Kobane, la rivoluzione oltre il mito
«Quando siamo venute qui, un mese dopo la liberazione, era tutto distrutto», mi dice Patrizia Fiocchetti mentre il furgoncino su cui viaggiamo entra a Kobane. «C’erano macchine scagliate dalle esplosioni al terzo o quarto piano dei palazzi. Ma la gente aveva già iniziato a tornare e ricostruire. Ricordo un uomo, il proprietario di una ferramenta completamente distrutta che assieme ai suoi due figli piccoli frugava tra le macerie del suo negozio per raccogliere le viti, i chiudi e i bulloni sparsi in giro.»
Gli abitanti di questa cittadina di 40mila persone erano tornati appena finita la battaglia, varcando in massa il vicino confine turco e mettendosi all’opera per ricostruire la propria città. Potevano contare solo sull’aiuto fornito loro dalle amministrazioni rette dall’HDP (il Partito democratico dei popoli) nel Kurdistan settentrionale, cioè nella vicina Turchia. Da quando Erdogan le ha fatte commissariare e i loro co-sindaci sono stati arrestati anche quel sostegno è venuto meno.
Patrizia e Carla Centioni avevano varcato clandestinamente il confine turco per venire qui nel febbraio 2015. In quel momento il 48 per cento degli edifici di Kobane era completamente distrutto. Secondo i dati elencati nel «Report sulla situazione attuale a Kobane», diffuso nel marzo 2017 dall’Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia, dopo la cacciata dell’Isis dalla città di 4.284 case non restavano che cumuli di macerie, altre 5.864 erano state danneggiate in modo più o meno grave e solo 630 non avevano subito alcun danno. Tra le officine e i negozi quelli completamente distrutti erano 1.604, 2.182 quelli danneggiati e 1.882 quelli intatti.
Ora invece quella che intravediamo grazie alla luce dei lampioni che illuminano le vie avvolte nella notte è una città pressoché ricostruita, persino graziosa e più pulita di altri abitati che abbiamo trovato sulla lunga strada, quasi cinquecento chilometri, che ci ha portato dalla frontiera irachena a qui.
L’ultima zona della citta rimasta in mano a YPG e YPJ durante la battaglia del 2015 è diventata un «museo a cielo aperto»: viene conservata com’era il giorno della riconquista, mentre il resto della città è stato ricostruito.
Io faccio parte di una delegazione dell’associazione Docenti Senza Frontiere incaricata di documentare la costruzione di un convitto con spazi didattici che ospiterà gli orfani di Kobane, «L’arcobaleno di Alan», finanziato dalla Provincia Autonoma di Trento. Carla e Patrizia sono qui per inaugurare l’Accademia delle donne. Cioè un centro di formazione politica, culturale e lavorativa per le donne della città che sarà gestito dalla Kongreya Star, la confederazione delle organizzazioni femminili rivoluzionarie. Nonostante siano già le dieci di sera ci portano subito a vederla. È un grande edificio rettangolare di tre piani, costruito con la pietra bianca abbondante in questa zona. È stata finanziata con l’8 per mille della Tavola Valdese e dalla Provincia Autonoma di Bolzano. Arijn, la responsabile dell’accademia dice che la gente di qui chiama già l’Accademia «il castello delle donne».
L’Accademia delle donne, finanziata dalla Provincia autonoma di Bolzano e dalla Tavola valdese, nell’ambito del progetto «Ponte donna Kobane», sempre con il supporto dell’Ufficio informazioni del Kurdistan in Italia (UIKI).
A poche decine di metri dall’edificio il mezzo su cui viaggiamo viene fermato ad una rotonda da un gruppo di signore di mezz’età. Indossano gli abiti lunghi e i veli bianchi tradizionali delle donne curde. Sulle loro spalle portano ciascuna un kalashnikov. Fanno parte della Difesa sociale, i comitati di autodifesa delle comuni, le assemblee popolari di quartiere e di villaggio, mobilitati contro il rischio di attentati. Infatti è il 14 giugno, l’ultima notte di Ramadam, una notte di festa, uno dei momenti in cui i terroristi dell’Isis o di altri gruppi islamisti preferiscono colpire.
