Rapporto del processo contro 22 avvocati, del gruppo CHD

A Istanbul, nei giorni di Natale, come osservatore internazionale ad un processo che inizia il 24 dicembre contro 22 avvocati turchi appartenenti al gruppo CHD. Vado come inviato da AED (Avvocati Democratici Europei), associazione europea che raggruppa associazioni di avvocati democratici di tutti i paesi d’Europa; da LTI (Legal Team Italia), piccolo gruppo di avvocati italiani (aderente ad AED) la cui esperienza iniziò nelle giornate delle manifestazioni di Genova contro il G8 nel luglio 2001 e poi si è caratterizzata soprattutto per essere presente con propri aderenti in quasi tutte le manifestazioni di piazza in cui si potesse pensare vi fossero violazioni dei diritti delle persone; da UCPI (Unione delle Camere Penali) , la maggiore e più rappresentativa associazione di avvocati esistente in Italia, nonostante sia costituita solo da penalisti.

Al processo saranno presenti circa una dozzina fra avvocati e giornalisti stranieri, accreditati da associazioni simili a quelle che accreditano me. Vi è un altro collega, spagnolo, per l’AED; un belga per la autorevole Progressive Lawyers Network, dalla quale era partita la richiesta di presenziare al processo, e poi tedeschi, francesi, austriaci, olandesi.

IL QUADRO
Se si vuole avere un’idea precisa e sintetica di quali siano i rapporti fra l’avvocatura turca e il governo, basta andare nell’ufficio del presidente del Consiglio dell’Ordine (d’ora in poi C.dell’O) di Istanbul, alzare gli occhi e chiedere che cosa sia quel foro che si apre sul soffitto. “E’ stata una pallottola di mitragliatrice”, mi dice il presidente, ”sparata da un elicottero militare. Mi ha mancato di pochi centimetri mentre ero alla mia scrivania”. Una mira da far invidia ai droni americani.

Guardando le cose a più vasto raggio, non sembrano presentarsi meglio. Sono almeno 4 le inchieste degli ultimi tempi che vedono un gran numero di avvocati come imputati. E’ in corso (le udienze dibattimentali si sono tenute a metà del dicembre scorso) un processo contro 46 avvocati curdi, rei di avere preteso di difendere i loro assistiti (membri del PKK) nella loro lingua e, anche per questo, tratti a giudizio come appartenenti al PKK stesso. Il già citato presidente del C.dell’O. di Istanbul è tratto a giudizio (prima udienza il 7 gennaio) assieme a 12 componenti del suo consiglio per abuso d’ufficio per non avere voluto assumere decisioni disciplinari contro avvocati dell’ordine stanbulota, così come il governo pretendeva. Gli avvocati che tutti, in un video del giugno scorso, abbiamo visto trascinati fuori dal tribunale di Istanbul e poi sappiamo essere stati arrestati e trattenuti a decine per giorni, hanno avuto più fortuna: un giudice ha stabilito che non vi erano gli estremi per agire nei loro confronti. Infine, vi sono i 22 avvocati del CHD per i quali si sono celebrate le prime tre udienze nei giorni di Natale.

Ma, sempre per dare un’idea di quanto siano graditi i difensori veri da parte del governo turco, è accaduto il giorno 23 dicembre che dovesse raggiungerci da Amsterdam, anche lei come osservatrice internazionale, una collega olandese, che però dall’aeroporto è stata rispedita a casa in quanto “persona non gradita”. Il motivo? E’ l’avvocatessa che nell’ormai lontano 1999 vinse innanzi alla CEDU il processo per Ocalan, sulla composizione della corte speciale che lo aveva condannato, all’epoca composta anche da elementi militari. Dopo 14 anni, è ancora “non gradita” per avere difeso bene il suo noto cliente ed avere vinto il processo europeo.

