Jineologia, la nuova scienza che libera le donne
Giorni fa era uscita la notizia che Dilar Dirik, ricercatrice in Sociologia all’università di Cambridge e attivista del Movimento delle Donne Curde, era a Roma per parlare, anche, di Jinealogia e Confederalismo: il femminismo oltre lo stato nazione.
Jinealogia? Mai sentita. Cos’è, un refuso? Perché anche a cercare su internet, sui dizionari, niente, Google continua a correggere la parola in “genealogia”, il termine in italiano non sembra proprio esistere, e nemmeno un analogo in inglese. Quando poi appare l’unica fonte italiana, tre righe su il manifesto, tutto era chiaro, ah, è una cosa che riguarda le donne, e come al solito non se ne sa niente:
“La Jinealogia è una nuova scienza delle donne (in curdo Jin significa donna) che smonta il concetto dell’homo oeconomicus (pilastro della razionalità economica occidentale) come attore dominante delle relazioni sociali”.
“E’ la rilettura della scienza, dei saperi e della storia” aveva detto Dilar, perché rivela la non naturalità del patriarcato (e tutto quello che ne è derivato) che è stato piuttosto in grado di spodestare le prime antiche società evolute, che erano di tipo matriarcale, e non attuavano le stesse divisioni sociali e di genere (superiore/inferiore) a cui tutti ci siamo abituati, da millenni, col governo degli uomini. “Oggi si inizia a insegnare nelle nostre accademie: una volta un uomo curdo si è alzato in piedi e ha detto di aver capito solo ora certi privilegi che dava per scontati e si sentiva male per tutte le cose orribili che aveva fatto alle sue donne più vicine, alla madre, alla sorella… noi crediamo che l’educazione è la più grande arma di autodifesa”.
È l’unico modo per avere una società virtuosa, cioè “educata correttamente alla morale politica, che libera dal bisogno di vivere sotto l’egida della coercizione o della legge”. Intendendo per morale non quella conforme, ma quella relativa al vivere pratico, che politicizzi la società conferendole cioè il ruolo che le compete: l’autonomia. “La naturale autonomia individuale è stata invece trasferita allo Stato che infatti decide autonomamente, non avendo di fatto alcun contraddittorio”.
L’autonomia è uno dei concetti fondamentali del Confederalismo Democratico proposto da Abdullah Ocalan: “viene affermata in ogni ambito e non significa appiattimento, ma spazio per ogni individualità. La cooperazione di più persone e competenze, per esempio, aiuta a raggiungere l’autonomia economica”.
“Da noi [nel Rojava, dove esso è vigente] si fanno assemblee in cui si decide in poco tempo quello che serve”. Dilar ci tiene a fare sempre esempi pratici: “è facile dire che non vogliamo qualcosa, più difficile è affermare ciò che si vuole al suo posto, e noi lo diciamo sempre. E se serve una strada, non lo lasciamo fare al governo che ci metterebbe 10 anni, queste assemblee prendono la decisione in un paio di giorni”. E ci sono le scuole dove si insegnano le origini del patriarcato, la Jinealogia e le lingue, che non sono definite “straniere”, ma sono quelle “del vicino”.
Dunque esiste nel mondo un approccio politico che dimostra non solo a parole, la volontà di far ripartire la politica dalla società, e non dalle alte sfere (Articolo 2: Il popolo è la fonte di autorità ed esercita la sovranità attraverso le istituzioni e le assemblee elettive). Quelle che noi chiameremmo le “assemblee municipali”, per poi arrivare, solo dopo, agli organi decisionali più centralizzati che non devono far altro che eseguire. In Italia il percorso politico sembra andare esattamente verso la direzione opposta: un sempre maggior accentramento di potere, dallo smantellamento delle Provincie al peso equivalente allo zero che hanno ormai anche i Comuni.
Noi, gli Europei ognuno col suo Stato, siamo abituati a delegare al “grande capo”, ma a guardar bene questa idea è totalmente illogica: chi meglio di noi, di chi vive in un determinato territorio, sa di cosa c’è bisogno? (Praticamente è l’idea della Lega+Movimento5Stelle meno il razzismo e l’incompetenza politica). “Dal soggetto giuridico senza alcuna identità specifica, si passa a un soggetto multidentitario che rifiuta la separazione tra Stato e società”.
