Da diversi giorni il paese che è stato eletto dalla comunità internazionale a mediatore in pectore tra Ucraina e Russia – la Turchia – sta muovendo una guerra barbarica e sprezzante di qualsiasi legalità internazionale in due paesi confinanti, l’Iraq e la Siria. In Iraq mezzi corazzati turchi e aviazione colpiscono le montagne Zap, dove sono attivi i curdi del Partito dei lavoratori (Pkk), e quelle di Shingal, dove vive la comunità religiosa ezida massacrata dall’Isis nel 2014 (autodifesa dalle Unità di resistenza di Shingal o Ybs), raccontata mesi fa da Zerocalcare. In Siria i droni di Ankara bombardano l’Amministrazione democratica curdo-araba del nord-est, che da anni si oppone ai jihadisti e ad Assad, unico esito politicamente positivo della tragica guerra siriana. Sul piano del diritto internazionale tali offensive sono del tutto equiparabili all’invasione russa dell’Ucraina, violando, come quella, l’art. 2 comma quarto della Carta delle Nazioni Unite (Divieto di aggressioneTutte le categorie).
Occorre ogni volta ricordare che Erdogan è uno dei più potenti e regressivi leader politici del mondo musulmano, cui si rivolge ispirando l’idea di superare le istituzioni secolari, a partire dalla Turchia per continuare altrove, e ritornare gradualmente al diritto islamico tradizionale. Per questo i bombardamenti contro gli ezidi iracheni, che gli elettori più oltranzisti del presidente turco considerano satanisti, o quelli contro le comunità cristiane di Tell Tamir in Siria – iniziati guarda caso nel giorno di Pasqua – hanno un significato che si fatica a mettere a fuoco, soprattutto perché non vengono diffuse su questo notizie e analisi. Si pensi a un altro obiettivo colpito pochi giorni fa, dal grande significato propagandistico: le Unità di protezione delle donne (Ypj) a Kobane, che ottennero l’ammirazione del mondo per aver sconfitto l’invasione dell’Isis nel 2014.
Il modo di procedere a compartimenti stagni dell’informazione, lungi dall’essere giustificato dalle reali emergenze che viviamo, è alla radice dell’ignoranza di massa che produce le emergenze stesse, legittimando leadership autoritarie e irresponsabili. Il silenzio sulle guerre turche ne è un esempio: non soltanto sarebbe doveroso informare su questo (pur continuando a informare sull’Ucraina), ma le loro implicazioni non sono meno pericolose di quelle nel Donbass.
In crisi nei sondaggi per il tracollo valutario nazionale, Erdogan ha infatti annunciato un’imminente invasione di terra in Siria in supporto del “Governo ad Interim” jihadista da lui costruito, nemico dell’Amministrazione democratica. Le analoghe invasioni del 2018 e del 2019 produssero migliaia di morti, mezzo milione di profughi e una catastrofe politico-umanitaria, con il risorgere dei gruppi islamisti (Isis compreso) che le Forze siriane democratiche, che proteggono l’Amministrazione autonoma, avevano sconfitto. Furono Putin e Trump ad avallare quelle invasioni, spostando truppe che avevano cooperato con le Ypg curde fino al giorno prima, per far spazio a milizie di veterani di Daesh e Al-Qaeda – protette dal secondo esercito più numeroso della Nato.
Approfittando della fase favorevole, il presidente turco ha avviato un’offensiva diplomatica che lo rafforzi anche in Medio Oriente: ha espulso, dopo molti anni, i militanti palestinesi di Hamas, avviando una fase d’intesa con Israele inedita dai tempi dell’attacco alla Nave Marmara (2010); e si è recato dal saudita Bin Salman dopo aver chiuso il contenzioso legato a Khashoggi, che in realtà riguardava il Qatar e le attività di supporto alla Fratellanza musulmana (di cui fa parte anche Hamas) che i sauditi, da posizioni se possibile più oscurantiste, avversano.
Russia, Stati Uniti, stati islamici e stati ebraici: tutti stringono e armano la mano che si abbatte sull’autogoverno pluralistico prodotto dalle forze progressiste curde, proprio mentre l’Europa – e l’Ucraina – scoprono che avrebbero un gran bisogno di ispirarsi a simili modelli.