IL CHD E L’ACCUSA CONTRO I 22 COLLEGHI IMPUTATI
Il CHD (Progressive Lawyers Association) è un’associazione di avvocati, non solo penalisti, attiva su tutto il territorio nazionale, con centro ad Ankara e sezioni un po’ dappertutto. Gli avvocati di questo gruppo (circa 2200) difendono in genere manifestanti, occupanti di case o gente le cui case vengono requisite per far posto a speculazioni immobiliari, cause di lavoro, talora anche sotto l’egida dei sindacati: insomma, come si dice in genere, “gli ultimi” dal punto di vista sociale. Si definiscono “socialisti rivoluzionari”, nacquero nel 1974 e furono messi fuorilegge dal regime militare nel 1976, fino al 1990. Oggi, dinnanzi alla corte speciale di Istanbul a Sivrili il loro principale torto sta nell’avere difeso terroristi appartenenti al gruppo DHKP/C che anni addietro compì attentati anche gravi. Nel gennaio 2013 la Procura di Istanbul fece eseguire un blitz nei loro confronti e ne mise in galera alcune decine, fra cui il presidente dell’associazione, Selgiuk Kosaagli i presidenti delle sezioni di altre città e così via. L’accusa, in sostanza, è di appartenenza all’associazione terroristica DHKP/C di cui alcuni di loro, come già detto, avevano assunto le difese. Talora anche in sede internazionale: in Belgio si è celebrato, a metà degli anni 2000, un processo per terrorismo internazionale contro alcuni di loro con esito a loro pienamente favorevole. Nel blitz è stata messa a soqquadro la sede di Istanbul (alla “perquisizione” ha assistito anche il presidente del C.dell’O. di Istanbul, che ha sede proprio di fronte a quella del CHD), sfasciando computer e file e portando via ogni cosa avvocati che si trovavano semplicemente dinnanzi alla sede sono stati attaccati e dispersi anche con gas al peperoncino. Alcune decine di avvocati appartenenti al gruppo sono stati messi in custodia cautelare in carcere e poi, dopo un mese, scarcerati . Ne sono rimasti in vinculis 9, che rivestivano posizioni di maggiore responsabilità nell’associazione .

Il capo di imputazione per il quale adesso 22 avvocati del CHD sono stati tratti a giudizio è di 625 pagine, e comprende non solo le indicazioni delle violazioni, ma anche gli elementi a sostegno dell’accusa. Si tratta di reati che potremmo definire di “appartenenza” o di “fiancheggiamento” o “appartenenza esterna”  al gruppo terroristico DHKP/C , reati che mediamente comportano pene dai 5 ai 10 anni; in un caso, una collega è indicata come mandante (dal Belgio, dove essa all’epoca si trovava) o istigatrice di due tentati omicidi: per lei vi è richiesta di due ergastoli.

Gli elementi di riscontro alle accuse mosse stanno soprattutto nelle dichiarazioni di “testi segreti”. Il “testimone segreto” è una figura ben nota in questi processi. Le sue dichiarazioni vengono raccolte dalla polizia, spesso tramite tortura o intimidazione, e poi riversate negli atti di indagine. Il procuratore ne conosce l’identità, ma essa non compare alla lettura degli atti. Non la conosce la difesa e non la conosce nemmeno il giudice. Si tratta, in genere, di dichiarazioni molto lunghe, talvolta di centinaia di pagine, assolutamente impossibili da verificare. Il “testimone segreto” è stato introdotto con una legge antiterrorismo (Witness Protection Law) per la quale il giudice può prendere precauzioni per la tutela del teste, ma la secretazione del medesimo dovrebbe essere una extrema ratio, mentre invece è diventata una pratica consueta. E’ ben vero che nessuna condanna può essere basata esclusivamente su dichiarazioni di “testi segreti”, ma esse costituiscono sempre l’asse dell’accusa, cui poi si aggiungono elementi spesso molto marginali o – agli occhi del comune osservatore – assai poco significativi: nel caso specifico, la loro appartenenza all’organizzazione terroristica sarebbe provata, per esempio, anche dal fatto che alcuni di loro si sono recati ai funerali dei loro assistiti, vittime di scontri; oppure che hanno protestato per le condizioni di salute di un loro assistito detenuto, il fatto che spesso compaiono in foto assieme ai loro assistiti; il fatto che si sono opposti a che agenti di polizia entrassero a perquisire i loro studi senza mandato; il fatto di avere partecipato a seminari e convegni, anche internazionali, di stampo politico-giuridico; soprattutto il fatto che i loro assistiti in genere si sono avvalsi della facoltà di non rispondere a polizia, procura o giudice. Accanto a questi dati, l’accusa si poggia su alcuni documenti internazionali del 1999 e del 2003, comparsi nel processo che contro membri del CHD si tenne in Belgio a metà degli anni 2000, processo in cui questi avvocati supposti appartenenti all’organizzazione terroristica furono assolti. Tali documenti (evidentemente non così significativi) erano stati “secretati” anche in Belgio e dunque sottratti alla verifica della difesa, di modo che non se ne conosce né la provenienza, né la composizione, né le modalità del trasferimento dal Belgio alla Turchia .