Per entrare in città abbiamo dovuto passare almeno una dozzina di posti di blocco, tra fissi e volanti. Ora per le vie vediamo donne e uomini, spesso di mezz’età, in abiti civili che vegliano con il fucile in spalla. Un controllo del territorio totale e partecipato.
Nessuno qui infatti ha dimenticato l’alba di sangue del 25 giugno 2015. L’Isis era stato cacciato sei mesi prima e Kobane stava tornando alla vita. Ma un centinaio di terroristi, con tre autobombe vennero lasciati entrare dal confine turco che costeggia da vicino la città. Iniziarono a sgozzare la gente sorpresa nel sonno e a sparare dagli edifici più alti, uccidendo più di 250 persone, tra cui 36 bambini, prima di essere eliminati.
L’allerta a Kobane non è isteria. Non sono i corpi militari, YPG e YPJ (le Unità di protezione popolare e le Unità di protezione delle donne) a fare i posti di blocco e a presidiare le aree urbane, a Kobane come in tutto il Rojava; bensì gli Asayish, cioè la polizia. La differenza potrebbe sembrare di lana caprina visto che qui i poliziotti (ma anche i vigili urbani, i membri dei comitati di autodifesa, nonché i custodi dei musei e dei siti archeologici) sono armati di mitra. In realtà si tratta di un’importante segnale di normalità, fa capire che non ci si trova più sulla linea del fronte ma in un luogo che si può iniziare a considerare in qualche modo “sicuro”. Nessuno qui credo capirebbe l’assurdo meccanismo mentale che spinge molti italiani a volere «l’esercito nelle piazze» in nome della «sicurezza».
Nei centri abitati del Rojava la presenza di YPG e YPJ in divisa è la più discreta possibile, di fatto li si vede solo nelle loro caserme. Un dato che sottolinea anche la reale indipendenza del potere civile da quello militare.
Anche le signore che ci fermano in questa notte a rischio attentati hanno i nervi a posto. Qui, a neanche un chilometro dalla frontiera di una potenza ostile, formalmente dentro i confini dello stato più pericoloso al mondo, sembrano rilassate. Portano i kalashnikov in spalla senza nessuna inutile ostentazione delle armi. Appena riconoscono Arjin sorridono. «Heval!», che vuol dire «compagna», ma anche «amica», dicono salutandola.
Poche strade più avanti la gente passeggia tranquillamente e in un locale addobbato con le bandiere di vari paesi del mondo un gruppo di ragazzi guarda le partite dei mondiali che sono iniziate oggi. Per tutta la notte, nonostante la presenza di centinaia di civili armati e l’elevato grado di allerta non sento risuonare un solo sparo. Evidentemente la “formazione teorica e militare” che i civili dei comitati di autodifesa ricevono da YPJ e YPG serve davvero a renderli capaci di dare il proprio contributo al controllo del territorio.
Nei giorni successivi oltre ad inaugurare l’accademia delle donne e a visitare L’arcobaleno di Alan incontriamo gli amministratori e l’associazionismo locale. In realtà tra le due cose non esiste una netta differenza. Le cariche pubbliche qui sono scelte tra elezioni pluri-partitiche ma il loro ruolo è molto diverso da quello a cui siamo abituati in Europa.
Innanzitutto gli eletti per ogni carica sono sempre due, un uomo e una donna, per questo si parla di co-sindaci o i co-presidenti dei cantoni (all’incirca le province italiane). Ma soprattutto non si tratta di figure a cui il meccanismo delega assicura un potere simile a quello dei loro omologhi europei, piuttosto di persone incaricate di coordinare un complesso reticolo di associazioni, assemblee e comitati il cui scopo è quello di far partecipare alle decisioni – e alla risoluzione dei problemi concreti – il maggior numero possibile di persone.
Come ci spiega il co-sindaco di Kobane, Fares Atti, la base del sistema di Autonomia democratica sono le comuni, ovvero le assemblee di quartiere o di villaggio, ciascuna delle quali ha un apposito comitato che si occupa di un determinato aspetto della vita collettiva. Se un problema va oltre la dimensione del quartiere allora ci si rivolge all’assemblea municipale, a cui partecipano i delegati delle diverse comuni. Anch’essa ha i suoi comitati che agiscono con il coordinamento dei co-sindaci eletti.
