Né col regime né con l’opposizione: la terza via dei kurdi di Siria
di Enrico Campofreda –
Anche dal disastro, dai massacri, dalla guerra fra bande cercano di trovare lo spiraglio d’un futuro politico per il loro popolo in un Kurdistan sovranazionale. Secondo il sogno di Abdullah Öcalan messo nero su bianco nell’ormai nota Road Map. Sono i kurdi siriani, o meglio coloro che seguono le indicazioni del Partito di Unità Democratica (Pyd) vicino al Congresso Nazionale del Kurdistan (Knk) in contrasto, e conflitto, con altre componenti: il Partito Democratico Kurdo (Pdk) e il Partito dell’Unione Libertà (Azadi) che attuano differenti tattiche e nel caos del conflitto si sono trovati a coadiuvare attacchi in zone controllate dai Comitati di autodifesa del Pyd. Kurdi contro kurdi.
Guerra confessionale o convivenza interetnica – Lo afferma un documento dell’Esecutivo del Knk che ripercorre momenti intensi e cruciali della crisi siriana, dalle manifestazioni anti regime del marzo 2011, i primi cortei che si ricollegavano alle Primavere tunisina ed egiziana. Sempre in prima fila fra gli scontenti d’una protesta vociante, severa, ma non certo armata c’era questa fazione kurda già attiva e organizzata nel 2003, strutturata pure in Forza di difesa popolare. Un organismo che nel 2004 non riuscì a evitare gli eccidi di quello che loro definiscono “il regime Baath” a Qamislo, una delle tante cittadine a ridosso delle centinaia di chilometri su cui corre l’attuale confine turco. Le frontiere e dal 1923 la ferrovia Berlino-Baghdad divisero una popolazione che vive tuttora la sua diaspora in varie nazioni. Dai mesi sempre più tumultuosi della prima protesta, repressa a colpi di mitra da polizia ed esercito siriani, alla successiva nascita dell’Esercito Siriano Libero, foraggiato da Turchia e da un Occidente smanioso di colpire Asad. Fino alla presenza sempre più capillare, e nell’ultimo anno inquietante, della componente jihadista che raccoglie guerriglieri, armi, fondi da sauditi e altre monarchie felici di accrescere il fondamentalismo. Un campo che si amplia anche con liberazioni di prigionieri filo qaedisti definiti dal report del Knk “pericolosi criminali” condannati e spediti in terra siriana “800 dalle prigioni irachene di Abu Graib e Taci, 1200 dalla libanese Bingazi Kuveyfite, 250 dalla pachistana Dera Ismail Han” per rinfocolare le speranze del Fronte Al-Nusra di creare lo Stato Islamico Iraq-Damasco, ben oltre la fascia territoriale attualmente controllata dai suoi miliziani.
Prove di contropotere – In questi anni il Pyd s’è dedicato alla formazione di strutture territoriali nelle città di Aleppo, Hessaké e in centri minori guardando a tutta la fascia denominata Kurdistana Rojava. Una zona ampia e ambitissima per la presenza di petrolio nel sottosuolo e in alcuni punti, come nella regione di Cizre, per la fertilità del terreno, ben altra cosa dai deserti della Siria meridionale. Ricollegandosi a certi mesi di luglio che hanno segnato la recente storia politica kurda: quello del 1979, quando Öcalan “tracciava il percorso della rivendicazione identitaria” o quello del 1982 quando quattro detenuti kurdi nel carcere di Diyarbakir avevano avviato “la resistenza”, lasciandosi morire di fame per denunciare torture e pressioni dell’allora Turchia golpista. Così nel luglio 2012, in piena guerra civile o comunitaria, i kurdi oppositori di Asad rivendicavano la propria “autonomia democratica” e l’Alto Consiglio Kurdo creava tre Comitati per: la diplomazia, i servizi sociali, la difesa. Le “assemblee popolari” in varie città e le “case del popolo” in ogni distretto (in cui sono presenti anche minoranze armene, cecene, arabe, caldee) trovano nelle donne un fulcro e una forza motrice che, partendo dalla specificità della questione femminile, s’allargano per affrontare temi educativi ed economici. Le accademie e le più semplici scuole primarie sono strumenti che impartiscono istruzione ai discenti, formano anche i docenti e saldano le radici etniche e linguistiche kurde. Quest’obiettivo deve fare i conti con la diversità di programma di altre forze politiche kurde che, a detta del partito di Unità Democratica, cedono alle lusinghe dell’establishment di altre nazioni. Proprio il ministro degli esteri turco Davutoglu ha lavorato su tali divisioni. L’esito è lo straniamento e la migrazione forzata, ora ingigantita dagli eventi bellici che conducono decine di migliaia di nuclei familiari e un’infinità di singoli a sfuggire alla morte rimpolpando la drammatica fiumana dei rifugiati. Le logiche nazionaliste e claniste sviluppano attacchi a situazione esemplari che attuano ciò che Öcalan teorizza: una realtà multietica dove si può vivere in pace. E’ accaduto nel febbraio scorso alla kurdo-araba-assira Tiltemir. Amata e odiata, secondo i punti di vista.