Il quadro siriano, al momento
Medio Oriente a una svolta. Ma in quali direzioni?
Bruscamente il quadro della guerra mediorientale si è messo in movimento nel suo complesso. Le linee di tendenza risultano però incerte, per la quantità degli attori in campo, i loro specifici obiettivi, i loro mutamenti di posizione, la fragilità dei loro schieramenti. Né è una guerra i cui contendenti dispongano di obiettivi riguardanti i soli riassetti mediorientali. L’unica cosa che emerge con una certa chiarezza è la più o meno prossima sconfitta militare della fazione fondamentalista sunnita più feroce e incivile: Daesh. Per il resto sarà tutto da vedere.
La possibilità stessa di una buona e completa informazione sui fatti risulta opacizzata o alterata dalle attuali massicce campagne massmediatiche statunitensi, determinate anche dalle esigenze elettorali del Partito Democratico, in parte intese a confondere, producendo flussi di irrazionalità nelle popolazioni occidentali, il fallimento nel teatro sisriano delle confusionarie e contraddittorie azioni a guida statunitense e, soprattutto, la tendenziale vittoria militare della Russia e dei suoi alleati.
Non che i mezzi a cui stanno ricorrendo la Russia e il regime baathista siriano non siano barbarici, odiosi e, dunque inaccettabili. Ma altro non sono che i mezzi attuali delle guerre, anche perché sono in genere guerre civili, cioè guerre nelle quali ogni regressione antropologica, morale e civile si scatena. Sono, infatti, anche i mezzi usati ad Aleppo dalle formazioni ostili al regime baathista stipendiate e protette dagli Stati Uniti. Sono state queste formazioni a bombardare la colonna di aiuti alimentari e medicinali che doveva soccorrere anche la parte di Aleppo (quella orientale) da esse controllata. E a bombardare ogni giorno con lanciarazzi e mortai statunitensi la parte di Aleppo (quella occidentale) controllata dal regime baathista, con tanto di stragi di civili. Ma, poi, altro non sono che i mezzi usati dagli Stati Uniti dalla guerra al Vietnam in avanti; guardando solo a quelle più recenti, i civili assassinati dalle bombe e dalle truppe degli Stati Uniti assommano in Afghanistan a oltre 30 mila e quelli nella seconda guerra irachena a oltre 130 mila (sono queste le cifre ufficiali prodotte dall’ONU).
E’ cominciato l’attacco a Mosul da parte irachena, appoggiato dall’aviazione degli Stati Uniti e della Francia. Le truppe irachene dovranno combattere contro i miliziani di Daesh casa per casa; questi miliziani si barricheranno dietro a ostaggi civili e ne useranno le case, inoltre si trincereranno in ospedali e scuole. Sono curioso di vedere come verranno giustificate le perdite di vite civili a opera dei bombardamenti statunitensi e francesi, e come esse verranno raccontate (e, al tempo stesso, censurate) dai mass-media occidentali..
Una catastrofe la cui inaudita durata è responsabilità delle velleità statunitensi
Conviene cominciare, per fare massima chiarezza, con i comportamenti sistematicamente insensati e irresponsabili degli Stati Uniti: sono stati questi comportamenti a porsi come “fattore” fondamentale di una guerra che dura in Siria da cinque anni, e che poteva chiudersi in un anno.