In ogni comune esiste un comitato delle donne che si riunisce una volta a settimana, ogni mese le delegate di questi comitati si riuniscono in un’assemblea municipale per trattare i problemi comuni e condividere le esperienze. Il protagonismo femminile alimenta anche una fitta rete di associazioni e movimenti che gestiscono anche pezzi di quello che in Europa chiameremmo welfare, attraverso l’assistenza agli orfani, alle donne vittime di violenza e alle famiglie bisognose. Secondo Hamed Hamo, co-presidente del coordinamento delle municipalità del Rojava, le amministrazioni di città e villaggi destinano il 10 per cento dei loro fondi proprio alle organizzazioni femminili.
Al di sopra delle municipalità vi sono i cantoni. Quello di Kobane contava prima della guerra circa 400mila abitanti, saliti a 550 mila con l’afflusso di profughi da altre zone della Siria prima dell’attacco dell’Isis e oggi, dopo il sanguinoso assedio ed altri quattro anni di guerra, scesi a 350 mila. Secondo Enwer Muslim, co-presidente del cantone di Kobane buona parte dei rifugiati in Turchia vi sarebbero trattenuti con la forza dall’impossibilità di tornare in Rojava. Di certo oggi il cantone di Kobane accoglie i profughi fuggiti da Afrin dopo l’invasione turca e jihadista, almeno 480 famiglie secondo la co-presidentessa Berivan Hassan. Si tratta di persone bisognose di tutto, anche di superare i traumi frutto di due mesi di bombardamenti turchi attraverso appositi seminari.
L’impressione è che tutto il meccanismo dell’Autonomia democratica, con le sue assemblee e la suddivisione di compiti al maggior numero possibile di persone, sia anche uno strumento collettivo per curare le ferite psicologiche di una società straziata dalla guerra.
Basta girare per le strade di Kobane per rendersi conto di come sia sostanzialmente una città di persone di mezz’età e di bambini, il cui numero lascia sorpreso un osservatore europeo. I giovani dai sedici ai trent’anni anni si incontrano raramente, solitamente sono in divisa nelle caserme di YPG e YPJ oppure riposano nelle circa 1.300 tombe del cimitero militare di Kobane. In ogni famiglia c’è almeno un caduto, e spesso più di uno. La co-presidentessa Berivan Hassan ha perduto per mano dell’Isis ben undici familiari, non le è rimasta che una sorella arruolata nelle YPJ.
È lei a dirci: – Abbiamo intrapreso una ricostruzione materiale ma anche una ricostruzione culturale ed etica della società. – Tutti gli amministratori con cui abbiamo parlato ritengono fondamentale creare un nuovo modello di essere umano, una nuova mentalità. La cosa è nella pratica molto meno ideologica di quanto si potrebbe pensare. Non si tratta di imparare a memoria gli scritti di Abdullah Ocalan o di disquisire su principi astratti ma di formarsi come amministratori o responsabili di un settore, di affrontare problemi immediati, di scambiarsi critiche e esperienze. Il sistema dell’Autonomia democratica attraverso il tentativo di coinvolgere più persone possibili nella gestione della cosa pubblica è forse il più grande esperimento di educazione permanente esistente al mondo.
Ma funziona? Riesce a migliorare le condizioni di vita delle persone?
A Kobane sono oggi in funzione 3 ospedali, 21 scuole (dalle elementari alle superiori) con oltre 11 mila studenti, un’università con 40 studenti, un cementificio, una fabbrica di mattoni e il mulino municipale con un nuovo panificio. Dalla liberazione della diga di Tishreen a fine 2015 tutta la città è rifornita di elettricità la cui distribuzione è sospesa solo nelle prime ore della mattina.
I servizi pubblici sono gratuiti e l’istruzione è obbligatoria sino ai 14 anni. Le responsabili delle assemblee delle scuole di Kobane, Dozghin Ali e Amira Mehyedin affermano che è rispettato nel 95 per cento dei casi. A tutti i popoli della Federazione è garantito il diritto di imparare la propria lingua e letteratura. Anche i cinquanta studenti arabi di Kobane hanno le proprie classi con programmi nella propria lingua. Le assemblee dei docenti ed i comitati che sovrintendono il sistema di istruzione sono unitarie, ovvero comprendono docenti di tutti i gruppi linguistici.
