Report: La resistenza del popolo curdo

di Mirca Garuti

Il Newroz 2013 è stato caratterizzato dalla speranza, chiusa dentro ogni cuore del popolo curdo, di poter intraprendere una vera strada verso la pace. Tutti, quel 21 marzo a Diyarbakir, aspettavano la lettura della lettera del leader storico, Abdullah Ocalan. Una folla oceanica era in attesa di sentire le sue parole:

– “ E’ tempo che le armi tacciano e che le idee parlino”

– “ E’ il momento che la politica vada oltre le armi”

– “ E’ tempo che le nostre forze armate si ritirino oltre il confine”

– “ Questo è un nuovo inizio, non è una fine”

– “ E’ l’inizio di una nuova lotta in favore di tutte le minoranze etniche”

– “ I turchi e i curdi hanno inaugurato insieme il Parlamento nel 1920”

– “ Abbiamo costruito insieme il passato e adesso abbiamo bisogno di mantenerlo insieme”

La road-map, documento straordinario, è il cuore dei colloqui segreti tra Abdullah Ocalan e lo Stato turco, un processo iniziato nel 2009 e interrotto a metà del 2011.

Si sviluppa su tre diverse fasi:

“La filosofia della pace” mette in primo piano lo sviluppo di una nuova costituzione che possa dare una definizione di “cittadinanza libera da ogni tipo di riferimento etnico”, fondata su una “completa democrazia” e sui “principi della giurisprudenza internazionale”,

“Il piano d’azione” prevede il ritiro delle forze del PKK al di là del confine turco dal 21 marzo fino alla fine del mese di luglio. Il “ritiro” afferma però Ocalan deve essere reciproco ed approvato dal parlamento. Erdogan ha affermato che il processo di pace “inizierà de facto quando i membri del PKK si ritireranno in un altro paese”.

L’ultima parte “eventuali problemi e conclusioni” dovrebbe mettere fine al processo di pace.

Ma se pensiamo ai molteplici tentativi di dialogo, come ad esempio, all’apertura curda del 2009, alle trattative di Oslo del 2011 oppure agli innumerevoli tentativi di “cessate il fuoco” da parte del Pkk dal 1993 ad oggi, una vera pace rimane solo un’illusione.

Il 2014 e 2015 sono stati, invece, gli anni nei quali il mondo ha scoperto il popolo curdo e la lotta per i suoi diritti e libertà. Non perché si è reso consapevole del loro dramma che continua dal 1924, anno in cui ha inizio la sua repressione, ma solo per l’intensificarsi della guerra civile in Siria. La minoranza curda è sempre stata usata da chi era al potere per raggiungere i propri scopi ed interessi.

Dopo il collasso dell’impero Ottomano, l’azione diretta della Turchia

I curdi sono, infatti, la più ampia nazione al mondo priva del proprio stato e le prime vittime degli accordi coloniali. Dopo il collasso dell’Impero Ottomano da parte dei colonialisti britannici e francesi, la storia ci parla della creazione di stati nazioni che divide la regione del Kurdistan in quattro paesi: Iran, Iraq, Siria e Turchia. L’accordo Sykes-Picot del 1916 ignora totalmente il diritto di sovranità dei curdi sulla propria terra. Questo non ha portato che molti decenni di massacri, oppressione ed assimilazione.

Mustafa Kemal Ataturk, militare e primo Presidente della Turchia, inizia nel Kurdistan la lotta di liberazione nazionale turca contro la dominazione occidentale e l’occupazione greca. Ataturk, appellandosi alla solidarietà curda-turca, nel corso del conflitto greco-turco, chiede anche il supporto dei capi tribali e religiosi curdi. Dal 1921 al 1924 ci fu quindi un forte contrasto tra la maggioranza della popolazione curda che sosteneva il movimento kemalista e gli intellettuali che sostenevano invece il movimento di liberazione curdo. Questa differenza dimostra la debolezza del movimento nazionale curdo in quel periodo ed indica che il popolo curdo preferiva un Kurdistan autonomo all’interno della Turchia, in accordo con il popolo turco.

Il governo di Ankara fu indotto ad occuparsi per la prima volta del “problema curdo” a seguito della ribellione curda nella regione di Dersim tra il novembre 1920 ed aprile 1921. La ribellione iniziò tre mesi dopo il trattato di Sevres e aveva l’obiettivo dell’indipendenza nei vilayet di Diyarbakir, Elazig, Van e Bitlis.

Dopo la firma del Trattato di Losanna del 1923 (gli art.38 e 39 sono applicabili ai curdi e viene concessa a tutti gli abitanti della Turchia piena protezione della loro vita e libertà senza distinzione di nascita, nazionalità, lingua, razza o religione), il potere kemalista sentendosi forte ed avendo consolidato la sua posizione a livello internazionale, cambiò la sua politica nei confronti dei curdi. Nel 1924 fu approvata una legge che proibiva l’uso della lingua curda, vietando le pubblicazioni e l’insegnamento in tale lingua. Dopo il 1930 il governo turco intensificò la sua politica di sterminio e assimilazione della popolazione curda. Fu promulgata una legge che contemplava la deportazione di intellettuali e capi curdi nelle aree occidentali della Turchia.

Il Kurdistan veniva diviso nel 1934 in tre aree (nel 1932 invece erano quattro). Un’area doveva essere completamente evacuata e veniva anche smembrata la struttura socio-economica della tribù che non era più riconosciuta come entità giuridica. L’intenzione era quella di disperdere e distruggere i curdi come nazione. Inizia così l’occupazione del Kurdistan. Nonostante una protesta internazionale, il governo turco, non solo continuò ad applicare questa legge, ma andò ben oltre! Le forze armate turche, nel periodo dal 1924 al 1938, furono impegnate in 17 campagne militari tutte direttamente o indirettamente connesse alla soppressione delle rivolte curde. Nel 1937 il governo turco, comprendendo di essere incapace di controllare e governare da solo questa popolazione, firmò un patto con Iran, Iraq e Afghanistan di natura anti-sovietico, indirizzato contro il movimento nazionalistico curdo da adottare in un’azione comune.

La provincia di Dersim nell’Anatolia orientale, era la più colpita dall’evacuazione forzata e dalla richiesta del governo turco di consegnare le armi. La popolazione dell’area, curda Alevita, insorge in una delle più sanguinarie rivolte della storia della Turchia moderna. Dersim, (oggi Tunceli) rappresenta il cuore ribelle del Kurdistan, anche se fino alla rivolta del 1937/38, la sua popolazione non aveva mai reagito in maniera molto violenta. Nel 1935 Ataturk disse: “La questione di Dersim è la questione prioritaria della nostra politica interna. E’ necessario che il governo sia dotato di un’autorità ampia e illimitata per eliminare ad ogni costo questa ferita interna, questo repellente ascesso”. Dopo quasi tre anni dalle minacciose parole pronunciate dal Presidente, le autorità del governo turco misero in pratica il desiderio dello stesso Presidente.

Mentre l’aviazione turca radeva al suolo interi villaggi, l’esercito dava fuoco alle foreste che ricoprivano le vallate della regione. Molti abitanti furono rinchiusi in grotte e arsi vivi. Venne usato gas asfissiante. Le acque del fiume Munzur scorsero, per giorni, rosse di sangue. I morti furono 50-60 mila. Furono deportati circa tremila notabili e 100 mila abitanti nella Turchia occidentale. I leader della rivolta furono giustiziati nella piazza centrale della città. Una generazioni di bambini cresciuti negli orfanotrofi fu sottoposta ad una sistematica operazione di turchizzazione. Il nome dell’operazione era “Tunceli” (pugno di ferro), nome poi lasciato alla città a monito per l’eternità. L’area rimase in stato d’assedio fino al 1946 e fu vietato l’accesso agli stranieri fino al 1965. Il Presidente turco Erdogan il 23 novembre 2011, durante una riunione di partito, ha presentato le sue scuse “a nome dello Stato” per i fatti di Dersim, definendoli “massacri”. Fatto inusuale nella storia turca. Si dubita, infatti, della sincerità del presidente, anche perché nel 2006 il ministero della Cultura impedì qualsiasi forma di distribuzione del documentario “Dersim 38” per non danneggiare “l’ordine e la morale pubblica e l’onore delle persone”.

