Isis, quella guerra delle donne curde ecco perché è molto più di un’avventura
Da quando le donne curde del Rojava (il Kurdistan siriano) in mimetica e kalashnikov in spalla hanno fatto irruzione sui media, sono diventate il simbolo della strenua resistenza del popolo curdo all’offensiva dello Stato islamico (Is) in Siria e in Iraq. Sono osannate come le paladine della libertà contro l’oscurantismo e la brutalità dei jihadisti, particolarmente spietati e vigliacchi con le “infedeli” che incontrano sulla propria strada, considerate un bottino di guerra da vendere nei bazar della schiavitù o da distribuire tra i miliziani. Le combattenti curde hanno persino ispirato (loro malgrado) una linea d’abbigliamento di un noto marchio svedese (H&M). Cosa che le ha fatte indignare e arrabbiare. Ma tutta questa attenzione, che nelle ultime settimane si è concentrata sull’assedio della città siriana di Kobane, sotto l’attacco jihadista da luglio, ha un sapore quasi sensazionalistico -“L’Is teme le curde”- e si concentra sugli elementi superficiali di una lotta, quella del popolo curdo e delle sue donne, che viene da lontano, che riguarda la sopravvivenza di una comunità, e del suo progetto politico, che vive in un territorio complesso e che ha una storia travagliata.
Ancora una volta, le donne sono state ridotte al loro corpo, ad affascinanti amazzoni disposte al sacrificio estremo pur di non cadere nelle grinfie dei predoni jihadisti (ha fatto notizia il suicidio della 19enne Ceylan Ozalp, definita “kamikaze” per essersi sparata pur di non cadere nelle mani dell’Is). Ma nelle teste e nei cuori delle curde c’è una visione della società basata su un progetto di emancipazione politica davvero innovativo e per molti aspetti rivoluzionario, se si considera il contesto patriarcale in cui si sviluppa e l’anticapitalismo di cui è intriso, e che affonda le sue radici anche nell’ideologia del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, considerato da Stati Uniti e Unione europea una formazione terroristica, proprio come lo Stato islamico.
Da tre anni nel Rojava combattono le Unità di Difesa del Popolo (YPG) e le Forze di Difesa delle Donne (YPJ), bracci armati del Comitato supremo curdo (l’organismo di governo del Kurdistan siriano), legate al partito fondato da Abdullah Ocalan. Combattono non soltanto per respingere l’avanzata jihadista, ma anche per far sopravvivere un sistema di regioni autonome democratiche (i cantoni di Kobane, Afrin e Cizre), basato sulla Carta del Rojava. Un testo che parla di autonomia regionale, di democrazia partecipativa praticata attraverso i consigli popolari, di confederazione democratica, di inclusione delle diverse etnie della regione (curdi, arabi, assiri, caldei, turcomanni, armeni, ceceni), di autogoverno (ai cui istituti partecipano alla pari uomini e donne), di libertà, di uguaglianza, di dignità, di giustizia, di ecologia. Principi che si tenta di applicare, tra mille difficoltà e contraddizioni, nel Rojava e che stonano all’interno di un Medio Oriente scosso dalla furia dell’oltranzismo confessionale ed etnico. Aspetti spesso tralasciati, se non volutamente ignorati, per fare spazio all’immagine (riduttiva e più comoda) della bella guerrigliera curda, che ha preso il posto della altrettanto comoda immagine della donna vittima, abusata e venduta.
L’attacco jihadista a Kobane spiega anche questo. È un attacco a un sistema alternativo, agli antipodi rispetto al progetto egemonico dello Stato islamico foraggiato dagli Stati ultraconservatori del Golfo (Arabia Saudita in testa). E che non piace neanche alla vicina Turchia (che dispone dell’esercito Nato più potente della regione), rimasta immobile davanti al massacro per timore di un risveglio delle ambizioni indipendentiste dei circa 15 milioni di curdi che vivono nel Paese, nonostante la svolta anti-nazionalista del Pkk. Ankara ha lasciato passare dalle sue frontiere decine di volontari della jihad intenzionati a unirsi all’Is, ma ha sbarrato la strada ai volontari curdi che volevano unirsi alla resistenza di Kobane. Questa alternativa, anticapitalista, è guardata con sospetto anche dalle potenze occidentali coinvolte nel conflitto, che in effetti le hanno offerto solo un timido sostegno. In fin dei conti, che piaccia o meno, spiega Dilar Dirik, attivista curda ricercatrice all’Università di Cambridge e qualche giorno fa ospite della Casa internazionale delle donne a Roma, la resistenza del Rojava affonda le sue radici anche nel Pkk, un’organizzazione “terroristica” (il cui leader è detenuto nell’isola-prigione turca di İmralı) e all’inizio marxista-leninista, quindi comunista.
“Kobane potrebbe modificare il corso della storia. È una battaglia cruciale che va oltre l’Is. L’intero sistema del Rojava offre una prospettiva nuova alla popolazione e lo fa proprio nel mezzo di un conflitto orribile, che sta costando troppe vite”. Per Dirik l’alternativa proposta dai curdi sfida lo status quo, in particolare per il ruolo centrale assunto dalle donne. “Le donne curde che hanno preso le armi, simboli tradizionali del potere maschile – continua l’attivista – sfidano l’ideologia dell’Is. Non rappresentano una minaccia per la loro capacità bellica, ma per il potere trasformativo del loro progetto di emancipazione politica e sociale. Vogliono cambiare la società e vogliono essere incluse. Queste donne lottano per la propria esistenza e per il proprio futuro, e la loro lotta è una sfida all’ordine sociale e alla mentalità patriarcale. Per questa va sostenuta seriamente, è più efficace dei bombardamenti Usa contro l’Is”.
L’attenzione che di recente si è concentrata su queste combattenti non è accompagnata da un sostegno reale anche per Nursel Kılıç, membro della rappresentanza internazionale del movimento delle donne curde (Kjk). “Dobbiamo chiarire che il movimento delle donne curde ha una lunga esperienza di lotta, è nato attraverso la lotta del Movimento nazionale curdo e ha sempre goduto di autonomia decisionale all’interno del Movimento per la Liberazione del Kurdistan. Adesso le combattenti dell’Ypg appaiono sui giornali nella loro bellezza, ma di loro si mostra soltanto questo. Da anni combattono contro i gruppi jihadisti e contro altre fazioni armate in Siria, ma la comunità internazionale si è svegliata soltanto ora. Eppure i curdi, e le curde, stanno affrontando il gruppo terroristico più forte al mondo in questo momento”.
È dunque meglio parlare delle guerrigliere curde che di un sistema, quello del Rojava, che fa paura, continua Nursel Kılıç: “Stato islamico, Turchia e comunità internazionale sono contrari al sistema chiamato autonomia democratica del Kurdistan siriano. Per loro, ostacola la dominazione della regione”. Un’area, quella mediorientale, su cui si giocano gli interessi di diverse potenze regionali e internazionali nella cui agenda non paiono avere posto né modelli di governo alternativi né la questione femminile.
di Sonia Grieco
Reset-Dialogues on Civilizations
CORREZIONE di web uiki: Invece di Ceylan Ozalp dovrebbe essere ARIN MIRKAN!