Il «ritiro» di Trump sulla pelle dei combattenti curdi del Rojava
Quando il gioco si fa duro – politicamente serio – Trump se ne va da Siria e Afghanistan mollando al loro destino gli alleati curdi e il fragile governo di Kabul, assediato da talebani e affiliati dell’Isis. La sua è una modesta realpolitik: caricare la doppietta a salve sperando che riportare le truppe a casa e l’isolazionismo siano carte buone per vincere un secondo mandato.
Sullo sfondo però non c’è la fine dei conflitti nel Medio Oriente allargato ma loro prosecuzione con la «privatizzazione» delle guerre attraverso i “contractors”, cioè i mercenari: era già accaduto in Iraq dopo il ritiro Usa nel 2011 e avviene già oggi in Siria e nella ex roccaforte del Califfato a Raqqa.
L’obiettivo in Siria, oltre a vendere i Patriot a Erdogan, è riportare la Turchia nell’alveo della Nato, senza per altro riuscire a staccarla da Mosca e da Teheran (l’altro ieri Erdogan ha incontrato Rohani ad Ankara). In Afghanistan, dopo 17 anni di guerra, torna in gioco il Pakistan, che sostenne negli anni’90 l’ascesa dell’Emirato del Mullah Omar e proteggeva il fondatore di Al Qaeda, Osama bin Laden. Gli Stati Uniti, dopo essere stati ai ferri corti sia con Ankara che con Islamabad, al punto di imporre sanzioni finanziarie, tornano a puntare sui vecchi alleati ma a spese di coloro che il jihadismo lo hanno combattuto davvero.
I SOVRANISTI americani sono tra i principali traditori dei curdi, sia oggi come in passato. Ma non tradiscono soltanto loro: la Federazione della Siria del Nord, il Rojava, è uno dei pochi esperimenti, sia pure assai complicato, di convivenza tra curdi e arabi, oltre che rappresentare il tentativo di insediare in Medio Oriente un modello di governo locale laico, democratico e di sinistra che punta all’emancipazione delle donne e delle minoranze.
L’Occidente così rinuncia a fare l’Occidente: la Francia di Macron, insieme agli Usa nella coalizione anti-Isis, vorrebbe proteggere i curdi ma l’Europa resta sotto il ricatto, ben pagato dall’Unione, di Erdogan sui profughi siriani mentre Donald Trump ha pure la sfacciataggine di dichiarare vittoria, emulando i suoi predecessori, tra i quali Obama che nel 2011 lasciò l’Iraq al suo destino.
Dopo avere dato alla Turchia via libera nel cantone di Afrin, con il consenso della Russia di Vladimir Putin, adesso sui curdi siriani si rovescerà addosso l’apparato militare e l’aviazione di Erdogan che ha l’obiettivo di controllare 600 chilometri di confine con un’ampia «fascia di sicurezza» dentro al territorio siriano.
Non è un’amara novità: i curdi sono stati traditi con regolarità dai loro alleati a ogni tornante della storia.
Il primo a illuderli, in epoca contemporanea, fu il segretario di stato Henry Kissinger che negli anni Settanta incoraggiò la ribellione dei curdi iracheni perché allora Baghdad si opponeva a un accordo sulle frontiere con l’Iran dello Shah Reza Palhevi, alleato di ferro di Washington e investito del ruolo di guardiano del Golfo.
QUANDO L’IRAQ, proprio con Saddam Hussein, allora vicepresidente, firmò l’intesa di Algeri nel 1975 sul confine dello Shatt el Arab, gli americani abbandonarono i curdi al loro destino. Non servivano più.
Una replica ci fu nel 1988 quando Saddam lanciò i gas contro i curdi uccidendo nell’area di Halabja almeno cinquemila persone. Nessuno disse nulla perché il raìs iracheno combatteva con il sostegno dell’Occidente e delle monarchie del Golfo contro la repubblica islamica dell’Imam Khomeini.
Lo stesso accadde negli anni Novanta. Dopo la guerra del Golfo del 1991 per la riconquista del Kuwait invaso dagli iracheni, il presidente Usa George Bush senior lanciò un appello ai curdi e agli sciiti affinchè si sollevassero contro il dittatore. Ma anche allora i curdi, così come le popolazioni del Sud, vennero massacrati.
Il destino dei curdi, oltre venti milioni divisi tra Turchia, Ira, Siria e Iran, è sempre stato in bilico e mai è stata attuata la promessa di uno stato curdo, previsto con lo smembramento dell’Impero ottomano dal tratto di Sèvres del 1920 e cancellato tre anni dopo da quello di Losanna per la strenua opposizione di Kemal Ataturk.
NELL’ANATOLIA del Sud Est _ coì Ankara chiama il Kurdistan _ i turchi si sono sempre opposti a ogni forma di autogoverno e la reazione negli anni Ottanta è stata la guerriglia e il terrorismo del Pkk di Abdullah Ocalan. Quando nel febbraio 2015 fu raggiunto un accordo di pacificazione tra il Pkk e Ankara il primo a violarlo è stato proprio Erdogan che nell’estate di quell’anno, dopo avere subito una battuta d’arresto elettorale con l’entrata in parlamento, per la prima volta, del partito curdo Hdp, lanciò una pesante offensiva contro i curdi distruggendo intere città e villaggi.
Più realisticamente i curdi siriani si sono posti come obiettivo di avere una loro regione autonoma nel Rojava. Questa autonomia se la sono guadagnata sul campo combattendo strenuamente da Kobane in poi contro l’Isis. Qui in Occidente sono stati acclamati come eroi e gli americani si sono serviti dei curdi siriani per combattere il Califfato fino a espugnare Raqqa, la capitale di Abu Baqr al Baghadi. Ma adesso Trump sceglie il terrorismo di stato di Ankara a coloro che hanno combattuto un duello mortale contro i jihadisti.
di Alberto Negri,Il Manifesto