Tutti tali elementi del capo di imputazione ci vengono forniti da appartenenti molto attivi del CHD in un briefing del giorno prima del processo, tenutosi nella sede del C.dell’O., spiegandoci non solo l’accusa mossa ai colleghi, ma anche la composizione della corte speciale, la legislazione antiterrorismo e quant’altro poteva essere utile per affrontare il processo.

LA MANIFESTAZIONE
Dopo una conferenza stampa cui abbiamo partecipato anche noi osservatori internazionali ed il briefing di cui ho riferito, era stata indetta una manifestazione di avvocati non solo in occasione del processo del giorno dopo, ma contro le continue intimidazioni e pratiche illegittime cui gli avvocati sono sottoposti. La manifestazione parte alle 7 di sera dalla sede del C.dell’O., in pieno centro, sulla via Istiklal, la principale della città, e vi partecipano almeno 2000 avvocati, ciascuno in toga, con manifesti, stendardi e fiaccole. Apre il corteo lo stendardo sorretto dai membri del C.dell’O. che dice:”Non ci metteranno a tacere”. Slogan molto gridati: “Spalla a spalla contro il fascismo”, “Siamo rivoluzionari e ne siamo orgogliosi”, “Non taceremo”. A gridarli, avvocati molto giovani, ma non solo, ma per nulla “rivoluzionari”, almeno in apparenza. Dovremmo risalire lungo Istiklal fino alla piazza Taksim (quella degli scontri di Gezi Park, per intenderci), ma a metà percorso la polizia schierata ci blocca. Non ci attaccano e quindi è inutile lo strano intruglio fra viakal e nelsenpiatti che alcuni giovani colleghi ci avevano fornito contro gas al peperoncino e lacrimogeni. Attimi di tensione (tutta la zona – vedremo poi – era pattugliata da centinaia e centinaia di agenti in  tenuta antisommossa), poi il presidente del C.dell’O, monta sul tetto di un furgoncino e tiene un discorso molto forte e applaudito, non solo dagli avvocati, ma anche dalla gente circostante (eravamo all’ora di punta nella via più centrale dello shopping): “Non arriviamo a Taksim, ma Taksim è qui, in ognuno di noi”, è uno degli slogan coniati durante le proteste di Gezi Park. Ai poliziotti schierati viene lanciato lo slogan:”Levati il casco, niente peperoncino, e poi ne riparliamo”!.
Mi sembra opportuno aprire qui una riflessione (che meriterebbe molto più spazio) sulla composizione di questi avvocati.

A Istanbul ci sono solo 13000 avvocati: pochi per una città di 15 milioni di abitanti, se comparati ai numeri italiani o spagnoli. Molti sono i giovani, molte (direi forse prevalenti) le giovani donne. La partecipazione alla manifestazione, così come l’indomani al processo, è massiccia. Massiccia è stata anche la difesa dei dimostranti di Gezi Park. Si tratta di giovani preparati  e molto determinati a rivendicare garanzie per i propri assistiti e diritti per la propria professione. I modi sono molto poco paludati: sotto la toga non c’è quasi mai la cravatta. Esperienze come quella che si può maturare attorno ad un processo come questo o attorno alle proteste di Gezi Park certamente costituiranno un patrimonio che difficilmente potrà in futuro essere dimenticato . Interessante è anche rilevare lo stretto rapporto fra gli avvocati del CHD, un’associazione ovviamente libera e privata, e quelli dei C.dell’O., che hanno natura istituzionale: la politica governativa in materia di giustizia, evidentemente, mette in pericolo l’esistenza di un modo libero di fare l’avvocato ed anche i C.dell’O. se ne accorgono.