Le “primavere arabe” impegnarono anche la Siria; a un’ondata di manifestazioni pacifiche di giovani, donne, operai, organizzazioni sociali non legate a un brutale regime baathista seguì da parte di questo regime una feroce repressione; e la conseguente diserzione di pezzi delle forze armate aprì la guerra civile. Rapidamente fu chiaro come sarebbe finita, se lasciata a se stante: con la vittoria in tempi brevi del regime. Il regime baathista siriano è guidato da figure della minoranza religiosa alevita (sciita, grosso modo), oppressiva nei confronti di larga parte della maggioranza sunnita; però è anche un regime laico ed è tutore delle altre minoranze siriane, che temono il radicalismo sunnita. Ma quell’esito sarà reso impossibile dall’intervento degli Stati Uniti e dei suoi (a quel momento) stretti sodali locali, Arabia Saudita, Turchia, Qatar, Emirati Arabi Uniti, tutti stati in mano sunnita: ciascuno dei quali si ingegnò a creare milizie fondamentaliste armate, da al-Qaeda/al-Nusra (al-Nusra è la costola siriana di al-Qaeda) a una quantità imprecisabile di milizie locali o etniche più o meno associate tra loro e ad al-Nusra, a cui poi seguirà Daesh (l’Arabia Saudita operò in questo senso secondo consolidata tradizione: la totalità dei movimenti fondamentalisti sunniti, dai tagliagole operanti a suo tempo in Algeria a quei talebani afgani il cui primo impegno fu contro il potere dei militari comunisti appoggiati dall’Unione Sovietica, sono stati creati, finanziati e armati dal potere saudita, o da qualche scheggia della megafamiglia reale, oltre seimila individui, che possiedono la totalità del potere economico, politico e militare). Gli obiettivi politici e militari degli Stati Uniti furono dunque simultaneamente due in Siria, assolutamente ardui da mediare per la natura dei loro alleati: il rovesciamento del regime baathista ergo, esattamente, la liquidazione del potere della famiglia Assad; la distruzione di al-Qaeda, autrice dell’attentato a New York alle Torri Gemelle, cui si aggiungerà, costola scissionista di al-Qaeda, Daesh.
Ma avere a bersaglio anche il regime baathista, aiutarne gli avversari armati, crearne di propri, ecc., significava esattamente dimezzare lo sforzo militare complessivo contro al-Qaeda e Daesh. I gruppi armati creati, armati, ecc. dagli Stati Uniti non poterono fare altro, pena la loro distruzione, che cooperare con il fondamentalismo sunnita armato, in particolare con al-Qaeda. Sono stati questi fatti, unitamente alla decisione di non impegnare proprie truppe di terra, alcune centinaia di specialisti a parte, ad avere allungato a dismisura i tempi della guerra in Siria (e di rimbalzo in Iraq); e con ciò moltiplicato a mille le vittime civili, le distruzioni di centri abitati e infrastrutture, le fughe di povera gente disperata verso gli altri paesi del Medio Oriente e verso l’Europa.
Ma che altro aspettarsi? L’irresponsabilità statunitense non ha solo base politica ma è prima di tutto, per così dire, strutturale, ontologica. Il suo primo tipo, quello più coattivo, riguarda il DNA dell’insieme dei loro poteri: che fa sì che la forma normale e consueta di intervento statunitense in presenza di una crisi che tenda a impegnare interessi considerati strategici, per una ragione o per l’altra, direttamente o indirettamente, sia l’intervento militare, diretto o indiretto. D’altra parte a subire i danni maggiori sono le popolazioni nelle quali l’intervento avviene, data la strapotenza degli Stati Uniti: non è la loro popolazione. Inoltre è “ontologico” anche un secondo tipo di irresponsabilità statunitense, quella che vuole che la NATO vada tenuta in piedi a ogni costo, prema obbligatoriamente su Cina e Russia, spii tutto il pianeta, essendo essa necessaria all’egemonia planetaria statunitense, soprattutto in quanto essa è declinante; e lo stesso vale per le alleanze militari con paesi esterni alla NATO, anche se si chiamano Arabia Saudita. Infine è tale un terzo tipo di irresponsabilità statunitense, quella che afferma la sacralità del business, dentro al quale il commercio mondiale delle armi è, se non il primo, il secondo (e che vede nell’Arabia Saudita lo stato al primo posto mondiale nell’acquisto di armi, soprattutto statunitensi e francesi, e la Turchia altro mercato fondamentale, in quanto secondo paese della NATO quanto a forza militare).