Fino ad uno/due anni fa si parlava, a livello mediatico, solo della repressione subita dai curdi in Turchia sotto il governo di Erdogan, mentre ora, emergono anche i curdi che vivono in Siria. Purtroppo ci vuole una guerra, ci vogliono morti e distruzione affinché il mondo scopra la realtà delle cose. Quando si parla di Kurdistan, bisogna considerare che non parliamo di uno Stato nazionale regolato da leggi ed usi uguali per tutta la popolazione, ma di una Regione e di un popolo che dal 1923 deve lottare per conservare la sua propria identità nazionale.

Il Kurdistan siriano geograficamente è considerato un’appendice del Kurdistan turco, essendo formato da tre aree all’interno della Siria, divise da territori arabi: la regione di Dagh (montagna dei curdi) a nord ovest di Aleppo; la regione di Jarablus e Kobani a nord est di Aleppo; Cezire tra il Tigri e l’Eufrate, un triangolo al confine turco-iracheno.

Siria terra di scontri

I curdi in Siria sono la più grande minoranza etnica del paese (circa 2 milioni) concentrati prevalentemente nel nord e nord-est ma anche ad Aleppo e Damasco, grazie soprattutto all’accordo di Ankara nel 1921 tra Turchia e Francia che fissava la frontiera turco-siriana in base alla linea ferroviaria Aleppo-Baghdad.

Qamişlo (Kurdistan occidentale) e Nusaybin (Kurdistan turco) erano in precedenza una sola città, ma dopo il passaggio della ferrovia, Qamişlo si trovò in terra siriana e Nusaybin in terra turca. Molti villaggi, comuni e città furono divisi in due. Le tribù, le famiglie, decine di migliaia di curdi che vivevano sulla stessa terra si trovarono separati da barriere di filo spinato e mine. Solo in questi ultimi anni sono stati in grado di incontrarsi di nuovo. Questo autentico dramma, vissuto da migliaia di curdi, è ancora oggi oggetto di documentari e programmi televisivi trasmessi in occasione di festività religiose.

I curdi, durante la prima guerra mondiale, furono vittime di politiche repressive e i loro territori divisi, ad opera delle grandi potenze che non ne riconobbero l’esistenza, né i diritti.

Sotto mandato francese (1920-1941) la Siria diventò il rifugio naturale dei profughi curdi di Turchia e Iraq che fuggivano dalle repressioni in atto nei due paesi. La Siria conquistò l’indipendenza nel 1946 e, in questo contesto, i curdi avevano una buona posizione nel paese, anche perché compresero che sarebbe stato più utile abbandonare l’obiettivo dell’indipendenza per arrivare ad un sistema di governo nazionale che gli preservasse l’identità etnica. Da evidenziare però c’è una particolare situazione: mentre da una parte le comunità curde, che si trovano ai confini turco-iracheni mantengono le caratteristiche nazionali, dall’altra, i gruppi curdi che sono nelle aeree interne siriane sono stati gradualmente arabizzati.

Il Partito democratico Kurdistan-Siria (Pdks) fondato nel 1957, persegue il riconoscimento dei curdi come gruppo etnico distinto con diritti culturali. Con la nascita, invece, della Repubblica araba unita (Rau) l’unione tra Siria ed Egitto nel 1958, le autorità siriane cercarono di ostacolare le attività politiche e culturali curde. Iniziarono gli arresti e le condanne con l’accusa di attività contro l’unione araba. La Siria si separa l’anno dopo dall’Egitto, ma la repressione anti-curda rimane.

La storia del popolo curdo in Siria è passata tra fasi positive e in accordo con il partito Baath, ed altre negative e tragiche. Per contrastare il “pericolo curdo” e salvare l’arabismo della regione, il governo mette in pratica nel 1962 il piano chiamato della “cintura araba”. Piano che prevede l’espulsione della popolazione curda residente nella regione di Cezire, lungo la frontiera con la Turchia, e la loro sostituzione con arabi. I curdi espulsi furono mandati più a sud ma di preferenza “dispersi”. L’esecuzione del piano prosegue però lentamente, sia per non attirare l’attenzione del mondo e sia per la reazione violenta dei contadini curdi che non volevano lasciare i loro villaggi.

La situazione dei curdi nel Kurdistan occidentale ((Kurdistana Rojava) peggiora nel 1963 con l’arrivo al potere, con un colpo di Stato, del partito Baath che intensifica l’arabizzazione dei curdi. Un decreto di 12 articoli pianificò ufficialmente questa politica che portò all’insediamento degli arabi nella regione curda costringendoli all’esilio. L’amministrazione attirò gli arabi offrendo loro facilitazioni economiche e facendoli stabilire in villaggi arabi al fine di tagliare le comunicazioni tra i villaggi curdi rimanenti. Si trattò di una cacciata «incrociata» nel paese: i curdi cacciati dalla regione vennero deportati nelle regioni arabe al centro della Siria. In Siria così come in Turchia, la lingua curda fu proibita sulla stampa e nella società. I nomi delle città e dei luoghi storici curdi furono arabizzati. 300.000 curdi furono privati dei loro diritti fondamentali, come il diritto di essere naturalizzati. Oltre al genocidio culturale, il regime siriano non ha smesso di impegnarsi nelle aggressioni fisiche. Questa politica colpisce soprattutto i contadini, che costituiscono l’80% della popolazione, che devono abbandonare la loro terra e cercare lavoro a Damasco, in Turchia e Libano. Il Piano della “cintura araba” viene abbandonato nel 1976, ma non vengono evacuati i 41 nuovi villaggi arabi.

Abdullah Öcalan, leader del popolo curdo, ha vissuto più di venti anni in Siria, (1979-1998) dove ha sviluppato il movimento di liberazione del Kurdistan, ha coinvolto direttamente i curdi del Kurdistan occidentale (Kurdistana Rojava) e ha sostenuto la riflessione e la strategia delle loro organizzazioni. Attualmente i curdi del Kurdistana Rojava, attraverso la loro organizzazione, hanno fondato autorità locali autonome.

Negli anni ottanta i curdi erano una forza di sostegno al regima bathista senza però ricevere alcuna concessione sul piano culturale e dei diritti umani. I curdi siriani erano preoccupati dall’instabilità della loro situazione. Come avviene nelle altre parti del Kurdistan, la popolazione curda rimane ai margini della ricchezza prodotta in Siria, subendo una forte discriminazione nelle opportunità di lavoro. Nei primi anni novanta in Siria ci sono circa settemila prigionieri politici curdi, molti dei quali saranno rilasciati con l’amnistia del 1995. In questi anni le relazioni tra Siria e Turchia hanno vissuto forti momenti di tensione dovute alla strumentalizzazione della questione curda da parte del regime di Hafez al Assad per ottenere dalla Turchia concessioni su questioni strategiche come la gestione delle riserve idriche del Tigri e dell’Eufrate. Sotto pressioni e ricatti internazionali e per evitare un confronto armato con la Turchia, il governo siriano firmò un trattato di sicurezza, l’accordo di Adana (1998) che sancì la fine dell’appoggio di Damasco al Pkk. Abdullah Ocalan fu arrestato poco dopo in Kenya e consegnato alla Turchia.

Solo nell’estate del 2000, si aprì una nuova fase di disgelo e tolleranza tra la nuova dirigenza di Bashar Al Assad e il popolo curdo. “Un’armonia” di breve durata, perché nel 2004 a Qamislo, nel corso di una partita di calcio, le forze governative siriane con l’aiuto di nazionalisti arabi attaccarono con estrema violenza i curdi. Le manifestazioni di protesta durarono dieci giorni e ci furono 32 morti, centinaia di feriti e 2000 arresti.

Il dominio della famiglia Assad e l’inizio della guerra civile.

La Siria è governata da cinquant’anni dalla famiglia Assad in un costante stato d’emergenza, di censura e di intimidazione. La rete televisiva Al Jazeera, durante i primi mesi della primavera araba, definì la Siria “il regno del silenzio” perché non si sentiva nessuna voce di protesta o dissenso. A differenza di Egitto e Tunisia, la Siria non ha una popolazione omogenea rispetto alla religione ed all’etnia. C’è una maggioranza sunnita che convive con grandi minoranze cristiane, curde e alawiti (una setta islamica vicina agli sciiti di cui fa parte la famiglia Assad e gran parte dell’elite economica e militare del paese).