Dopo, ottima cena con mezzè e kebab in un buon ristorante, tutti assieme, a spese del C.dell’O.

LE UDIENZE
I colleghi del CHD (quelli non in galera, evidentemente) hanno fatto le cose per bene. Si parte alle 8 da Taksim con alcuni bus messi a disposizione per andare al villaggio di Sivrili, ad un’ora e mezza di distanza dalla città verso Edirne. Si arriva in una zona collinosa di campagna, tutta controllata dai militari. I primi controlli (sul bus) avvengono quando si è ancora ad un quarto d’ora dal luogo del tribunale. L’aula è posta ai margini di un vastissimo luogo di detenzione e sicurezza, circondato da reti di filo spinato e torrette: per dare un’idea, si prenda Rebibbia e si moltiplichi per 20.

L’edificio dell’aula bunker è un edificio nuovo e ben congegnato. I controlli non sono –almeno per noi avvocati – particolarmente severi. Divieto di foto, facilmente aggirabile. Grande bar e grande mensa, ottimi WC. L’aula è enorme, con i tre giudici e il PM ad un estremo (alla stessa altezza), con la corte contornata di un incongruo timpano ionico in gesso, due grandi bandiere ai lati e due megaschermi un poco più su, gli imputati in quella che potremmo chiamare la platea, il pubblico all’estremo opposto rispetto ai giudici e gli avvocati su delle tribunette ai due lati. Si comincia più o meno in orario con l’appello degli imputati. Dei 9 detenuti, 5 sono donne. Segue l’appello degli avvocati: lunghissimo visto che gli avvocati presenti sono 5-600 circa, ciascuno dichiara da quale foro viene (provengono anche da altri fori) e di essere lì per difendere “gli avvocati”, giocando sul fatto che sono avvocati gli imputati, ma si difende anche lo status di avvocato. Ciò è possibile perché in Turchia non vi è limite.al numero di avvocati che un imputato può avere. Ben 2000 si erano iscritti come difensori dei 22 colleghi, e ve ne sono almeno 500 in aula (e non diminuiranno nelle udienze successive). Veniamo chiamati anche noi osservatori internazionali, con le rispettive associazioni di appartenenza e veniamo fatti sedere in platea, un poco dietro agli imputati: posizione privilegiata per poter seguire il processo. Ci vengono messi a disposizione dal CHD interpreti dal turco all’inglese o francese o tedesco: uno ogni due osservatori, alternandosi ogni 20-30 minuti.

L’indicazione e gli accordi, per queste prime tre udienze, sono di non perdere tempo nei preliminari e andare dritti alle autodifese degli imputati. In Turchia, infatti, il processo inizia con la versione dell’imputato. In questo caso, ancor più giustificato, trattandosi di avvocati. Dunque gli avvocati difensori chiedono che siano date per lette le più di 600 pagine del capo d’imputazione. La corte, però, intende fare un breve riassunto del lungo atto, sottolineando elementi come il  fatto che gli ordini arrivassero anche per il CHD dall’estero, come questi avvocati lavorassero senza hardware, ma solo con CD o pennette, come partecipassero a convegni internazionali a spese dell’organizzazione, come membri del CHD fossero anche membri del PKK (fuorilegge), come il presidente si fosse recato a visitare un assistito in ospedale a causa di uno sciopero della fame, come, sebbene non tutti fossero difesi gratuitamente, l’organizzazione coprisse le spese di alcuni. Particolare rilievo assume l’appartenenza di alcuni, in passato al PLO (People’s Law Office – Ufficio Legale Popolare: nome in codice “la bottega del fornaio”), considerato la copertura legale del DHKP/C, cui l’organizzazione DHKP/C decideva cosa mandare per l’assistenza, ma anche come legali . Pare a me che il rapporto fra CHD e PLO sia il punto più critico dell’impianto accusatorio e varrà la pena approfondire questo elemento, che pure non riguarda affatto la massa degli imputati.

