La nuova Diyarbakir e la distruzione dell’identità curda in Turchia

Se avete visitato il cuore antico del Kurdistan turco prima della rivolta dei giovani curdi del 2015, oggi non lo riconoscereste. Ciò che non è andato distrutto dall’assedio di Ankara è stato sequestrato. La ricostruzione ignora i vecchi residenti. E cancella l’identità della città dei vinti

«Ricostruiremo Diyarbakir come Toledo – ha commentato a febbraio 2016 l’ex primo ministro turco Ahmet Davutoglu – tutti vorranno venire in visita e ne apprezzeranno lo stile architettonico. Dagli anni ’90 queste città (del sud-est della Turchia ndr.) sono cresciute in maniera incontrollata. Anche se questi eventi non fossero successi, necessiterebbero comunque di un rinnovamento urbano».

E così la città simbolo e chimera dell’intero popolo curdo, giorno dopo giorno, viene privata della sua stessa anima. In molti quest’anno hanno cercato un po’ di pace durante i festeggiamenti di Nowruz, la ricorrenza persiana che celebra il nuovo anno e che si festeggia il 21 marzo in concomitanza con l’arrivo della primavera.

Ma non sono bastati i tamburi, le danze e il fuoco a incollare insieme i pezzi di un sogno sempre più lontano. Dopo appena due ore una voce ha intimato ai partecipanti di abbandonare il parco e disperdersi. I ragazzi di una libreria cittadina sono rimasti fino alla fine, stesi sull’erba, parlando poco e niente. «Qualche settimana fa c’è stata una retata e ci hanno portato via tre computer e tutti i libri. Ma che importa, centinaia di titoli sono stati vietati: cosa ci resta da vendere?».

I progetti di riqualificazione di Diyarbakir non nascono all’indomani della ripresa del conflitto armato con Ankara. Già nel 2011 Erdogan dichiarò che i lavori affidati a Toki, l’agenzia statale per l’edilizia, avrebbero portato a un «aumento dell’occupazione perché Diyarbakir diventerà meta di turismo internazionale».

Nel frattempo Davutoglu ha lasciato il posto a Yıldırım, presidente del partito Akp, e la stretta sulla città è diventata soffocante. «L’obiettivo del governo – raccontava appena un anno fa Çiğdem*, responsabile dell’ufficio stampa dell’amministrazione precedente – è distruggere l’identità curda di cui il centro cittadino era un esempio importante, con le sue mura fortificate e i giardini di Hevsel. Il progetto di riqualificazione prevede palazzi con vista sul Tigri, fontane e prati di erba inglese. Il centro diventerà inaccessibile ai locali per essere venduto a turchi facoltosi».

Oggi la città vecchia, Sur, circondata da chilometri di mura romane e bizantine dichiarate Patrimonio dell’umanità dall’Unesco, è un cantiere a cielo aperto. Sono stati realizzati nuovi spazi per ospitare i negozi del bazar, mentre dal lato opposto della strada solo gli uccelli sono testimoni di cosa si nasconde dietro le alte barriere di cemento armato. Qualcuno si fotografa sotto la bandiera turca, altri come Naif* guardano i soldati in cagnesco.

Ai turisti la città deve sembrare un gioiello, esserci passati durante la sua ricostruzione un vanto da sfoggiare agli amici rimasti a casa. Ma sono le persone come Naif* a pagare il prezzo più alto. La sua casa è stata distrutta e come risarcimento ha ricevuto appena 5 mila lire turche (mille euro circa). Il vero cruccio però non è la casa. A quelli come lui che prima del commissariamento della città si incontravano per cantare nella Dengbej Evi (lett. “casa del canto” dove anziani cantori raccontano storie tradizionali in lingua curda), di quel luogo magico ne sentono una profonda nostalgia. La Dengbej Evi non è stata chiusa ma Naif e i suoi amici non sono più i benvenuti.

Le vicende di Diyarbakir hanno una portata collettiva e umana che va oltre l’appartenenza etnica perché la storia di Sur è millenaria. Qui decine di civiltà hanno lasciato le proprie tracce: ebrei, musulmani, cristiani, persiani, arabi, armeni, turchi. Più di 1.500 edifici sono stati dichiarati storici e protetti dalla legge. Alcuni hanno 500 anni, altri secoli.

Ma questa sembra essere la storia dei vinti, quella che deve lasciare il passo alla gentrificazione, alla modernità, alle ambizioni del potere e dei potenti. Chissà per quanto ancora la signora all’angolo potrà continuare a friggere il pesce vicino ai minibus in corsa, o il ragazzo armeno rallegrerà con il suo vino i giovani che la sera vanno in riva al Tigri a fare baldoria.

Oggi Diyarbakir (Amed in curdo) soffre come Volkan*, che trascorre i pomeriggi guardando ai frutteti millenari di Hevsel. Vicino alla casetta dei suoi piccioni, lungo le fortificazioni di pietra nera che circondano la città, ha steso anche dei tappeti dove la gente può sedersi ad ammirare il paesaggio. Tra due mandorli in fiore ha attaccato un poster di Sur dove si vede la sua casa: «Abitavo qui – indica – e questa era la casa del mio amico. Questa era la moschea, anche quella è stata distrutta».

Linda Dorigo

eastwest.eu

* i nomi sono stati cambiati per motivi di sicurezza

Foto: REUTERS/Sertac Kayar