In Siria non sempre ha regnato il silenzio, specialmente quando i Fratelli Mussulmani negli anni ottanta occuparono la città di Hama, nella parte orientale del paese. L’assedio durò 27 giorni. Si calcola che l’occupazione abbia causato la morte di almeno 10 mila persone – 40 mila secondo altre stime. Negli anni successivi ci furono altre piccole insurrezioni, soprattutto con i curdi che abitavano nel nord del paese.

Le proteste in Siria ebbero inizio il 6 marzo 2011 a Daraa, una città a maggioranza sunnita a 110 chilometri a sud di Damasco verso la Giordania. A Daraa la situazione era molto difficile. Oltre alla povertà e disoccupazione, la città era invasa di profughi arrivati dal nord del paese a causa della siccità a cui il governo non era riuscito a porre rimedio. L’atmosfera in alcuni paesi arabi era tesa e le notizie che circolavano, in quel momento, erano di libertà: folle di persone erano scese in piazza ed erano riuscite a rovesciare il governo tunisino ed egiziano.

Un gruppo di ragazzi dai 11 ai 16 anni scrisse alcune frasi con uno spray rosso sui muri di quattro scuole: “il popolo vuole rovesciare il regime” – “è il tuo turno, dottore”. Il giorno dopo le scritte sui muri furono coperte da vernice bianca e immediatamente, polizia ed agenti dei servizi segreti si misero sulle tracce dei responsabili. Una quindicina di ragazzi furono arrestati. I giorni passavano ma i ragazzi non venivano rilasciati. I genitori iniziarono allora una protesta, ma venivano scacciati. La CNN riporta una frase di un ufficiale: “Dimenticatevi dei vostri figli. Se volete davvero dei figli, dovreste cominciare a pensare di farne degli altri. Se non sapete come fare, possiamo farvelo vedere noi”. La notizia, nonostante la censura, superò il silenzio. Alcuni prigionieri politici iniziarono uno sciopero della fame. I ragazzi di Daraa non erano più soli. Uno dei responsabili di Amnesty International per la Siria ha affermato: “Arriva il punto in cui l’insulto non è più sopportabile. Il popolo smette di inginocchiarsi e risponde”.

Il 15 marzo, infatti, per la prima volta in Siria, migliaia di persone scesero in piazza per protestare contro il governo. Ci sono state manifestazioni silenziose dove la gente camminava tenendo in alto le foto dei parenti, amici scomparsi, altre invece più dure dove le persone urlavano slogan contro il regime e ci furono scontri con la polizia. Il regime rispose con durezza. Ci furono ancora molti arresti, ma mentre il governo aumentava lo scontro, aumentavano anche le proteste.

Il 18 marzo, dopo la preghiera del venerdì, i cortei si erano diffusi in quasi tutte le città del paese con la partecipazione di migliaia di manifestanti. La polizia rispose caricando le folle con lacrimogeni ed idranti. In un giorno furono uccise sei persone. Dopo una piccola tregua, il 25 marzo ripresero le proteste. A Daraa marciarono contro il governo più di 100 mila persone e almeno una ventina furono uccise dalle forze di sicurezza. Nel corso del mese di aprile, il governo schierò l’esercito contro i dimostranti ed autorizzò l’uso di armi da fuoco e carri armati per disperdere la folla nelle strade e piazze. Contemporaneamente il governo fece piccole concessioni, come ad esempio quella di revocare lo stato d’emergenza in vigore da 50 anni.

All’inizio di maggio la repressione era diventata estremamente feroce. Il numero delle persone uccise durante le dimostrazioni era salito a più di mille. Questo però non arrestò la rabbia del popolo. I manifestanti, soprattutto nel nord del paese, cominciarono ad assaltare le caserme delle forze di sicurezza ed a impossessarsi delle loro armi. Iniziò la reazione dei soldati. Alcuni di loro, costretti a sparare sulla folla, iniziarono a disertare ed unirsi ai manifestanti.

Il 29 luglio, quattro mesi dopo le prime proteste, un gruppo di ufficiali disertori proclamò la nascita dell’Esercito Libero Siriano (FSA). E’ guerra civile.

Tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 la guerra diventa sempre più violenta. I ribelli ricevono finanziamenti da parte di alcuni paesi arabi per iniziare ad acquistare armi più sofisticate. Il regime comincia a fare un uso massiccio di armamenti pesanti, in particolare durante l’assedio di Homs, “la capitale della rivolta”. Così è chiamata dai ribelli.

A luglio gli scontri si intensificano anche a Damasco. A questo punto iniziano a verificarsi importanti cambiamenti all’interno dello schieramento dei ribelli. Cominciano ad arrivare combattenti stranieri, spesso già esperti militari. Alcuni scelgono l’Esercito libero (FSA), altri invece danno vita a nuove brigate e bande autonome. Un gruppo di combattenti provenienti dall’Iraq che aveva combattuto con Abu Musab al Zarqawi, capo di al Qaida in Iraq, insieme ad altri miliziani, formarono il 23 gennaio 2012 il Fronte al Nusra, un gruppo estremista islamico. Inizialmente le forze più laiche della FSA combatterono insieme ad al Nusra, ma poi successivamente i loro rapporti si deteriorarono perché al Nusra si dimostrò migliore nel trovare fondi all’estero ed a reclutare volontari. Tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, numerosi esperti cominciarono a definire “guerra per procura”, quello che stava accadendo in Siria. Attraverso gruppi di miliziani integralisti islamici locali, nel conflitto erano entrati in competizione alcuni paesi arabi sunniti che finanziavano i ribelli, con altri paesi (Iran) e gruppi (Hezbollah) che appoggiavano invece il governo Assad.

Nei primi mesi del 2013 il regime siriano era riuscito a vincere nei confronti della FSA. In campo jihadista invece era in atto una scissione, causa vari scontri tra la leadership siriana ed i miliziani ISI (Stato Islamico dell’Iraq), guidati da Abu Bakr al Baghdadi. Nell’aprile 2013 Al Baghdadi proclamò la nascita dell’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante). La divisione definitiva ci fu nel febbraio del 2014.

I gruppi islamici in guerra per la dominazione sunnita sul Medio Oriente

Nel 2001 il mondo conosceva Osama bin Laden che guidava il movimento di Al Qaida. Dopo la sua uccisione, in un raid americano in Pakistan il 2 maggio 2011, subentrò un medico egiziano, Ayman al-Zawahiri. Altra figura emblematica per capire lo sviluppo di questo movimento, è Abu Musub al-Zarqawi, un giordano che negli anni ottanta e novanta era stato, all’interno dei mujaheddin e di al Qaida, uno dei rivali di Bin Laden.

Al Qaida era nata per essere un movimento sunnita che doveva difendere i territori abitati dai musulmani dall’occupazione occidentale. Al Zarqawi, invece, decise di fondare un gruppo con obiettivi diversi. Voleva creare un califfato islamico esclusivamente sunnita, attraverso una campagna di sabotaggi continui e costanti in alcuni stati musulmani creando una rete di “regioni della violenza” nelle quali la popolazione locale fosse obbligata a sottomettersi alle forze islamiste occupanti. Nel 2003, per esempio, il suo gruppo fece esplodere un autobomba in una moschea nella città irachena di Najaf durante la preghiera del venerdì: rimasero uccisi 125 musulmani sciiti.

Nel 2004, nonostante le differenze, il suo gruppo si avvicinò ad Al Qaida, diventando il gruppo di Al Qaida in Iraq (AQI), unicamente perché l’affiliazione portava vantaggi ad entrambi.

Nel 2006 Al Zarqawi fu ucciso da una bomba americana. Il suo posto fu preso da Abu Omar al-Baghdadi che fu ucciso poi nel 2010. Attualmente guida l’organizzazione Abu Bakr al-Baghdadi. Il gruppo di al-Baghdadi, nel 2011, aveva ripreso potere anche per le politiche violente e settarie che negli ultimi quattro anni, il primo ministro sciita dell’Iraq, Nuri al-Maliki aveva attuato nei confronti della popolazione sunnita.