Dopo la pausa del pranzo inizierà a parlare il presidente Selgiuk, con una scaletta di 300 pagine e parlerà fino alla metà della mattina successiva. Seguiranno gli altri 8 imputati detenuti, con discorsi più o meno lunghi. Si tratta, all’evidenza, di un’autodifesa collettiva, con spartizione dei compiti, così da non sovrapporsi con le argomentazioni. Selgiuk è un grande oratore, che spesso fa riferimento ai capisaldi della cultura occidentale (da Dostojevski a Shakespeare, da Babeuf a Luis Blanc e molto altro) cercando di inchiodare la corte nel suo ruolo di corte speciale  . “Tutti ricordano i nomi di Socrate e di Galileo, nessuno il nome dei loro giudice”, dice efficacemente. Ma è efficace anche quando elenca tutti i casi più eclatanti di orrori giudiziari dai tempi dell’impero ottomano o quando, con vivezza di particolari, racconta dei detenuti torturali e seppelliti di notte, per non far vedere ai loro compagni di detenzione le torture subite e la morte che ne è derivata. Oppure la storia di due avvocati assassinati. Oppure di come il loro arresto sia stato un vero e proprio kidnapping. Ci sono anche rimandi ai principi costituzionali Il punto più efficace potrebbe essere riassunto nella sua frase: “La procura richiede una pena e per farlo deve costruire un delitto. Questa è la sua tragedia, Fate che non sia tragedia anche vostra. Noi vi sfidiamo a dimostrare la vostra indipendenza”. Il tema del teorema costruito apposta per giustificare il blitz contro gli avvocati del CHD e poi la loro detenzione e il processo è in buona sostanza il tema di questo caso, che in tal modo si qualifica come vero caso politico, tanto più grave perché incentrato su e mosso contro degli avvocati.

Gli altri 8 imputati detenuti parleranno più o meno sulla stessa linea, ma ciascuno riferendosi ad àmbiti diversi (diritto del lavoro, diritto all’abitazione , diritto di manifestare ecc.), dando così l’idea precisa di un’associazione il cui scopo era ben più vasto che non l’occasionale difesa dei membri di un’associazione terroristica. Anche se, bisogna ammetterlo, da molto tempo non mi capitava di sentire citati così spesso termini come “capitalismo”, “imperialismo”, “colonialismo”, “classe borghese” e tutta una attrezzeria ideologico-lessicale che a noi appare ormai desueta. Ma non importa, la difesa sembra efficace e ben fondata; la richiesta di potersi confrontare coi testi secretati è avanzata con forza; la rivendicazione del ruolo dell’avvocato altrettanto: ”Ci accusate di avere spinto 175 nostri assistiti ad avvalersi della facoltà di non rispondere, ma gli imputati erano 400: chi ha spinto a parlare gli altri 225?”.

Alla terza udienza parlano gli ultimi rimasti fra i 9 imputati detenuti, poi parla una decina fra i 500 difensori presenti. Interventi brevi, volti a chiedere la rimessione in libertà degli assistiti  e a rivendicare pienamente il ruolo di difensore come ruolo indipendente, regolato da norme interne su cui vigilano i C.dell’O., pienamente svolto anche da avvocati non appartenenti al CHD. “Voi accusate questi 22 colleghi di essersi comportati male in certi processi”, argomenta un collega difensore, membro del C.dell’O. e allegro anfitrione nelle cene che l’Ordine ci ha offerto, ”bene, io ho fatto gli stessi processi nello stesso modo in cui li hanno fatti loro. Perché io non sono imputato?”.

Tutti gli interventi sono stati seguiti con silenzio e attenzione non solo dal pubblico, ovviamente composto soprattutto da familiari e fan, ma anche da centinaia di colleghi difensori; taluni passaggi sono stati sottolineati con applausi. Il Presidente della corte ha richiamato due volte a non gridare slogan, ma l’atmosfera era veramente molto calda nei confronti degli imputati: grandi saluti, baci inviati da lontano, partecipazione di tutti i colleghi presenti. Si ha l’impressione che si tratti di un processo molto importante e di grande significato per tutta l’avvocatura turca. Sono presenti e parlano, sia pur brevemente, non solo il presidente dell’ordine di Istanbul, ma anche quelli di Ankara, di Smirne, di Adana e di altre città. La parlo al procuratore, che non parla e si limita e dare il consenso per la remissione in libertà di un detenuto.