Arabia Saudita e Turchia hanno dunque teso sempre più a giocare in proprio
Il disinteresse sostanziale degli Stati Uniti, durante le presidenze Obama, nei confronti degli andamenti mediorientali (prosieguo a parte dell’invenzione di una questione iraniana ovvero di una possibile bomba atomica iraniana a portata di mano), nell’illusione che di tali andamenti potessero efficacemente occuparsi gli alleati europei, cioè, sostanzialmente, Francia e Gran Bretagna, dovrà gradatamente rovesciarsi in partecipazione statunitense decisiva, pur entro i limiti accennati, data l’inconsistenza anche sul piano militare degli alleati (già d’altra parte certificata dal disastro libico). Ma nel frattempo alcuni buoi importanti erano usciti dalla stalla: cioè Arabia Saudita e Turchia, un po’ anche il Qatar, si erano messi in proprio, sia nella definizione degli obiettivi della propria partecipazione alla guerra (non solo nel teatro siriano ma anche in quello iracheno e, per quanto riguarda l’Arabia Saudita, anche in quello yemenita): agendo così esse pure nel senso del prolungamento della guerra, inoltre delle sue complicazioni.
La guerra, anzi, dal punto di vista turco e saudita avrebbe dovuto durare il più possibile, in modo da potersi impadronire, direttamente o indirettamemente, di territori siriani e iracheni (la Turchia) oppure (l’Arabia Saudita) in modo da controllare meglio i vari stati minori della penisola arabica, travagliati da richieste elementari di civiltà da parte delle popolazioni nonché dall’attivismo sciita, particolarmente forte (cioè ben armato) nello Yemen. La popolazione dello Yemen sarà così oggetto di bombardamenti indiscriminati da parte saudita e degli Emirati Arabi Uniti, senza che gli Stati Uniti avessero fin quasi a oggi qualcosa da dire. Tra parentesi: nello Yemen non ci sono gli houthi (sciiti) in guerra contro i sunniti: c’è un’alleanza di partiti cui partecipano houthi e sunniti contro una fazione sunnita, legata all’Arabia Saudita, autrice di un tentativo di colpo di stato. Questa guerra è prima di tutto parte del più generale tentativo di questo paese, in mano a una delle più retrive sette sunnite, di contenimento dell’influenza nella regione dell’Iran sciita. Un paese, questo, che gli Stati Uniti oggi considerano quello più affidabile politicamente nella guerra in Siria e in Iraq ai fondamentalismi sunniti armati: ma che è considerato avversario guardando al teatro yemenita, perché di pertinenza dell’alleato saudita: sempre a proposito di insensatezze.
E sempre a proposito di insensatezze, più recentemente gli Stati Uniti hanno sostanzialmente scaricato i curdi siriani del PYD, a cui avevano affidato la presa militare della capitale di Daesh in Siria, Raqqa: avendo gli Stati Uniti improvvisamente consentito alla Turchia, non solo di continuare a bombardare con la propria artiglieria il Rojava, ma anche di impedirne la continuità territoriale, entrando con truppe nel territorio siriano tra il cantone di Afrin e quello di Kobanê. E, ovviamente, i combattenti curdi si sono fermati.
D’altra parte, non è il PYD dei curdi siriani fratello gemello del “terrorista” PKK curdo turco? E non sono ambedue nell’elenco delle organizzazioni terroriste stilato dagli Stati Uniti all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle, e subito fatto proprio dall’Unione Europea?
Al successo dell’intervento militare russo in Siria hanno corrisposto reazioni statunitensi ormai pericolosissime
Ciò che ha completamente scombinato il quadro siriano è stata, in tutta evidenza, l’entrata in campo della Russia: determinata a sostenere il regime baathista e a fare fuori il fondamentalismo sunnita armato nel suo complesso, e anche le sue succursali non fondamentaliste. Il poderoso dispiegamento di mezzi militari da parte russa e il sostegno al regime baathista hanno infatti completamente cambiato le prospettive della guerra in Siria; da infinita come stava accadendo è passata alla possibilità della sconfitta delle forze fondamentaliste sunnite in tempi relativamente brevi.