Nell’aprile 2013, grazie anche alla guerra in Siria con nuove prospettive d’espansione sul suo territorio, il gruppo Al Qaida in Iraq divenne Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS). Il Levante è l’area del Mediterraneo orientale: Siria, Giordania, Palestina, Libano, Israele e Cipro. L’ambizione dell’ISIS è molto forte e ampia. La brutalità dell’ISIS era nota a Al Qaida già nella guerra in Siria tanto che nel febbraio 2014 Zawahiri espulse l’ISIS da al Qaida.

La guerra civile in Siria dopo i primi tre anni non ha portato alla vittoria nessuna delle due parti in causa. Il regime ha ottenuto importanti vittorie grazie agli aiuti dei suoi alleati (Iran e Hezbollah), mentre l’opposizione è divisa. La parte moderata, l’Esercito Libero Siriano ha l’appoggio internazionale e riceve rifornimenti da paesi arabi come Arabia Saudita e Qatar, ma deve combattere, oltre il governo, anche contro i vari gruppi dei ribelli islamici e in particolare contro l’ISIS. All’inizio del 2015 le due forze principali in Siria sono rimaste il governo di Assad e l’ISIS. Il governo controlla la gran parte delle zone costiere a maggioranza cristiana o alawita, oltre che Damasco e gran parte del sud del paese. L’ISIS, invece, controlla un terzo del paese nella parte nord orientale ed ha stabilito la sua capitale a Raqqa. Qui ci sono le principali risorse petrolifere che hanno assicurato al gruppo un costante flusso di denaro. L’Esercito Libero Siriano controlla una piccola area intorno alla città di Aleppo e alla città di Dar’a. Lo scorso ottobre l’ISIS ha cercato di conquistare la città di Kobane, controllata da curdi siriani.

Le conseguenze del Colonialismo Occidentale

La domanda più ricorrente che ci si pone è quella di come sia stato possibile un’ascesa così forte da parte di questi gruppi jihadisti in Medio Oriente. Dove sono i movimenti radicali, i gruppi studenteschi, le organizzazioni femministe, le lotte di liberazione nazionale, i movimenti operai, contadini ed intellettuali di sinistra? Cosa è successo per rendere i gruppi jihadisti gli attori principali in grado di cambiare la geopolitica della regione? Forse la risposta ha radici profonde all’interno della storia coloniale ed imperialista dell’area. In occidente si segue l’avanzata dell’ISIS in Iraq e in Siria senza preoccuparsi di analizzare il ruolo che hanno avuto in questo caos i rispettivi governi. Per non parlare poi di come molti media rappresentino la popolazione della regione solo come dei fanatici divisi tra etnie e religione.

Guardando la storia del Medio Oriente, forse si può cercare una risposta nelle politiche dei poteri coloniali dall’inizio del 20° secolo ad oggi. Il prossimo anno, infatti, ricorre il centenario dell’accordo Sykes-Picot (1916) che divise l’Impero Ottomano in stati nazioni artificiali. Un secolo di dominio coloniale seguito poi da governi corrotti in mano ai Signori del petrolio e controllati dalle potenze imperiali. Questo controllo è poi aumentato nel periodo della Guerra Fredda per prevenire l’influenza dell’ex Unione Sovietica nella regione. E’ iniziata così una crociata contro la sinistra. Decine di migliaia di membri di partiti, sindacati e movimenti studenteschi, nel corso degli anni ’80, sono stati uccisi nelle prigioni iraniane, turche, siriane, irachene, egiziane e di altri paesi della regione. E’ in questo periodo che sono sorti i primi gruppi jihadisti. Nell’ultimo decennio, questi gruppi, in particolar modo dopo l’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq, hanno ottenuto uno status legittimo tra le persone come coloro che combattono “gli invasori stranieri” e “gli infedeli”. Tutto questo ha trasformato la regione mediorientale in un campo di sterminio dove gli estremisti islamici possono condurre la loro lotta senza creare problemi nei paesi occidentali.

Dopo l’ondata delle guerre imperialiste iniziate ufficialmente dopo l’11 settembre 2001, è emersa la possibilità di promuovere un Islam moderato in accordo con l’economia mondiale neo liberale. Il governo dell’AKP di Erdogan in Turchia rappresentava proprio quel modello di stato islamico moderato che con le sue politiche economiche neo liberali poteva riconciliare la rabbia del popolo contro l’Occidente e operare come agente del capitale nella regione. E’ diventato così il futuro del Medio Oriente. Questo ha consentito al governo turco di guadagnare maggior potere e fiducia nella propria rivendicazione a ruolo guida della comunità islamica sunnita globale. In realtà ha solo portato ulteriore devastazione e violenza tra sunniti e sciiti.

Il sostegno della Turchia insieme ai paesi del Golfo, ai gruppi jihadisti in lotta contro Assad, ha volutamente fatto sprofondare la Siria in un caos totale con l’obiettivo di distruggerla. La Turchia, infatti, ha peggiorato la situazione trasformando se stessa e le province confinanti con la Siria, in un luogo di transito degli estremisti islamici. E’ stata anche accusata di fornire supporto logistico e militare ai gruppi jihadisti: l’ISIS e il Fronte Al-Nusra sono quelli che hanno beneficiato di questo sostegno. Questo avviene sotto gli occhi delle nazioni occidentali che di fatto non ribadiscono che respingere e sconfiggere l’ISIS e il suo Califfato nero è prima di tutto una lotta antifascista in difesa della libertà e l’emancipazione dei popoli.

L’ISIS, fin dall’inizio di questa guerra in Siria, è diventato il flagello per il Kurdistan, il Medio Oriente ed il mondo intero.

I curdi e la libertà in Siria

I curdi del Kurdistan occidentale (Kurdistan Rojava) e quelli che vivono all’interno della Siria hanno sempre corso il rischio, insieme a tutti gli altri curdi delle altre nazioni confinanti, di scomparire. Soprattutto come popolo, a causa delle politiche negazioniste di cui sono stati oggetto. La rivolta popolare contro il regime siriano ha contribuito ad aprire la strada per un cambiamento della situazione, attirando l’attenzione del mondo su questa piccola parte del Kurdistan. Questa regione è diventata la chiave per risolvere la questione curda e un modello di organizzazione politica per tutto il Medioriente. Questo perché da alcuni anni, nel Rojava, è in corso un processo politico di trasformazione della società e da quando il conflitto siriano si è trasformato in guerra civile, il movimento curdo guidato dal PYD (Partito di Unione Democratica) ha preso il controllo di gran parte della regione. E’ infatti nel novembre 2013, che il PYD ha dichiarato la piena autonomia e proposto una costituzione chiamata Carta del Contratto sociale.

Kurdistan occidentale: nasce il Movimento della Società Democratica

La regione autonoma del Kurdistan occidentale è divisa in tre cantoni, ciascuno con il proprio autogoverno democratico e autonomo: Cizire, con più di un milione di abitanti e la sua ricchezza del sottosuolo è la più importante della regione. I giacimenti di petrolio della regione Rimelan-Cizre sono i più importanti (Rimelan ha lo stesso potenziale di Kirkuk). Kobane, regione agricola situata davanti alla pianura di Suruc, nel Kurdistan del Nord (Turchia), attraversata dall’Eufrate, uno dei maggior fiumi della Mesopotamia, abitata da più di 500.000 curdi. Efrin, a causa delle migrazioni interne, ha raddoppiato la sua popolazione stimata sui 500.000 abitanti. Tutti e tre i cantoni sono dotati di assemblee popolari e forze di autodifesa, le YPG (miste) e la YPJ (solo da donne). La Carta del Contratto Sociale è la costituzione più democratica che la popolazione di questa regione abbia mai avuto. La Rojava può essere considerata un modello di un confederalismo democratico nel Medio Oriente nel quale ogni comunità ha il diritto all’autodeterminazione e all’autogoverno.