La corte si ritira alle 7 di sera. Deve solo decidere sulla remissione in libertà dei detenuti. Non è in suo potere riformulare o rigettare il capo d’imputazione, su cui proseguirà il dibattimento .

I tre giorni di processo (le prossime udienze saranno fra molti mesi) si sono svolti mentre “fuori”, sui media e nelle piazze, risuonava l’eco di alcuni scandali economici (tipicamente italiani, diremmo noi) per cui figli, parenti e amici di ministri in carica erano stati trovati con le mani nel sacco a prendere mazzette (inquadrature della macchinetta contasoldi per contare l’importo delle mazzette: roba che da noi neanche Ligresti!). Dieci ministri hanno dovuto dimettersi. Il governo Erdoan appare indebolito. Manifestazioni in tutte le grandi città, come già ai tempi di Gezi Park, chiedono le dimissioni del governo. In questo clima di incertezza, una corte speciale, nominata secondo criteri politici come questa qui riunita a Sivrili avrà convenienza o meno a prendere le distanze dall’anatra governativa azzoppata? Oppure correrà in suo soccorso con una decisione rigida?

La corte rientra alle 9: consueta tensione ed agitazione nel pubblico e fra gli avvocati. Quattro sono rimessi in libertà, cinque rimangono detenuti, e fra essi, naturalmente, il presidente Selgiuk. Delusione e slogan fra il pubblico; una parziale soddisfazione fra gli addetti ai lavori (e qui ci ricomprendo anche noi osservatori internazionali): l’accusa ne esce in qualche modo ridimensionata.

UNA PRIMA VALUTAZIONE
Naturalmente, nonostante ci sia stata messa a disposizione una quantità veramente rilevante di informazioni, non è facile dare una valutazione su un processo che non si conosce. Vediamo quindi di fissare alcuni punti:
1)Sicuramente si tratta di un processo politico, basato su un teorema politico volto ad appiattire i difensori sui propri assistiti, senza tenere conto della complessità del soggetto accusato: l’associazione CHD.

2)Il processo è politico anche perché si svolge di fronte ad un organo come la Corte Speciale politicamente nominato .

3)Il processo, per le modalità della costruzione delle prove (“testi segreti” che non saranno sottoposti a controesame, documenti elettronici non peritati, dichiarazioni estorte anche con la tortura ecc.) è molto lontano dai principi del giusto processo.

4)Questo processo sta rivelandosi un momento importante della costruzione della consapevolezza del ruolo del difensore e dei suoi diritti e dunque delle garanzie del cittadino. Attorno ad un’associazione di avvocati, libera e privata, si è coagulato il consenso di tutta l’avvocatura penale turca. E’ chiaro a tutti che cosa è in gioco in questo processo e l’avvocatura non intende vedersi sottrarre ruolo e diritti.

5)Cresce all’interno dell’avvocatura penale la precisa consapevolezza della necessità di ottenere da un lato un giudice veramente indipendente e lontano dall’accusa, la quale, nonostante la sua indipendenza formale, è solo un’estensione del governo tramite la polizia; dall’altro un processo le cui regole si basino quanto meno sulla verificabilità delle prove addotte dall’accusa.

6)Il processo, questo processo, insomma, sembra a me che sia in bilico fra vecchio e nuovo (ma prevale il vecchio), un po’ come accade per ogni aspetto della società turca, traversata da grandi spinte verso l’innovazione (economica e sociale, in ogni direzione), ma continuamente riportata – soprattutto dalla sua classe politica – a modelli e valori vecchi e antidemocratici.

7)Il ruolo che in questa dinamica stanno avendo e possono ancor più in futuro avere gli avvocati (parlo soprattutto dei penalisti) appare fondamentale e ben chiaro, per il bene e per il male, a tutti gli schieramenti in campo .

a cura di Ezzio Menzione,

Delegazione degli giuristi democratici al processo di Istanbul 23-26 dicembre 2013