Un intero nuovo quartiere è in costruzione e sarà destinato alle famiglie che vivevano nei pochi isolati rimasti in mano a YPG e YPJ nelle fasi culminanti della battaglia, laddove si sono infranti gli attacchi delle orde dell’Isis. Si è deciso che quella parte della città rimanga com’era alla fine dei combattimenti per diventare un museo a cielo aperto.
Per la popolazione che vi abitava è stato costruito un nuovo quartiere che dovrebbe diventare la rappresentazione architettonica dei principi ecologici e umanisti del confederalismo democratico: un’area riservata al 60 per cento a giardini e aree verdi con al proprio interno 16 palazzine di quattro piani dotate di un asilo, negozi, scuole e una stazione di polizia. Oggi buona parte delle palazzine costruite con la pietra bianca locale sono ultimate e risultano davvero graziose. Il problema è che per avere acqua potabile gli abitanti devono prenderla dai pozzi perché non è ancora stato possibile allacciare le tubature per mancanza di macchinari e materiali necessari.
In tutta l’opera di ricostruzione le difficoltà sono enormi, principalmente a causa dello sforzo bellico e dell’embargo operato dalla Turchia e dal Kurdistan iracheno.
Negli ospedali mancano macchinari e medicine. Le scuole hanno dovuto essere ricostruite e gli insegnanti sono diventati tali dopo corsi di formazione accelerata nei mesi estivi a cui seguono corsi di aggiornamento pomeridiani continui. Oggi le classi hanno in media 35 studenti (subito dopo la cacciata dell’Isis si arrivava fino a 70) e in molte scuole, soprattutto nei villaggi, i bambini e le bambine delle elementari frequentano delle pluriclassi che raggruppano alunni di più anni.
Secondo la co-sindaca Roshan Abdi i problemi più grossi che deve affrontare oggi Kobane sono la mancanza di un sistema di smaltimento dei rifiuti e di una rete fognaria. Di quest’ultima è già stato fatto il progetto ma ne sono stati realizzati solo pochi chilometri perché mancano i macchinari per compiere gli scavi e i lavori nel sottosuolo necessari.
Quello della mancanza di scarichi fognari è forse il problema più sentito. Quando incontriamo il co-sindaco Fares Atti è appena tornato dalla visita ad una famiglia che ha avuto la casa allagata da un temporale la sera prima, cosa che qui accade abbastanza di frequente visto che manca una rete fognaria che consenta tra le altre cose di scolare l’acqua piovana. Si è trovato davanti una donna che gli ha mostrato in lacrime i mobili e le loro cose rovinate dall’allagamento.
«Io mi sentirò sempre insufficiente rispetto ai bisogni del mio popolo che ha resistito e che ha ricostruito la sua città», ci dice Atti. «Io e gli altri abbiamo imparato ad amministrare solo dopo esser stati eletti e soffriamo quando non riusciamo a risolvere i problemi della nostra gente».
Intanto la Turchia non si limita a colpire il Rojava con l’invasione di Afrin, l’embargo e la costruzione del muro lungo tutti i 600 chilometri della frontiera. Devia anche i fiumi utilizzando le acque per i propri impianti idroelettrici. Attraversando le vaste distese della Federazione si incontrano spesso canali e torrenti asciutti, gli agricoltori devono pompare l’acqua dalle falde sotterranee con l’impiego di pompe a motore. Ma nonostante questo l’impressione è che l’economia della zona stia tornando alla normalità. I campi, affidati alle comuni o a piccoli proprietari, sembrano essere meglio curati rispetto a quelli del Kurdistan iracheno (che si basa sul petrolio e importa quasi tutto dalla Turchia).
Nonostante la scarsità di acqua, i danni della guerra agli impianti di irrigazione e l’impiego di macchinari agricoli vecchi e insufficienti, nel 2017 il raccolto del Rojava è risultato superiore al fabbisogno di grano dell’intera Siria. Quello di quest’anno probabilmente sarà peggiore a causa del maltempo primaverile. Ma per quanto possa essere dura la vita dei quasi cinque milioni di persone che abitano la Federazione democratica della Siria del Nord tra loro non si vede neppure uno dei piccoli mendicanti che sono una costante del Kurdistan iracheno.
Tra mille difficoltà in Rojava a tutti e tutte è garantito il proprio pezzo di pane, la propria scuola, il proprio diritto di parola nelle assemblee e il kalashnikov necessario a difenderli.