La zona orientale è stata per molto tempo controllata dall’esercito governativo, ma poi, a causa delle continue infiltrazioni di bande terroriste e jahdiste, contro gli abitanti, specialmente curdi, il 12 luglio 2012 è stipulato un accordo tra le varie formazioni curde, in particolare tra il Consiglio Siriano Curdo (CNSC) ed il partito PYD (ramo siriano del PKK) per adottare una linea comune per la difesa della popolazione locale. L’opposizione armata del CNS (Consiglio Nazionale Siriano) e del ELS (Esercito Libero Siriano) accusano i curdi di essere alleati del governo di Assad, perché il Presidente siriano, strategicamente, ha concesso ai curdi, dopo solo qualche settimane dall’inizio delle rivolte, fino a quel momento considerati stranieri, la cittadinanza della regione orientale dell’Hasak. Certamente la rivolta popolare contro il regime di Assad è stata l’occasione per i curdi di portare la propria lotta ad un livello superiore. Il movimento, pur partecipando attivamente alla rivoluzione e facendo tesoro della sua esperienza storica, ha intrapreso un corso indipendente, prendendo le distanze sia dalle forze del regime e sia dalle forze di opposizione. Si presentano come la terza forza che può proporre una soluzione al conflitto. Per rimanere mobilitati politicamente ed attivi nella rivoluzione i curdi decidono quindi di creare il Movimento della Società Democratica (TEV-DEM) e l’Assemblea Popolare del Kurdistan occidentale (MGRK).

La strategia curda è quella di organizzare la propria resistenza sviluppando una propria politica indipendente. La rivoluzione del 19 luglio 2012 gli ha permesso di prendere gradualmente il controllo di tutte le assemblee comunali mettendo in atto il suo piano strategico sviluppato in tre fasi. La prima, diretta a prendere il controllo delle zone rurali e dei villaggi collegati al Comune, la seconda verso le istituzioni civili e servizi pubblici connessi allo Stato e la terza al controllo di tutte le città curde. Dal 19 luglio 2012, il movimento curdo era pronto per entrare nella terza fase della sua strategia. Dopo Kobane, sono state liberate tante altre città, come anche quartieri curdi delle città siriane di Aleppo, Raqqa e Hassaké. In due-tre mesi tutte le collettività locali curde sono andate nelle mani del popolo, ad eccezione di Qamislo, la più grande città della regione.

Il mese di luglio rappresenta per il popolo curdo un punto di svolta importante della sua storia:

Il 2 luglio 1979, il suo leader Abdullah Ocalan varca il confine del Nord Kurdistan per andare in Kurdistan occidentale aprendo così la strada per una rivendicazione identitaria.

Il 14 luglio 1982, quattro quadri del PKK, detenuti nel carcere di Diyarbakir, iniziano uno sciopero della fame, che li condurrà alla morte, per protestare contro il sistema carcerario, le pressioni e la tortura contro i curdi. Questa nuova forma di resistenza si è poi diffusa in tutto il Kurdistan portando la voce del popolo curdo a tutto il mondo.

Il 19 luglio 2012, i curdi, dopo aver cacciato le forze del regime, prendono la gestione del governo locale delle città del Kurdistan Rojava per mettere in pratica i principi della “autonomia democratica”, tra cui il controllo politico, l’amministrazione della giustizia e delle attività economiche e socio culturali, le questioni riguardanti i diritti delle donne e l’organizzazione delle forze di legittima autodifesa.

Gli eventi del 19 luglio hanno anche rafforzato l’unione dei tanti partiti politici curdi, permettendo quindi al PYD, la forza più grande della regione, insieme ad altri sedici partiti, in una riunione dell’Assemblea del popolo del Kurdistan occidentale, di creare l’Assemblea nazionale curda della Siria (ENKS). Il 24 luglio le due assemblee hanno poi annunciato la fondazione dell’Alto Consiglio Curdo, riconosciuto da centinaia di migliaia di curdi scesi in piazza per festeggiare questo importante momento. Successivamente l’Alto Consiglio Curdo ha istituito tre comitati: il “Comitato della diplomazia”, il “Comitato dei Servizi Sociali” e “Comitato della Difesa”.

Curdi e integralisti del Califfato: uno scontro senza esclusione di colpi

Dalla metà del 2013, i curdi delle tre regioni autonome della Siria settentrionale sono stati impegnati in un conflitto armato contro l’ISIS, ma questo non ha suscitato molto interesse nell’opinione pubblica internazionale. Era considerato solo un sotto conflitto distinto all’interno del grande conflitto siriano. Solo quando, il 10 giugno 2014, le forze estremiste dell’ISIS hanno conquistato Mosul (Iraq) il mondo ha aperto gli occhi. Tra giugno e la fine di luglio l’ISIS si è concentrato poi nuovamente sul Kurdistan occidentale con l’intenzione di massacrare la popolazione del Cantone di Kobane. Tutto il popolo curdo si è mobilitato in massa dando sostegno alle forze delle YPG e YPJ favorendo così una resistenza storica. Trovando resistenza a Kobane, l’ISIS ha provato un’offensiva nella regione di Cizire nella città di Hasakah che si trova vicina al confine siriano-iracheno. Dopo giorni di combattimento, l’ISIS è stata costretta ad arretrare. Dopo queste disfatte i gruppi terroristi si sono diretti verso il Kurdistan iracheno.

Il 3 agosto l’ISIS ha attaccato una delle zone più antiche e sacre della nazione curda, Sinjar (Singal), massacrando curdi yezidi, senza nessuna differenza tra civili e combattenti. Le forze peshmerga nell’arco di 24 ore hanno abbandonato le loro postazioni e l’ISIS ha preso il controllo della città. Il numero dei morti, feriti, dispersi è ancora ignoto, ma si parla di 1500-2000 civili morti. A seguito di questi attacchi, più di 50.000 yezidi sono scappati verso le montagne di Sinjar e più di 300.000 tra donne, bambini e anziani sono stati sfollati. Migliaia di donne sono state rapite e ridotte in schiavitù o sono state vittime di stupri. I rifugiati in montagna sono poi rimasti isolati ed hanno dovuto affrontare la fame e la sete. Quasi 300 bambini sono morti per fame e disidratazione e molte donne hanno preferito il suicidio piuttosto che finire nelle mani dell’ISIS. Questo brutale attacco ha spinto le unità armate delle YPG ad intervenire dal Kurdistan occidentale per proteggere i civili in fuga ed aprire un corridoio umanitario per la popolazione bloccata in montagna. Ciò ha salvato molte vite ed ha impedito all’ISIS di controllare zone più ampie del territorio.

L’appoggio non tanto segreto della Turchia all’ISIS

Lo stato islamico è tornato ad attaccare anche con armi pesanti, come i carri armati T-72, la popolazione curda del cantone di Kobane (15 settembre 2014) utilizzando anche armi consegnate dalla Turchia. Decine di villaggi sono attaccati con i cannoni. L’obiettivo è quello di fare un altro massacro come quello della popolazione yezidi. Le forze di difesa YPG e YPJ stanno resistendo mentre il governo dell’AKP di Erdogan sta sostenendo queste bande. Il confine turco rimane chiuso ai profughi, mentre invece è aperto per i miliziani dell’ISIS. Se la comunità internazionale vuole fermare l’ISIS bisogna intervenire sulla Turchia. L’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia (UIKI) lancia un appello al Governo italiano, all’Europa ed alle organizzazioni umanitarie per un intervento verso la Turchia affinché cessi di appoggiare l’ISIS. A metà di ottobre, con l’intensificarsi dell’attacco a Kobane, qualcosa cambia. Gli Usa, per frenare l’avanzata dell’Isis, ha iniziato una serie di bombardamenti aerei e, attraverso i suoi velivoli, ad inviare anche armamenti al PYD. Una decisione che ha trovato una forte contrarietà da parte delle autorità turche che hanno sempre considerato le PYD una organizzazione terroristica. La politica interna della Turchia è infatti legata al futuro della questione curda del Medioriente. L’obiettivo di Erdogan è quello di impedire di ristabilire un governo autonomo a Kobane. La speranza della Turchia è che l’Esercito Libero Siriano, che lotta contro Assad, prenda il controllo di Kobane. Il premier Ahmet Davutoğlu ha dichiarato che Ankara non vuole al proprio confine “nè il PYD, né il regime di Assad e nemmeno l’ISIS”. L’atmosfera in Turchia resta tesa. Durante varie manifestazioni curde a favore di Kobane, iniziate il 6-7 ottobre e continuate per più giorni, hanno perso la vita oltre 40 persone in scontri con la polizia e gruppi vicini al PKK e ad islamici radicali. Per il momento, dopo la terza settimana di assedio dell’ISIS al cantone di Kobane, Ankara assiste impassibile al graduale indebolimento delle unità curde di difesa popolare (YPG). Numerosi carri armati dell’esercito turco sono stati posizionati sulle alture interessate ai combattimenti, tutti puntati verso la regione curda. Una linea di confine di oltre 100 chilometri. La Turchia teme la presenza di “regioni autonome curde” ai propri confini per la possibilità che questo possa estendersi anche nelle sue regioni sudorientali. Le condizioni di Ankara per dare aiuto a Kobane sono quelle di rinunciare, da parte del PYD, a pretese autonomiste e di smettere di collaborare con il regime di Assad. La Turchia avrebbe anche chiesto a Washington la possibilità di istituire una zona cuscinetto al confine con la Siria ed una dichiarazione di una “no fky zone”. Il portavoce della Casa Bianca ha però ribadito il rifiuto di questa richiesta, ribadendo che l’obiettivo continua ad essere solo l’ISIS. Il co-leader del PYD, Muslim ha però dichiarato che il partito curdo è riuscito ad accordarsi su molti punti con il governo di Ankara. Quello che i curdi attendono è “l’autorizzazione a passare dai confini turchi per poter portare aiuti a Kobane dagli altri cantoni”. Ma, alla fine la Turchia non ha mantenuto le sue promesse. E’ immorale che da una parte una città sia minacciata da un massacro e dall’altra ci siano solo gli interessi di alcuni stati.