Ma ciò ha aperto due enormi problemi agli Stati Uniti. Il primo è consistito nella reazione della Turchia, che si è riconciliata con la Russia e che ha trovato così in essa un interlocutore politico-strategico decisivo. Il secondo problema è che la guerra, fatto intollerabile dato il DNA dei poteri statunitensi, la sta vincendo la Russia. Le possibilità statunitensi dinanzi all’intervento russo erano (sulla carta) due: o tentare il pareggio, o alzare il tiro polemico nei confronti della Russia, rilanciando la rivendicazione della dipartita obbligatoria di Assad (che era stata duttilmente semirisolta in precedenti trattative russo-statunitensi). Però il pareggio significava armare più adeguatamente i curdi siriani e fornire loro garanzie molto solide di protezione dalla Turchia. I curdi avrebbero preso Raqqa, e con essa la parte orientale della Siria, mentre la sua parte occidentale sarebbe stata riconquistata tutta dal regime baathista appoggiato da Russia e Iran. Si sarebbe poi potuto trattare alla pari tra Stati Uniti e Russia sulle sorti generali della Siria ecc. Ma a questo punto nel ragionamento statunitense è entrata prepotentemente e irresistibilmente la preoccupazione circa la possibilità di tenere ferme alleanze diventate molto fragili, prima di tutto quella con la Turchia. E’ per questo che alla Turchia è stato concesso di entrare in territorio siriano ecc.; è per questo che i curdi siriani hanno interrotto i preparativi dell’attacco su Raqqa; ed è per questo che Russia e regime baathista siriano hanno intensificato le azioni militari, su Aleppo in specie, data cioè la preoccupazione di qualche ulteriore pensata statunitense, inoltre intendendo approfittare della difficoltà di una presidenza statunitense, al termine del mandato, di intrapresa di decisioni di periodo. In conclusione, la partita Russia-Stati Uniti risulta oggi, quasi alla fine del secondo tempo, sul due a zero.
Ma c’è di ben peggio: il riciclaggio statunitense di una Turchia che a sua volta sta riciclando Daesh
Ma l’elemento più disastroso, da tutti i punti di vista, delle concessioni statunitensi alla Turchia è stato ciò che la Turchia ha dato in cambio agli Stati Uniti: l’ordine alla parte siriana di Daesh (obbedito da buona parte di essa) di applicare il proprio sforzo solo contro il regime baathista, la Russia e i loro alleati sciiti (e analogamente si è mossa l’Arabia Saudita: che sta riciclando al-Qaeda/al-Nusra, orientandola a concentrare essa pure il suo sforzo militare contro i medesimi nemici). L’organicità del legame tra Arabia Saudita e l’intera pletora dei gruppi fondamentalisti sunniti armati è cosa fondamentalmente nota. Per quanto riguarda il rapporto cooperativo tra Turchia e Daesh, esiste ormai una pletora di prove, considerate tuttavia “insufficienti” da parte statunitense e, va da sé, europea. Ma quel che nel frattempo si è fatto evidente è che il rapporto Turchia-Daesh non consiste solo nel transito di miliziani legati a Daesh verso la Siria attraverso la Turchia, negli ospedali per Daesh in Turchia, nell’uso di Daesh da parte dell’intelligence turca sul terreno delle stragi che hanno colpito a suo tempo le manifestazioni elettorali del partito curdo turco legale HDP, le manifestazioni di giovani pacifisti, ecc.; ciò che si è fatto evidente, ormai, cioè risulta comprovato, consiste anche nell’integrazione totale tra potere turco attuale (in particolare, tra il clan Erdoĝan) e Daesh, nell’organicità del loro rapporto militare sul terreno siriano ( come mostra, per esempio, il fatto che il capo attuale dell’intelligence turca, strettissimo sodale di Erdoĝan, risulta tra i capi di Daesh). In che cosa esattamente consiste il riciclaggio da parte turca di Daesh: la sua ritirata senza combattere dinanzi alle avanzate turche in Siria, ma soprattutto la sua riorganizzazione sotto altri nomi, spesso mediata dalla sua integrazione con gruppi fondamentalisti locali o con milizie organicamente legate alla Turchia, per esempio turcomanne. Analoga cosa sta avvenendo, in modo ancor più netto ed evidente, da parte saudita sul versante di al-Nusra/al-Qaeda. Al-Nusra ha cambiato nome: e, guarda caso, non è più bombardata dagli Stati Uniti, i quali anzi opinano che ciò basti ad associarla alle trattative sul futuro della Siria. In breve, ciò che emerge è che agli alleati curdi gli Stati Uniti stanno sostituendo pezzi di Daesh vestiti da soldati turchi e pezzi di al-Nusra vestiti da soldati sauditi. D’altra parte, il precedente tentativo statunitense di portare i gruppi a loro legati e da loro armati a separarsi militarmente da Daesh e da al-Nusra e a scontrarsi con queste organizzazioni (tra l’altro questo era stato un impegno preso dagli Stati Uniti con la Russia) era miseramente franato.
