatto salvo per un maschietto di cinque o sei anni, recita una nenia e si asciuga qualche lacrima. Ma il dolore non incombe come un sudario in quel luogo che dovrebbe di fatto raccoglierlo e celebrarlo, gli abiti tradizionali e non, sono colorati, luminosi al riflesso del sole.
Bambine e bambini ci porgono vassoi pieni di caramelle e cioccolatini: è l’offerta per la festa. Sorridono e si fanno fotografare. Poi una signora con una giovane al seguito si avvicina, porge il cellulare a un’amica ed ecco che scattano le fotografie. «C’è mio marito qui, e anche mio figlio, suo marito» e indica la ragazza. «Questi sono tutti miei nipoti. È triste, ma viviamo perché loro sono morti affinché noi fossimo liberi».
Il cimitero dei martiri è il luogo in cui i vivi raccolgono il testimone della rinascita.
E questa rinascita è concreta, tangibile. I palazzi svettano costruiti con eleganza e gusto. Pochi piani, senza appesantire lo skyline della città. Molti i cantieri aperti per edificare scuole, non solo abitazioni.
«La ricostruzione è andata avanti molto in fretta» ci dice Roshan Abdi la co-sindaca di Kobane nell’incontro che abbiamo con lei, il co-sindaco Fares Atti e alcuni notabili della regione dell’Eufrate (composta dal cantone di Kobane e Gire Spi). «Non potevamo fermarla o rallentarla: gli sfollati in Turchia sono rientrati in fretta in città e nei villaggi vicini. Purtroppo, alcuni problemi permangono e sono quelli da cui riceviamo le maggiori lamentele dai cittadini: la mancanza della rete fognaria e di scarico delle acque piovane è il più urgente».
Ci guarda, un viso dolce e sguardo acuto. «Quando piove, ad esempio, l’acqua entra nelle abitazioni al piano terra arrecando danno». Aggiunge il co-sindaco: «Il regime di Assad non ha mai investito nelle infrastrutture nel Rojava, tra cui appunto la rete fognaria. Noi siamo stati costretti a ricostruire in fretta portando sulle spalle la pesante eredità di 40 anni di assenza dello Stato. Un progetto lo abbiamo. Occorrono, però, i mezzi per realizzarlo».
«L’altra questione riguarda lo smaltimento dei rifiuti. È la risoluzione di questi due obiettivi che abbiamo in calendario. Su questo chiediamo aiuto e collaborazione». Ci guardano. Non chiedono false promesse. Sono venuti a incontrarci pur in un periodo di chiusura delle attività (fino a domenica 17 giugno) perché gli preme dare una risposta concreta ai cittadini che hanno messo nelle loro mani un mandato di forte responsabilità dove le chiacchiere da campagna elettorale non hanno mai trovato spazio.
La delegazione della municipalità di Kobane
«Pur se a Kobane non c’è la guerra, noi siamo impegnati comunque nel conflitto ancora in atto in Siria» riprende Roshan. «Oltre a una città stiamo costruendo una mentalità e necessitiamo di un modello formativo specifico per chi lavora nelle municipalità. Dobbiamo dare delle soluzioni e se non riusciremo perché non otterremo appoggio a progetti con budget importanti, porteremo la questione davanti all’Assemblea popolare che è all’interno dell’Assemblea generale». Il Confederalismo, appunto che costruisce dal basso.
Mentre ci accomiatiamo con l’impegno a riportare in Italia le loro richieste, non posso fare a meno di annotare come il protagonismo nelle questioni della città e del cantone siano passati nelle mani dei civili. Una cittadinanza attiva, che rende l’azione oggettiva e concreta senso della propria opera politica.
Pur presente l’ombra lunga della Turchia, impossibile da ignorare visto lo sventolare in un orizzonte vicino della sua rossa bandiera posta su una torretta di controllo visibile al di là del muro lungo il confine che a piazza della Pace si interrompe nella pesante porta ostinatamente chiusa, la vita scorre nell’entusiasmo di una normalità in continua evoluzione e perfezionamento.
I resti della guerra sono visibili in quella porzione di Kobane che il comitato di ricostruzione ha deciso di lasciare inalterata a memoria di una resistenza epica contro un nemico oscuro. In quella che nel 2015 era la realtà di Kobane ci immergiamo quasi con un senso di deja-vu, tra i palazzi sventrati e le auto rivoltate.
La guida, un giovane corpulento tifoso di Francesco Totti che parla un inglese veloce e molto spesso difficile da capire, ci accompagna tra le vie, sgombre da detriti e bonificate da ordigni e cadaveri. Ci racconta l’epopea di Kobane, ci mostra i cartelli che ne costeggiano i luoghi della difesa con scritti i nomi dei combattenti YPG (Forza di difesa del popolo) e YPJ (Forza di difesa delle donne) che proprio lì hanno perso la vita.
Il Museo a Cielo Aperto di Kobane: un’area della città che si è scelto di lasciare com’era all’indomani della liberazione dal Daesh
Il Museo a Cielo Aperto è stato un progetto della prima ora, perché la memoria ha un valore politico oltre che storico. Del comitato responsabile fanno parte membri di YPG rimasti invalidi. Li incontriamo nella loro sede in piazza Azadì, della Libertà dove sono raccolti oggetti rinvenuti tra le macerie appartenuti a civili e combattenti uccisi, e che un giorno verranno ricollocati nel Museo a Cielo Aperto. «Stiamo lavorando» ci racconta uno dei responsabili sdraiato su un canapè marrone. «Stiamo ancora mettendo in sicurezza alcuni edifici e dobbiamo stabilire il percorso di visita. Poi ci sono le famiglie che ancora vi abitano. Alcune le abbiamo trasferite in appartamenti di nuova costruzione. Altre dicono di avere lì tutti i ricordi e non vogliono andarsene».
Con loro è in atto un dialogo portato avanti dalla municipalità. Senza pressioni e, soprattutto senza ricorrere a sfratti. Ci si parla nella comprensione delle ragioni di questi nuclei e, dall’altra parte, del senso potente di tale iniziativa. La tranquillità nella trattativa si coglie mentre siamo in visita al Museo a Cielo Aperto. Incontriamo un papà con i due figli piccoli, una femmina e un maschio. La guida lo saluta calorosamente, e ci racconta che anche lui ha preso parte alla difesa di Kobane. Strette di mano e foto di rito.
Ci avviamo all’uscita, un nugolo di ragazzini si rincorrono, ridono mentre gli parliamo in italiano e in inglese. Hanno armi di plastica e giocano alla guerra. Alle spalle ci lasciamo il profilo dei silos in territorio turco da cui il 25 giugno 2015 partì un attacco contro la città dei miliziani del Daesh travestiti con le divise YPG che fecero strage di cittadini, tra cui moltissimi insegnanti.
di Patrizia Fiocchetti (autrice di Variazioni di Luna – Donne combattenti in Iran, Kurdistan, Afghanistan)
Fine prima parte
Le fotografie dell’articolo sono di Patrizia Fiocchetti