Dopo 133 giorni di resistenza Kobane è libera! “E’ la vittoria della linea della libertà sull’oscuro ISIS”, queste sono le parole del Comando Generale YPG. I combattenti delle YPG e YPJ, giovani uomini e donne del Kurdistan e tutti i volontari che li hanno raggiunti da tutto il Kurdistan ed altri paesi, si sono battuti con molto coraggio ed hanno opposto una forte resistenza al terrore. Questa vittoria è il frutto della rivoluzione del Rojava. “Questa è stata una battaglia tra l’umanità e la barbarie, tra la libertà e la crudeltà e tra i valori comuni dell’umanità e i nemici dell’umanità. È la correttezza, lo spirito di libertà e il libero volere dei popoli e dell’umanità, che hanno vinto questa battaglia”, ha sottolineato ancora il Comando Generale YPG.

L’anno 2014 è stato molto importante per il Kurdistan e le popolazioni del Medio Oriente. Uno dei comandanti delle YPG, Cemil Mazlum sottolineando che l’ISIS, in superiorità tecnica e numerica, si è scontrata con la filosofia di Ocalan, con lo spirito di sacrificio ed una forte organizzazione delle forze curde, ha dichiarato: “Inoltre, abbiamo capito il nemico in modo corretto e anticipato che cosa avrebbe potuto fare. Su questa base, ci siamo preparati per attacchi e barbarie di qualsiasi livello, e abbiamo combattuto il nemico con una chiara superiorità morale e coraggio. Le bande di ISIS erano superiori a noi per quanto riguarda le tecniche, le braccia e il numero di militanti, ma la determinazione eroica, la motivazione, l’impegno e il coraggio dei combattenti delle YPG/YPJ sono stati il nostro più grande vantaggio contro l’ISIS. Di fatto, Kobanê ha assistito allo scontro fra la superiorità tecnica e un popolo in lotta per la propria libertà, che finora ha vinto la guerra”.

Il ruolo delle donne nel conflitto e nella società curda

Le donne hanno avuto un ruolo molto importante in questo contesto. Le Unità di protezione del popolo contano circa 45mila unità, il 35% sono donne (quasi 16mila). C’è in gioco il posto che le donne occupano nel mondo e per questo le guerriere sono orgogliose di aver imbracciato le armi, così come lo sono le loro madri. A Kobane la guerra è una scelta obbligata per chi ha cura della propria vita e libertà, di quella dei compagni, della regione e delle idee. Queste donne stanno portando avanti anche una battaglia sul fronte interno per affermare il loro diritto a conquistarsi la libertà. La partecipazione alla guerra le ha portate a sentirsi uguali, hanno preso a difendere se stesse con il rischio di morire, senza nessuna predilezione al martirio. A loro la guerra non piace, come non piace uccidere, lo dicono nelle tante interviste rilasciate a giornalisti. Una combattente racconta, infatti, che pulire il suo fucile non era difficile, ma per riuscire a sparare ha dovuto combattere la paura. Ogni donna, prima di tutto, ha dovuto fare i conti con se stessa e con la sua normale passività di fronte alla vita quotidiana. Mentre rivendicano di essere una brigata di sole donne che vivono in modo del tutto indipendente, rivendicano e praticano anche l’uguaglianza ed insegnano qualcosa agli uomini. La loro lotta ha qualcosa di sovversivo che forse non sarà decisiva da un punto di vista militare, ma lo sarà da quello politico. La straordinaria resistenza delle donne curde non nasce dal nulla, ma ha radici molto lontane. E’, infatti, doveroso ricordare la figura di Sakine Cansiz (assassinata con le sue compagne Fidan Dogan e Leyla Saylemez a Parigi il 9 gennaio 2013) che insieme a poche altre compagne negli anni ’70 diede inizio all’auto-organizzazione delle donne nel movimento curdo.

“Erano anni molto difficili, dove si viveva in clandestinità e lottando sia contro lo Stato turco e la sua feroce repressione, sia contro la sinistra turca che non vedeva di buon occhio il movimento curdo, definendolo “nazionalista”, sia contro i pregiudizi sociali dell’epoca interni alla stessa società curda, che voleva per le donne un destino già scritto di mogli e madri. Un lavoro che le è costato lunghi anni di prigione, torture, esilio. Ma che è la vita che Sakine Cansiz aveva scelto per sé, l’unica che avrebbe potuto condurre.” [Dal libro “Tutta la mia vita è stata una lotta” di Sakine Cansiz 1°volume]

Gli occhi della delegazione Italiana

E’ in questo contesto che la delegazione italiana come Osservatori internazionali è arrivata il 18 marzo scorso in Kurdistan, suddivisa in vari gruppi per poter raggiungere più luoghi del territorio del Kurdistan turco. La delegazione di cui facevo parte era la “Delegazione di Van” e, Kobane era la nostra meta finale (22 marzo) insieme agli altri gruppi.

Partiamo la mattina presto da Diyarbakir per raggiungere la cittadina di Suruc vicina al confine siriano a 45 km a sud ovest della città di Urfa. Oggi è un importante distretto agricolo famoso per la produzione del melograno. Incontriamo nella sede del Municipio il responsabile della Commissione della diplomazia del partito DTK (Congresso della Società democratica) di Diyarbakir, Mustafa Dogal. Senza troppi giri di parole, ci comunica subito che raggiungere Kobane è praticamente impossibile, le autorità turche non concedono permessi. Dogal si trova a Suruc da cinque mesi con un ruolo da diplomatico. Il nostro programma per oggi prevede, dopo questa breve introduzione sulla situazione odierna, un sopralluogo vicino al confine dove potremo vedere Kobane ed una visita ad un campo profughi.

La città di Suruc conta 101.000 abitanti e dall’inizio della guerra, sono arrivati in tutta la provincia di Sanliurfa, a cui Suruc appartiene, 126.000 profughi. La popolazione si è praticamente raddoppiata. Il numero totale delle persone fuggite da Kobane che si trovano nel territorio del sud est turco è di 180 mila. Dalla liberazione di Kobane sono riusciti a tornare alle loro case nel Cantone circa 50.000 persone. Il rientro è organizzato, tre volte alla settimana, dai responsabili dei campi con il partito locale e con le famiglie. Le persone sono così accompagnate al confine con l’aiuto di mezzi di trasporto presi a noleggio. “Dal 1945 – continua Dogal – Turchia, Siria, Iran e Iraq, quattro paesi sotto le Nazioni Unite, continuano a praticare un embargo verso il popolo curdo. Sono 70 anni. L’unica soluzione da fare è quella di esercitare una forte pressione sulle Nazioni Unite, prima si farà e prima la Turchia sarà costretta a cambiare la sua politica. Ogni persona che viene qui e non passa a Kobane, quando torna indietro se non fa niente, se non dice niente, serviranno ancora altri 70 anni per cambiare qualcosa. Tutto è nelle nostre mani”. Dogal si raccomanda, quando andremo al confine, di non osare troppo, di non andare troppo vicino al confine. E’ una zona militare, c’è l’esercito turco, soldati, e sono pazzi. In passato, alcune persone sono state uccise solo perché si sono avvicinate troppo. La Turchia non ha riconosciuto ai profughi curdi di Kobane lo status di rifugiati e per questo non è intervenuta in questa emergenza. La municipalità di Suruc ha accolto invece per cinque mesi la popolazione di Kobane, non come rifugiati, ma come parenti, liberi di scegliere se restare o tornare alle proprie case.