“I rifugiati oggi sono trattati come statistiche dagli stessi che ieri formarono Stati arbitrariamente e ne sono quindi direttamente responsabili” – proprio quest’anno decorre un secolo dagli accordi segreti di Sykes-Picot tra Regno Unito e Francia, che guardavano alla Siria e all’Iraq come sfere di influenza nel Medio Oriente in seguito alla sconfitta dell’impero ottomano nella prima guerra mondiale. E oggi non sono i soli Paesi incandescenti per via di ideologie da Stato (di influenza) al servizio di Stati più stabili e più ricchi. Vedi la Libia (raccontata in un nostro articolo) divisa dal resto dell’Africa deserta con un righello, dove di mezzo, stavolta, c’è anche l’interesse dell’Italia.
Dilar sembra fiduciosa, è già tanto far conoscere una nuova realtà e “non è necessario un gran linguaggio se la battaglia è naturale”. Ma sotto Daesh le donne sono ancora rapite, violentate, vendute…
Che cosa possiamo fare? Se si smontano i ruoli, se le donne che vogliono rapire imbracciano i fucili, le prospettive si ribaltano e perfino quell’antica mitologia che descriveva donne (e Dee) alla guida degli uomini, sembra tornare alla realtà – “la mia generazione è cresciuta considerando le donne combattenti un elemento naturale della nostra identità” e così quelle della YPJ (Unità di Difesa delle Donne) “non fanno paura al Daesh perché sono armate, ma perché mettono in crisi i ruoli di potere come loro li concepiscono”.
In mezzo a questo grande caos che sembra rimettere il mondo in un equilibrio davvero precario, “la sola cosa assennata che potrebbe essere fatta, è distruggere la pericolosa super struttura del patriarcato industriale e capitalistico che oggi governa il mondo, e creare coalizioni umane piccole. In un modello di vita materialmente più semplice vi è la possibilità dell’educazione a una nuova “cultura” di mutua attenzione e assistenza, e con un forte senso etico dell’interazione e della relazione con la natura” diceva nel 2004 la studiosa di società matriarcali, Heide Goettner Abendroth.
Verso la fine del XIX secolo fu scoperta una serie di tavolette di pietra di provenienza sumera. Alcune davano notizia di proteste popolari contro un carico fiscale opprimente, onnipresente e crescente. Una parola di queste tavolette, resa con amagi, è considerata il primo riferimento al concetto di libertà in una lingua scritta. Amagi significa letteralmente “ritorno alla madre“.
Verso la fine del XIX secolo fu scoperta una serie di tavolette di pietra di provenienza sumera. Alcune davano notizia di proteste popolari contro un carico fiscale opprimente, onnipresente e crescente. Una parola di queste tavolette, resa con amagi, è considerata il primo riferimento al concetto di libertà in una lingua scritta. Amagi significa letteralmente “ritorno alla madre“. I Sumeri furono il primo popolo a sperimentare la società patriarcale e schiavile.
Ma a guardar bene, tutto questo già si vede in tante nuove scelte che hanno il sapore di “antico”, nel senso di originario e umano: dalla riscossa dell’agricoltura biologica all’allontanamento dall’idea degli allevamenti intensivi, dal vegetarianesimo alle fonti rinnovabili, dagli orti urbani ai diritti riconosciuti agli animali, dalla sharing economy alle nuove forme di baratto digitale, dal crowdfunding all’attivismo online… tutto oggi, anche se tecnologico e innovativo, spinge al “ritorno alla madre”.
La divisione degli Stati, lo sfruttamento incontrollato del capitalismo, i tentativi perpetui di controllare o attaccare i vicini e, soprattutto, l’abbattimento del 50% dell’energia fattiva della popolazione, quella delle donne, un tempo abituate a governare, è un progetto umano oggi chiaramente fallito.
Ma è proprio così che dalla liberazione delle donne si arriverà a tutto il resto. C’è uno striscione su Kobane che recita: “si sconfiggeranno gli attacchi del Daesh soltanto grazie alla liberazione delle donne in Medioriente”. Ed è solo l’inizio.
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