I volti della rivoluzione
La rivoluzione del Rojava non è stata solo un momento di resistenza contro il fascismo islamista dell’Isis, ma anche la rivolta contro le pesanti discriminazioni a cui il regime di Assad sottoponeva i curdi. Per questo e per l’apporto di combattenti giunti dalle diverse parti del Kurdistan si può parlare di una rivoluzione curda.
Ma è anche una rivoluzione di tutti i popoli della Siria del Nord. Quest’ultima era una sorta di colonia interna sfruttata e abbandonata a vantaggio delle zone più ricche del paese. I campi del Rojava mantenevano l’intera Siria ma a Kobane il regime siriano non si è mai preso il disturbo di fare le fognature e le acque del vicino Eufrate erano destinate ad Aleppo. Chi voleva e poteva studiare in università doveva andarsene ad Aleppo o a Raqqa mentre persino i reperti archeologici prendevano la via dei musei di Damasco.
La scelta di non rivendicare l’indipendenza dalla Siria, ma l’autonomia democratica, scegliendo una prassi politica radicalmente opposta a quella di Barzani nel Kurdistan iracheno non è stata un espediente tattico ma è sorta dalla necessità vitale di tenere insieme il tessuto sociale di un luogo in cui curdi, assiri, armeni e arabi, cristiani e mussulmani vivono fianco a fianco e magari si sposano dando vita a famiglie miste. In questo senso la rivoluzione è profondamente siriana.
Ma soprattutto è una rivoluzione femminista. Il protagonismo delle donne di tutte le età è il motore dell’autonomia democratica. Un protagonismo capace di avviare un cambiamento profondo, visibile nei piccoli gesti: se in Rojava si entra in una stanza si dà la mano a tutti i presenti, uomini e donne, di qualunque religione. Una cosa inimmaginabile nel Kurdistan iracheno dove ho visto un’ impiegata con un velo striminzito appena appoggiato sulla nuca e i sandali con tacco 12 ritrarsi scandalizzata davanti alla mano tesa di uno dei docenti con cui viaggiavo.
Il grado di effettivo pluralismo politico è più difficile da valutare. Ammesso che quello che in Europa chiamiamo «pluralismo» sia davvero qualcosa di cui andar fieri, cosa di cui personalmente dubito molto.
L’1 dicembre 2017 in tutto il Rojava i consigli legislativi che amministrano i cantoni sono stati eletti nel corso di suffragi a cui ha preso parte il 69% degli aventi diritto. È risultata di gran lunga vincitrice, quasi al 90 per cento, la Lista di Solidarietà della Nazione Democratica. Si tratta di una coalizione di 18 tra partiti e movimenti, sia curdi che arabi, guidata dal PYD, il Partito dell’Unità Democratica, la forza motrice della rivoluzione che ha come proprio orizzonte teorico il confederalismo democratico teorizzato da Ocalan.
Gli amministratori che abbiamo incontrato appartengono ai vari partiti di questa vastissima coalizione, ma tutti e tutte si chiamano tra loro «Heval» o «Hevala», segno di appartenenza ad un impegno condiviso. Insomma siamo in presenza di qualcosa di simile al Comitato di Liberazione Nazionale che fondò la Prima Repubblica in Italia ma qui è fondamentale l’azione della base di massa del movimento che si esprime ed agisce attraverso comuni e comitati.
Gli eletti di minoranza nei consigli di cantone sono la Lista della Coalizione Nazionale Curda in Siria e varie liste indipendenti. Hanno invece invitato i propri sostenitori a boicottare le elezioni i nazionalisti curdi del KNC, il Consiglio Nazionale Curdo, affiliato al PDK, il Partito Democratico del Kurdistan di Masoud Barzani, che controlla il Kurdistan meridionale nel vicino Iraq.