Gli Stati Uniti hanno perso o pareggiato in questo lungo dopoguerra tutte le guerre direttamente intraprese, salvo quella contro Grenada: ma non hanno ancora imparato la lezione, quanto meno nella sua interezza. Insomma non ci stanno, la guerra in Siria, a perderla, e si agitano. Ed ecco le minacce anche militari alla Russia (tale sarebbe un attacco informatico su vasta scala), il recente bombardamento su truppe siriane (tutt’altro che un incidente casuale), l’interruzione delle discussioni e della cooperazione militare con la Russia, la campagna massmediatica antirussa in corso, lo spostamento di truppe della NATO sui confini russi, la richiesta agli alleati europei di nuove sanzioni economiche alla Russia (a cui hanno immediatamente consentito Francia, Gran Bretagna, Germania: ma almeno per ora stoppate dalla Commissione Europea).
In questo momento la Turchia sta guardando molto all’Iraq
Ho accennato in scritti precedenti come la Turchia di Erdoĝan guardi con molta voracità assai più alle possibilità di espansione territoriale, diretta o indiretta, che le vengono offerte dal versante iracheno della guerra. Beninteso, dato il guazzabuglio politico e militare attuale in Medio Oriente, da parte turca si guarda e si agisce politicamente in più direzioni, onde disporre della possibilità, quali che vengano a essere le future circostanze, di portare a casa risultati più o meno significativi. La Siria da questo punto di vista è tutto sommato, in ogni caso, un teatro secondario, nel quale la partita è quella che ha, soprattutto, l’obiettivo della distruzione dell’entità politica curda siriana, o, quanto meno, la sua ghettizzazione territoriale. E’ vero che nella parte nord-orientale della Siria c’è petrolio, ma ci sono anche i curdi armati del PYD.
Soprattutto, è vero che di petrolio nel nord dell’Iraq ce n’è molto di più; inoltre è vero che in questa parte dell’Iraq le condizioni per la Turchia risultano molto più favorevoli. Intanto la metà confinante con la Turchia del semistato curdo iracheno (la parte del suo territorio guidata dal Partito Democratico di Mas’ud Barzani) è da lungo tempo una succursale politica della Turchia (Mas’ud Barzani è in affari da sempre con i poteri turchi); e in questa parte di questo semistato stanziano truppe turche, in possesso anche di un aeroporto, che il governo turco rifiuta di ritirare, nonstante le proteste del governo iracheno e le disposizioni al riguardo dell’ONU. In secondo luogo, la città di Mosul non solo è controllata da Daesh, quindi è, non sembra improbabile, a potenziale disposizione della Turchia, ma essa e la sua zona sono abitate da una quantità di gruppi etnici tra i quali alcuni legati storicamente alla Turchia, e che sono dotati di loro milizie. E’ vero che c’è un’intesa militare in questo momento tra i governanti, Barzani compreso, del semistato curdo iracheno e il governo iracheno, quindi che le relative truppe agiranno assieme nella battaglia per la presa di Mosul, ed è ovvio che l’intesa comprenda l’esclusione di truppe turche da questa battaglia: ma né di Barzani, come ben sanno i curdi di Siria e Turchia, c’è da fidarsi, e ancor meno c’è da fidarsi di Erdoĝan. In breve, sono in realtà in campo tutte le premesse non solo di un intervento militare turco su Mosul, con il pretesto (già dichiarato) di prossime difficoltà militari irachene, ma anche tutte le premesse perché una conseguente occupazione o semi-occupazione turca di Mosul rimanga, magari con il pretesto della protezione di un governo filoturco messo su in quattro e quattr’otto. Parallelamente potrebbe venire rafforzato il contingente turco in territorio curdo iracheno, con la connivenza di Barzani, a cui questi potrebbe far seguire una dichiarazione di indipendenza dall’Iraq del semistato curdo iracheno, o, quanto meno, una dichiarazione di indipendenza della sua metà direttamente governata dal PDK di Barzani.