Il trattato di Losanna ha diviso il confine separando di fatto persone della stessa famiglia da uno stato ad un altro. A chi resta, la Turchia però non rilascia un permesso di lavoro. Suruc ha prestato aiuto sia a quelli che sono rimasti e sia a chi è tornato a Kobane. Da ricordare infatti che Kobane per l’80% è ancora distrutta, specialmente la parte occidentale con molti corpi di combattenti insepolti ed ordigni esplosivi non disinnescati. A Suruc si trovano 6 campi profughi, di cui 5 gestiti dalla municipalità ed uno dalla protezione civile del governo turco, messo in piedi quattro mesi dopo la fine della guerra con Kobane liberata. La municipalità non ha ricevuto nessun aiuto né dalle Nazioni Unite e né dalla Turchia. Gli aiuti sono arrivati da 103 diverse municipalità e da diverse organizzazioni turche ed europee, niente dal governo turco o da governi europei. “I governi europei – afferma Dogal – rappresentano ufficialmente il governo turco. Il campo profugo turco è in realtà come un campo militare ed occorre un permesso per entrare e uscire. Il governo turco pretendeva inoltre che i rifugiati lasciassero i campi gestiti dalla municipalità di Suruc per trasferirsi in quello ufficiale turco. Ma era troppo tardi. I rifugiati volevano solo tornare alla loro case o a quello che ne era rimasto.”

La relazione di Dogal prosegue con toni più politici soprattutto inerenti al conflitto siriano.

“E’ più interessante parlare dell’intera coalizione che parlare solo del bombardamento delle Nazioni Unite sulla Siria. Quando hanno iniziato a bombardare l’ISIS – continua Dogal – era tardi, ma è sempre meglio che niente. Le forze di coalizione dovrebbero continuare, perché come popolo curdo non abbiamo abbastanza potere militare, ma come coraggiosi, abbiamo potere. Abbiamo bisogno di attrezzature, le YPG/ YPJ hanno bisogno di più armi, l’Isis ha grandi armi, ma nonostante questo sono stati sconfitti e, grazie al coraggio curdo e alla resistenza”.

Per 70 anni, a causa delle divisioni, dei confini e dei regimi dittatoriali non è stato possibile creare un’unità curda. Il popolo curdo è stato volutamente diviso per evitare una reale unificazione. Per quanto riguarda il rapporto con i Peshmerga, arrivati dall’Iraq, Dogal è molto diplomatico. Afferma infatti che il loro aiuto è stato minimo, ma è solo l’inizio. E’ stato un passo importante per la costruzione di una unità dei curdi.

“Senza unità i curdi non possono essere così potenti, come dovrebbero esserlo, e non solo i curdi da soli, i fratelli come voi, come noi – prosegue Dogal – Voi venite dall’Italia, ma le vostre radici sono qui, tutta la civiltà è nata in Mesopotamia. Se si legge la storia, le persone si sono mosse in Europa e negli Stati Uniti partendo dalla Mesopotamia, tra il Tigri e l’Eufrate. Bisogna tenere in considerazione le proprie radici. Il popolo curdo non sta combattendo solo per il popolo curdo, ma combattiamo per la democrazia in tutto il mondo. Se l’area che dovrebbe essere controllata dai curdi, sarà controllata dai curdi, l’intero mondo sarà al sicuro. Se l’occidente aiuterà il popolo curdo a controllare questa area, i fondamentalisti non potranno più manovrare in quest’area. Per questo bisogna supportare il popolo curdo affinché controlli questa zona e non solo contro l’Isis di oggi, ma anche contro quelli che verranno, perché spesso cambiano solo il nome, ma restano gli stessi. Il popolo curdo è l’assicurazione dell’intero mondo”.

Per quanto riguarda la questione del PKK (Partito del Lavoratori del Kurdistan), Dogal ci chiede: “Se il PKK è considerato un gruppo terroristico, perché la coalizione sta combattendo con loro? La storia aveva detto che Nelson Mandela era terrorista, ma poi cosa è successo? Il popolo curdo non è terrorista ed il mondo lo capirà. Dopo Kobane ed il massacro degli yezidi, lo capirà, tardi, ma capirà. Il popolo curdo non ha mai voluto occupare un altro territorio, non ha mai voluto seguire l’esempio dell’Isis in nessuna terra. Quello che il popolo curdo vuole è solo vivere nella sua terra, sul suo terreno con dignità ed onere, come gli altri popoli. Quello che vogliamo è la democrazia per l’intero mondo e per le donne”.

Sul processo di pace e sulle dichiarazioni di Ocalan, Dogal si esprime solo a livello personale.

“Le autorità turche negli ultimi trent’anni hanno trovato sempre delle scuse per non concedere l’autonomia al popolo curdo, come per esempio, attribuire la responsabilità al PKK perchè non accetta di deporre le armi. Il PKK però negli ultimi tre anni ha portato avanti “il cessate il fuoco” ma il governo turco non ha fatto nessun passo verso una riconciliazione. Il governo turco ora afferma che se il PKK abbandona la Turchia, è pronto a concedere al popolo curdo i suoi diritti. Sul processo di pace si sono aperte delle differenze di posizione tra Erdogan ed il primo ministro turco, ma siamo vicino alle nuove elezioni politiche ed è una consuetudine per Erdogan, per prendere più voti, rilasciare dichiarazioni che poi non metterà mai in pratica. Ad Erdogan piace il potere, vuole dimostrare a tutti chi è il Re, ma chi l’ha messo su lo può anche buttare giù. Tutto questo è normale per Erdogan, ma è lui che non è normale!”.

In direzione di Mesher a due passi dal confine e dal conflitto

La delegazione, subito dopo l’incontro con il diplomatico Mustafa Dogal nella sede del Municipio di Suruc, si dirige verso il confine con Kobane raggiungendo il villaggio di Mesher.

Mesher è infatti l’ultimo centro urbano turco prima della frontiera, tra Suruc e la Siria. Mesher e Kobane si guardano, si salutano, si aiutano, distano solo tre chilometri e, con l’aiuto di un binocolo o di uno zoom di una macchina fotografica si può guardare dentro alle case o di quello che è rimasto in piedi.

Arriviamo al confine. Scendiamo dal pulman. Alla nostra destra c’è una grande collina verde dove ci sono alcune pecore che tranquillamente mangiano l’erba, non sembrano sorprese o preoccupate, per loro è solo una silenziosa giornata di sole senza spari. Sulla strada ci sono camionette e militari che imbracciano fucili o Kalashnikov. Sono giovanissimi, ci guardano un po’ curiosi, ma abituati a questi occidentali che vogliono passare per vedere quello che resta di questa guerra. L’emozione mi prende allo stomaco, alla testa, dimentico lo zoom della mia macchina fotografica sul pulman, solo una volta a casa capisco che ho perso un’occasione per scattare delle fotografie più intense. Il tempo a nostra disposizione è poco. I miei compagni di viaggio iniziano a correre per raggiungere un punto migliore e il più vicino possibile allo spazio a noi consentito, dove riprendere o scattare immagini. C’è confusione, si sente gridare a qualcuno di tornare indietro, qualcun’altro vuole una foto con un soldato, ognuno esprime come vuole i propri sentimenti. Appena tre chilometri mi separano da Kobane, da quello che è rimasto della “Stalingrado del Medio Oriente”, così è stata chiamata Kobane dai primi giornalisti che sono riusciti ad entrare al termine dei quattro mesi di combattimento. Da qui riesco a vedere i palazzi, le case distrutte, le automobili, i furgoni abbandonati oltre il confine turco dai profughi in fuga e, sullo sfondo in lontananza, anche la bandiera delle YPG. Siamo tutti su questa linea con le macchine fotografiche e cineprese a guardare case distrutte. Penso ai combattenti, agli abitanti di Kobane, al loro tentativo di rivoluzionare la società esistente attraverso la proposta di una nuova costituzione chiamata “Carta del Contratto sociale”. Un documento laico, egualitario e anticapitalista. Alcuni principi sono già stati messi in pratica, come l’uguale divisione delle cariche amministrative fra uomini e donne, le forze di difesa speciali di sole donne (YPJ), la coesistenza sullo stesso territorio di etnie e religioni diverse.

