“Il mio kalashnikov sono i libri, i miei proiettili le parole”
Viaggio in Siria (Rojava) in un’università “illegale”, dove si studia e si cerca il futuro, mentre i cantieri ricostruiscono quello che ha devastato la guerra «La conoscenza, la cultura, sono le basi per una società libera. Visto che quello che stiamo cercando di costruire è proprio questo, una società democratica, è indispensabile che ognuno di noi dia il suo contributo. Io lo faccio mettendo a disposizione la mia esperienza e le mie conoscenze, altri lo fanno combattendo. Il mio kalashnikov sono i libri, i miei proiettili le parole contenute in ogni frase in essi stampata». Siamo all’Università di Qamishlo, il professore Said Rahmati, il nome è di fantasia e tra poco si capirà perché, viene dall’Iran, dalla regione del Kurdistan, che così si può chiamare grazie al compromesso raggiunto all’inizio della rivoluzione iraniana, nel 1978. Questo accordo consente di vivere in pace, più o meno si intende, a quei circa due milioni di curdi che sono in Iran che però hanno l’obbligo, si semplifica si intende, di non rivendicare autonomia o altri diritti. Non tutti però sono d’accordo e quanto sta accadendo in Rojava, nel nord della Siria, è diventato polo d’attrazione per tutti i curdi che invece ambiscono ad avere una propria realtà autonoma. Per questo il professor Said Rahmati facendo questa scelta sa che mai più potrà ritornare dove è nato, dalla sua famiglia, in Iran, perché quello che ha fatto è per Teheran illegale. Per questo usiamo un nome di fantasia, perché anche i suoi cari corrono comunque dei rischi per via di questa scelta. Non dimentichiamo che in Iran c’è ancora la pena di morte e che in galera si finisce anche per molto meno. Quello del professore è alto tradimento per la legge iraniana, non è certo uno scherzo.
Come lui, sono tanti i docenti che hanno fatto la stessa scelta con le medesime conseguenze. Se vale per lui che arriva dall’Iran, figuriamoci per chi giunge dalla Turchia o dalla stessa Siria, da zone fuori dalla Rojava si intende. L’Università di Qamishlo è un edificio molto grande, circondata da un grande giardino. Se non fosse che sappiamo dove siamo, sembrerebbe un campus come tanti. Sulle panchine ragazze che chiacchierano, giovani che studiano e c’è perfino una coppia che amoreggia. Tutto normale quindi, a parte il fatto che il Governo centrale di Damasco la reputa illegale e non la riconosce. Per i circa mille e quattrocento iscritti sono tanti i corsi di laurea attivi e altrettante le relazioni che si sono create con atenei di tutto il mondo, tra cui la Sapienza di Roma e diverse università statunitensi. Proprio dall’università romana si sono attivati dei corsi, che si tengono ancora adesso online. Quello di seguire le lezioni in remoto è un fatto che ha coinvolto anche gli studenti di qui durante il picco più alto di pandemia. Anche in Rojava infatti c’è stato il lockdown ma a nessuno è venuto in mente di gridare al regime, visto che al contrario che in altri Paesi dove evidentemente chi sbraita di questo lo fa un po’ a caso, chi studia e lavora qui sa perfettamente di cosa si parla quando si usa quel termine.
Fuori dall’Università la vita scorre come sempre in questa parte di mondo. Tantissimi cantieri, le case e le città hanno subito vere e proprie devastazioni e c’è tantissimo da fare col rischio che poi ci si ritrovi a dover rifare, ma tant’è. Spessissimo manca l’elettricità, stesso discorso vale per l’acqua, per le medicine e per tutto quello di essenziale che si può immaginare. Le strade però nonostante tutto brulicano di persone, il traffico è molto intenso ma ci sono tutti molto abituati quindi nessuno si spazientisce. Qui la preoccupazione vera e che la situazione possa nuovamente degenerare dal punto di vista del conflitto. E’ come se gli attori in campo, sono tanti tra russi, turchi, americani e miliziani e mercenari di ogni dove, si stiano osservando da lontano aspettando il momento buono per sferrare il colpo decisivo.
Attacchi e scontri ce ne sono tutti giorni ma sono concentrati in certe specifiche zone, soprattutto nel nord ovest. Questo non vuol dire che la situazione non sia grave anche perché se da una parte si vive una calma apparente, dall’altra c’è chi vive ogni giorno col terrore che la prossima casa ad essere bombardata sia la propria. E così non è certo un bel vivere e per questo sono ancora moltissimi che scelgono di abbandonare le loro case e i loro villaggi. «In Europa dovreste capire che il problema non sono i rifugiati, i migranti, come li chiamate voi. Il problema sono i regimi, i dittatori», dice sorridendo una giovanissima combattente Ypj che ci fa da scorta. Come darle torto.