Un sistema di poteri, quello statunitense, ormai frantumato e oscillante anche in senso avventurista
All’incoerenza, all’insensatezza e alla pericolosità della azioni statunitensi fanno in tutta evidenza da accompagnamento sia continue oscillazioni della presidenza Obama, sia la diversità delle posizioni del Pentagono (dei comandi militari) rispetto a quelle del Dipartimento di Stato (il ministero degli esteri) nonché dei servizi di intelligence. Non solo: ciascuno di questi poteri appare disomogeneo al proprio interno. Non solo: ciascun pezzo pare oggi giocare abbastanza liberamente una sua partita. Il recente bombardamento statunitense di truppe siriane con ogni probabilità non è avvenuto per ordine della presidenza o del Dipartimento di Stato, ma di un qualche comando militare certamente sì. Poi il Dipartimento di Stato l’ha giustificato come “incidente” e si è scusato, ma la frittata era stata fatta: la Russia si era definitivamente convinta dell’inaffidabilità degli Stati Uniti, e aveva così messo il piede sull’acceleratore dei bombardamenti su Aleppo. Anche l’improvviso capovolgimento delle relazioni tra Russia e Turchia riflette questi fatti: per la Russia era diventato fondamentale che non le si chiudesse attorno il cerchio delle alleanze statunitensi in Medio Oriente e in Europa.
L’inferocimento in corso dei comportamenti statunitensi verso la Russia è in parte anche teatro, a uso e consumo di un’opinione pubblica interna più disorientata che mai nonché della campagna elettorale del Partito Democratico. Si tratta, drammatizzando la situazione internazionale, di evitare che l’elettorato statunitense ragioni troppo sui rapporti lobbistici di Hillary Clinton. Ma di analoga fattura sono molti comportamenti russi. E’ molto probabile che la Russia sia implicata nella faccenda degli hacker che continuano a snocciolare documenti riservati o compromettenti soprattutto figure dell’establishment democratico nonché le malefatte dei servizi. D’altra parte non si tratta che della duplicazione russa di ciò che gli Stati Uniti fanno da sempre, spiando anche capi di governi alleati, controllando le comunicazioni telefoniche e informatiche di tutto il mondo, spiando i progetti riservati dell’Unione Europea in tema di politiche industriali, insomma c’è di tutto. Lo spostamento di truppe russe verso i confini russi con l’Europa, i bombardieri russi che rasentano le coste europee non sono che la duplicazione russa di ciò che gli Stati Uniti fanno in tutto il mondo da sempre.
C’è solo da sperare che la componente teatrale di questo scontro tra Russia e Stati Uniti sia consistente, in modo che, cessata per esempio l’emergenza elettorale statunitense, riprendano le loro trattative. Qualche segnale che sembra poter preludere a tale ripresa si vede: la Russia ha dichiarato una tregua dei bombardamenti suoi e del regime baathista su Aleppo; la Commissione Europea ha apprezzato il gesto. Speriamo che ciò regga, e riesca a svilupparsi. Non si sottovaluti tuttavia il fatto che la situazione che si è creata è molto pericolosa.
Luigi Vinci,
Milano, 18 ottobre 2016