Domani noi tutti torneremo alle nostre case e poi? Una domanda mi attraversa la mente mentre mi guardo attorno: “ma perché solo ora tanta gente è qui oggi? Perchè negli altri anni, per festeggiare il Newroz insieme al popolo curdo in Kurdistan, eravamo circa una trentina di persone, mentre in questo viaggio siamo in 120? Occorre una guerra, una devastazione per far muovere le persone? Ma poi mi dico che in fondo non c’è bisogno di affrontare un viaggio per essere vicino e supportare i diritti del popolo curdo e, il gran numero di persone presenti in quest’occasione, è solo per dimostrare al mondo intero, ma specialmente, al governo turco che siamo in molti a schierarsi con il popolo curdo, con la loro determinazione, coraggio e resistenza. La loro lotta deve essere anche la nostra. Dove mi trovo ora è “La linea” descritta da Serena Tarabini il 15 gennaio scorso nel suo racconto di un viaggio sul confine turco-siriano. Ricordare le parole di Serena è un omaggio per tutti quelli che hanno vissuto sulla propria pelle questa aggressione.

“La linea” si compone tutte le mattine a Mesher, villaggio collocato fra la cittadina di Suruç, ultima enclave urbana turca prima della frontiera, e la Siria. Un aggregato di poche case che lambisce il confine, dalla quale ciò che succede a Kobane si vede e si sente. Uno in mezzo a tanti altri, ma che si distingue. Le sue poche centinaia di abitanti, a cui si sono aggiunte una quarantina di famiglie fuggite da Kobane, assieme a ex combattenti, volontari, simpatizzanti, visitatori internazionali che vi transitano, ogni mattina formano una lunga linea rivolta verso una Kobane dalla quale si alzano colonne di fumo e provengono i suoni delle mitragliatrici e delle granate, mentre il ronzio degli aerei della coalizione si avvicina o si allontana. Nella “linea” decine, a volte centinaia di persone, rivolgono il loro omaggio ai combattenti di Kobane, scandendo slogan e innalzando canti di lotta. Un gesto simbolico pieno di orgoglio, di storia, di forza e di coraggio. Un rituale non privo di pericoli quando si svolge a pochi metri dal confine e si è sotto il tiro dell’esercito turco: un’attivista curda di 28 anni, Kader Ortakaya, a Novembre vi ha perso la vita, colpita alla testa da una pallottola sparata da un soldato. Questa catena umana che corre parallela lungo il confine, fa anche da linea di congiunzione fra due fronti di resistenza, quello militare che si svolge dentro Kobane, dove le Ypg e le Ypj, le truppe di liberazione maschili e femminili curde combattono l’Isis a costo della vita, e quello umanitario dall’altra parte della frontiera, dove si sono rifugiate le decine di migliaia di profughi provenienti da Kobane. “La linea” è uno dei tanti gesti che fanno di Mesher un luogo speciale, un osservatorio permanente sugli sviluppi del conflitto e un presidio di solidarietà dai caratteri simili a quelli della “comune”. Ma non c’è solo Mesher, tutta questa zona ha qualcosa di eccezionale….«Questa guerra non è la nostra guerra» ci dice Fatma, nome di fantasia per una dei 20 membri eletti al governo del cantone di Kobane e responsabile dell’ordine e della sicurezza a Suruç. «Chiunque si definisca un democratico dovrebbe sostenere questa nostra resistenza, perché stiamo combattendo contro l’Isis, che sono dei fascisti e dei terroristi»… Sono tante le linee che ho visto in questo viaggio: quelle formate dalle tende dei campi profughi, dalle macchine che fuggitivi siriani sono stati costretti dall’esercito turco ad abbandonare lungo il confine, dalle ambulanze che trasportavano morti e feriti, dalle persone in attesa di un pacco o di una visita medica, dal fumo delle esplosioni, sono tante linee le strade che tagliano l’infinita pianura mesopotamica. E poi la linea di frontiera, irta di filo spinato, brulicante di carri armati e uomini in divisa. Che continua con tutte le linee di frontiera dell’Europa e del mondo: innocenti righe tracciate su un pezzo di carta, nella realtà selettive e crudeli barriere sulle quali si infrangono le speranze e la vita di chi fugge dall’orrore.

I combattimenti sono cessati, Kobane è libera ed ora si contano i danni della devastazione. La guerra contro l’Isis ha avuto un costo molto alto. Il Consiglio esecutivo della provincia di Kobane ha costituito un Comitato con il compito di documentare tutti i danni subiti. E’ stato quindi redatto un rapporto (http://www.uikionlus.com/rapporto-sui-danni-nel-cantone-di-kobane/) nel quale sono dettagliate tutte le necessità di cui Kobane ha bisogno per riprendere una vita normale. Tutto è stato distrutto: infrastrutture, ospedali, agricoltura, istruzione, economia e capitale sociale.

Lasciamo la linea del confine per raggiungere uno dei sei campi profughi a Suruc: Suruc Belediyesi – Kobani – Cadir Kenti. Siamo accolti all’ingresso da tanti bambini curiosi. Il campo è abbastanza grande con tante tende grigie ben allineate. Possiamo girare liberamente all’interno del campo e ci dividiamo per non essere troppo invadenti nei confronti delle persone che lo occupano. La prima sensazione in queste occasioni è di disagio. Le nostre intenzioni, il nostro impegno è sincero, ma potremmo essere fraintesi nel momento in cui non incidiamo sulle prese di posizione dei nostri governi. Entro nel campo e subito una dolcissima bambina dai capelli castani con una giacca rosa, mi prende la mano e mi accompagna a conoscere il campo per tutto il tempo a nostra disposizione. Comunichiamo a gesti, avrei voluto conoscere la sua famiglia, sapere con chi si trovava lì, ma purtroppo, per la differenza linguistica, le mie domande sono rimaste insoddisfatte. Noto, come ci aveva raccontato il diplomatico Dogal, molti spazi vuoti, segno che molte tende sono state smontate per l’inizio delle operazioni di rientro a Kobane. La mia impressione è stata positiva perché mi trovavo di fronte ad una situazione d’emergenza messa in atto semplicemente dalla buona volontà di persone per aiutarne altre in estrema difficoltà. Questo non è il solito campo profughi dove vengono ammassate moltitudini di persone per un tempo indefinito, qui si tratta di un campo allestito per aiutare chi sta scappando da una guerra, si tratta dello stesso popolo e come tale è considerato. Sono liberi di scegliere se restare o ritornare alle proprie case. Le parole diventano inutili di fronte a tutto ciò, forse le immagini rendono meglio la situazione. Porto nel cuore con me il viso di quella bambina sorridente e spero che sia ora con tutta la sua famiglia nella sua casa a Kobane, come del resto, anche per tutte le altre persone presenti nel campo. L’unico rimprovero e delusione è quello di non aver potuto sapere le storie di quelle persone, delle loro paure, speranze, richieste d’aiuto. Non era programmato un incontro esplicativo con alcuni rappresentanti del campo.

22/05/2015

Fonti:

– Dal libro”Storie dei curdi” di Mirella Galletti

– sito “Osservatorio Balcani e Caucaso”

– sito “Uiki Onlus” I curdi in Siria

– sito “il Post”: tre anni di guerra in Siria – quatto anni di guerra in Siria – che cos’è l’Isis

-sito “Info Aut” La rivoluzione in Rojava

-sito “Ossin.org” La minoranza curda nella crisi siriana

http://nuke.alkemia.com/MedioOriente/NEWROZ2015Laresistenzadelpopolocurdo/tabid/1479/Default.aspx