Il racconto di Zero Calcare: «Io nell’inferno di Kobane»
di Daniela Paba – Il fumettista a Marina Café Noir ha parlato del suo reportage disegnato. La testimonianza di Ezel Alcu sulla battaglia delle donne curde per la libertà
Ci sono laboratori di socialità alternativa e creatività che vantano una storia: la storia dei centri sociali. Ci sono, tra le montagne turche, laboratori di democrazia dove le donne curde, armate di kalashnikov, combattono l’Isis; peccato che la cattiva coscienza dell’Occidente le rubrica come un fenomeno esotico da “magazine”.
Raccolta tra il Giardino sotto le mura e il Terrapieno, la comunità di lettori di Marina Café Noir, segue i Chourmo che, come pifferai magici, portano il pubblico tra i punk e i guerriglieri del PKK. D’altra parte Zerocalcare a Kobane c’è stato e ha scritto il reportage a fumetti “Kobane calling”. Perciò dal palco di “Sakiné e le altre” dice che quello che raccontano «È tutto vero».
Quanto peso hanno i centri sociali nel panorama artistico alternativo italiano dicono sul palco del festival Marco Philopat, Franszisko e Zerocalcare, tre testimoni per un arco generazionale che attraversa la storia politica del nostro paese, dagli anni Settanta a oggi.
«I centri sociali risalgono ai primi del Novecento, nascono come luoghi di socialità, dove la classe operaia sperimenta forme di libertà e organizzazione – ha ricordato Philopat – Nel Sessantotto cominciano le occupazioni a Milano: la prima è l’Hotel Commercio in Piazza Fontana. Ci arrivano gli studenti fuori sede ma ci sono anche molti artisti». «A Roma il movimento dei centri sociali si diffonde come un virus dai reduci del ’77 – spiega Franszisku – c’era un misto di retorica e ragionamenti politici, ricerca di nuove forme di vita e di relazioni».
Colpisce al cuore l’ironia di Zerocalcare: «Io non ho memoria lunga, do la mia definizione scolastica: sono spazi vuoti, sottratti all’abbandono e resi alla comunità. Ma questa definizione è anche la mia esperienza personale: anziché stare fuori dalla metro a fare nulla, siamo cresciuti tra stimoli, film, eventi autogestiti in modo diverso».
Dal palazzo seicentesco di Santa Marta dove circolavano Demetrio Stratos, Camerini, Tondelli, Primo Moroni, i giovani punk che fondano il Virus, Cox18 e il Leoncavallo, gli ospiti del festival descrivono una geografia di occupazioni: «Avevamo 18 anni, eravamo punk e disinvolti, vedevamo davanti a noi le praterie della creatività. Un anno dopo l’apertura al Virus arrivava tutto il punk italiano, poi quello europeo e quindi da tutto il mondo i gruppi venivano a suonare per sostenerci» racconta Philopat.
«All’inizio una parte del movimento pensava che i punk fossero fascisti – ricorda Franszisku – Non si suonava per la ricerca di un profitto ma per il piacere di farlo. È il valore di scambio contro il valore d’uso». Dalle battaglie antiproibizioniste, la Pantera dell’89, l’uso sociale delle nuove tecnologie, l’hip hop, il Rap e le Posse, ma anche l’attore Elio Germano, i Wu Ming, il cantante Vasco Brondi, la pittrice Arianna Veiro e Zerocalcare, Marco Philopat rivendica un asse di creatività che continua: «unico baluardo di dignità». Sull’altro palco, a parlare di guerra di liberazione delle donne curde salgono Ezel Alcu e Tiziana del Pra, nel nome di Sakine Cinsiz, fondatrice del PKK, uccisa un anno fa a Parigi. «Per noi Sakiné è stata una madre, una leader, anche se il termine non mi piace. Prima di lei le donne erano serve, dopo di lei mia madre può dire a mio padre “portami l’acqua». Ezel Alcu ha occhi grandi e lunghi capelli legati da un foulard colorato. E’ stata incarcerata tre volte, la prima a 13 anni, perché attivista, è condannata all’ergastolo in Turchia: «La nostra lotta, non lontana da quelle femministe, è una battaglia dentro la Rivoluzione. Quando siamo salite in montagna abbiamo rinunciato al nostro destino e abbiamo imbracciato le armi. Abbiamo organizzato assalti con una nostra tattica e nostre strategie. Agli uomini che ci volevano utilizzare in cucina abbiamo detto: siete umani, potete cucinare voi’».
Una “rivoluzione mentale” la definisce Alcu che fonda accademie dove si sperimentano pratiche di uguaglianza tra i sessi, dove il corpo femminile non fa paura, dove interi villaggi sono gestiti dalle donne. Più che uno stato-nazione i curdi sognano una nazione fatta di tante bandiere, lingue e religioni, senza un governo: come un giardino pieno di fiori. «A 13 anni mi hanno definito terrorista, poi ho capito che i governi fascisti chiamano i partigiani “terroristi”. Non stiamo combattendo per morire o uccidere ma perché siamo state costrette. A Kobane come a Rojave combattiamo contro i carri armati che l’Italia vende ai miliziani. La nostra lotta ha 40 anni e non quattro, ma nessuno la vuole vedere. Le donne curde ritratte in mimetica ispirano gli stilisti per le collezioni ma vivere in divisa non è bello, siamo sporche e puzziamo. Per l’Occidente il PKK è un partito di terroristi che va bene se combatte l’ISI; ma dal PKK sono nate le donne di Rojave».
La Nuova Sardegna Gelocal