Regime della restaurazione
Nella domenica di pasqua in Turchia si tiene un referendum sull’introduzione della dittatura presidenziale – solo con riserva è un cambio di paradigma
(…) La Turchia sarebbe sulla strada verso la dittatura è il tenore della stampa borghese da queste parti. Il sistema politico si troverebbe di fronte a un »cambio di paradigma«, si legge ad esempio in un contributo del politologo Ismail Küpeli per la Centrale Federale per la Formazione Politica. Domenica si decide se resta »la democrazia parlamentare esistita finora o se viene sostituita da un sistema presidenziale«. Ma in effetti il Presidente dello Stato Recep Tayyip Erdogan dal fallito golpe del 15 luglio 2016 con l’aiuto dello stato di emergenza già governa per decreto bypassando il Parlamento. Le modifiche costituzionali sottoposte a votazione mirano a una garanzia costituzionale duratura di questo regime personale.
Già prima del tentativo di golpe al quale Erdogan ha quasi dato benvenuto come »dono di Dio« in Turchia non c’era affatto una democrazia secondo criteri occidentali. La costituzione in essere, che mette al centro la protezione dello stato e non i diritti del cittadino, è riconducibile in modo diretto alla giunta golpista del 12 settembre 1980. Il partito AKP che nei suoi quasi 15 anni di governo si è quasi fuso nello Stato, ha rapidamente saputo sfruttare per il consolidamento del proprio potere l’eredità autoritaria, che inizialmente a parole ancora criticava: dalla soglia del dieci percento nelle elezioni parlamentari alla limitazione delle libertà sindacali fino all’ente per la censura radiotelevisiva. La relativa indipendenza della giustizia già nel 2010 è stata abolita con un referendum costituzionale, all’epoca approvato anche dai liberali e dal movimento Gülen.
Quindi è dubbio, »se con l’introduzione del sistema presidenziale si raggiungerà veramente un punto di svolta o piuttosto si deve parlare di una restaurazione di un sistema di accumulo del capitale in continuità con il golpe militare del 12 settembre 1980«, dice Murat Cakir della Rosa-Luxemburg-Stiftung dell’Assia nella pubblicazione »Infobrief Türkei«.
Da un lato Erdogan con il referendum vuole garantire se stesso e la sua famiglia. Come esempio ammonitore ha davanti agli occhi il destino del Presidente del Consiglio dei Ministri rovesciato e giustiziato nel 1960 dai militari Adnan Menderes, che aveva costruito un regime restauratore paragonabile a quello del governo dell’AKP.
Ma il consolidamento istituzionale dei rapporti di forza del conservatorismo religioso e dell’attuale sistema di valori capitalista va oltre le ambizioni personali di Erdogan. L’AKP in questo modo cerca di stabilirsi nella crisi economica e sociale strutturale con Erdogan come dominatore bonapartista come rappresentante dell’intera classe capitalista turca al di sopra delle frazioni configgenti nell’apparato dello Stato.
Il referendum avviene nelle condizioni dello stato di emergenza e di guerra coloniale nelle aree curde del Paese. Il governo si è servito spudoratamente di tutti mezzi statali a sua disposizione, compresi i media omologati. Invece il fronte del No diviso tra curdi e sinistra, kemalisti e islamisti radicali nonché fascisti infedeli, anche secondo l’opinione dell’OCSE si è visto esposto a evidenti impedimenti. Questi andavano da divieti di riunione all’arresto di chi distribuiva volantini e annunciati osservatori per le elezioni, fino ad attacchi di squadracce di picchiatori.
L’AKP mette gli oppositori del sistema presidenziale in blocco nell’area del »terrorismo«. Viene suggerito che a fronte della minaccia al Paese da parte di nemici esterni ed interni, solo il »Rais« (leader) Erdogan munito di pieni poteri dittatoriali possa garantire sicurezza e stabilità.
Recenti sondaggi predicono una sfida testa a testa. Tuttavia quasi nessuno dubita che l’AKP in base al suo controllo complessivo delle istituzioni statali alla fine potrà esibire la desiderata maggioranza. Con una vittoria risicata del campo del Sì sono probabili nuove elezioni con le quali il regime potrebbe assicurarsi una base plebiscitaria.
Se nonostante le manipolazioni, intimidazioni e la repressione dovesse vincere il No, questo darebbe una spinta morale all’opposizione, ma difficilmente Erdogan, che dispone ancora dei pieni poteri dati dallo stato di emergenza accetterebbe imbelle un simile indebolimento della sua autorità. Diversi politici dell’AKP per il caso di una sconfitta hanno già apertamente minacciato la guerra civile. Accanto a una polizia armatissima e piena di islamisti, associazioni paramilitari di seguaci armati dell’AKP e »Lupi Grigi« fascisti sono pronti per una »notte dei lunghi coltelli«.
di Nick Brauns, Junge Wel