Il KNC ha denunciato arresti dei propri leader e impedimenti alla propria azione politica da parte delle forze di sicurezza del Rojava. Per carità, in una rivoluzione in un paese travagliato da ormai sette anni di sanguinosa guerra civile può senza dubbio accadere che chi impugna il fucile possa commettere abusi di potere. Ma le denunce del KNC sarebbero più credibili se nei domini del loro ispiratore Barzani in Iraq non fosse sconsigliato parlare di politica nei luoghi pubblici o semplicemente pronunciare il nome «Rojava», cosa che ho visto con i miei occhi provocare un guizzo di paura e un repentino allontanamento da parte di un interlocutore curdo-iracheno. Ma soprattutto il regime di Barzani partecipa di fatto all’embargo deciso dalla Turchia contro la rivoluzione nella Siria settentrionale. Mi è un po’ difficile pensare ai sostenitori curdo-siriani di Barzani come a dei poveri democratici ingiustamente perseguitati dopo aver visto gli sbirri del loro leader rendere problematico persino l’ingresso di quaderni e matite colorate in Rojava, per non parlare delle difficoltà poste ai giornalisti.
Nella Federazione la libertà religiosa è in ogni caso garantita. Quando abbiamo chiesto di incontrare la comunità cristiana, considerata abbastanza vicina ad Assad, nessuno ci ha posto problemi. A Kobane le venti famiglie cristiane del luogo hanno la propria chiesa e la propria libreria. Preferiscano o meno Assad alla rivoluzione ci han tenuto a farci sapere che quello che temono di più è un’invasione turca come ad Afrin, da cui alcuni di loro hanno dovuto fuggire. Anche per questo hanno figli e figlie che si sono arruolati nelle YPG o nelle YPJ.
Per quanto riguarda l’informazione non si può parlare di controllo politico o di isolamento dal resto del mondo, per il semplice fatto che gli abitanti del Rojava non sono certo costretti a guardare Sterk Tv, l’unico rete locale, ma riescono benissimo a vedere i canali televisivi degli stati circostanti, compresi quelli turchi e curdo-iracheni, oltre che quelli dei grandi network arabi.
Ma il dato più importante a mio parere rimane l’alto numero di persone che viene coinvolto e lavora gratuitamente nei processi decisionali e amministrativi, nel quotidiano funzionamento dell’autonomia democratica. Tra queste persone moltissime sono donne per le quali la rivoluzione ha senza dubbio rappresentato un’occasione straordinaria di protagonismo.
Occorre specificare che qui la parità di genere non significa affatto una «rivoluzione sessuale» nel senso occidentale. Ma questo è un problema che si porranno le generazioni future, sempre ammesso che anche in quest’ambito non sia l’occidente a dover imparare qualcosa da questa pudica rivoluzione mediorientale.
Di certo qui si impara una cosa: non si fa una rivoluzione «per stare un po’ meglio» e neppure per cambiare un padrone con uno che si reputa un po’ migliore. La si fa perché una parte consistente di una società decide di prendere il proprio destino nelle proprie mani, di operare un’assunzione collettiva di responsabilità e quindi di partecipazione al potere.
In tutte le rivoluzioni c’è quel momento magico e terribile in cui tutto sembra possibile, in cui gli uomini e le donne sono molto più di sé stessi, in cui l’utopia, il sacrificio e la concretezza vanno di pari passo nell’alimentare il protagonismo collettivo. Finora tutte le rivoluzioni quel momento hanno deciso di sacrificarlo in nome di un qualche «fine ultimo»: la nazione, la democrazia liberale, il socialismo, il benessere o altro. La rivoluzione del Rojava è la prima a muoversi in un orizzonte teorico che fa proprio del protagonismo collettivo il fine ultimo. Per questo non ha bisogno di vittimismo, retorica o fughe in avanti verso un qualche tipo di miraggio escatologico. Non c’è l’illusione di poter raggiungere un luogo o un tempo in cui tutto andrà nel modo migliore per magia, ma una speranza concreta da costruire insieme e con fatica giorno per giorno.
Per questo alla rivoluzione sono vitali i ragazzi e le ragazze in mimetica quanto i tranquilli amministratori di mezz’età, e anche se non si può ancora lasciare il kalashnikov ci si preoccupa delle fognature.
di Tommaso Baldo*, wumingfoundation.com
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* Tommaso Baldo lavora nell’ambito della didattica della storia in un museo trentino, fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki e collabora con Global Project. Su Giap ha pubblicato l’analisi della voce di Wikipedia dedicata alla storia del Trentino. Nel giugno 2018 è stato a Kobane per seguire le fasi finali della costruzione dell’orfanotrofio «L’Arcobaleno di Alan», curato da Docenti Senza Frontiere, con il finanziamento della Provincia Autonoma di Trento.