Facciamo il pane per Kobane
Nella zona est di Londra un gruppo di donne curde porta avanti una raccolta fondi per i combattenti e i profughi curdi
LONDRA.”Immagina di vedere un incendio con fiamme altissime in lontananza, e tu hai solo una piccola tazza rotta per provare a spegnerlo. Molta dell’acqua che trasporterai cadrà mentre corri verso il fuoco, ma quell’unica goccia che sarai riuscita a portare sarà il segno di un cambiamento.”
Oya, una donna curda minuta sulla cinquantina crede e pratica la sorellanza. Insieme a Cennet, Fatma, Fakrye e a tante altre donne, in maggioranza curde ma anche di altre nazionalità, lavora senza sosta da giorni per preparare decine di pacchetti di yufka, il pane tradizionale da vendere ad amici e conoscenti. Lo scopo è raccogliere soldi per aiutare i curdi che stanno combattendo a Kobane e per fornire tende, vestiti e cibo ai tantissimi profughi accampati in varie zone del Kurdistan.
“Vogliamo raccogliere contributi ma abbiamo pensato di farlo donando noi qualcosa in cambio. Crediamo sia il modo giusto per creare un legame tra le persone e le comunità”, spiega Oya. Un mese fa, hanno iniziato con i dolci tipici, preparando migliaia di colazioni. Sono riuscite a raccogliere 15.000 sterline e il marito di Oya è andato personalmente al confine tra Kurdistan e Turchia con il denaro raccolto per comprare materiali necessari da portare al campo profughi. È stato via più di un mese e da quando è tornato non è più lo stesso. “Sono molto preoccupata per lui.
Sta male, non fa altro che piangere.” Troppo a contatto con l’orrore che a noi arriva dagli schermi. “Prendono le donne, le stuprano e le vendono per pochi dollari. Molte le uccidono e così i bambini. Ci sono tanti orfani che scappano da soli, a piedi. Quello che sta succedendo è davvero incredibile.” Oya chiede scusa per gli occhi gonfi di lacrime e la voce che trema.
Si ferma solo pochi istanti e continua: “Non sto organizzando questa campagna solo perché sono curda, ma perché sono una donna. Potrei esserci io al posto quelle che combattono, tra quelle stuprate e vendute, potrei vedere io morire i miei figli in guerra o catturati dai miliziani. Per questo siamo qui dalla mattina alla sera senza sosta, felici di dare una mano e certe che il nostro lavoro possa dare un aiuto concreto a chi adesso è in difficoltà.”
Da Kobane è questo che chiedono le donne. Solo pochi giorni fa la combattente Meysa Abdo, conosciuta con il nome di battaglia Narin Afrinal ha scritto una lettera al New York Times chiedendo alle donne di tutto il mondo di mobilitarsi e al tempo stesso deunciando l’aiuto inefficace dei governi occidentali e l’ostilità della Turchia. Di fatto, la politica internazionale, nonostante i proclami, si stia girando dall’altra parte. “Mi chiedi se l’America e l’Europa stiano facendo qualcosa per i curdi.
Ti rispondo che non lo so”, dice Oya. E questa sensazione di totale abbandono dei curdi al loro destino non è solo un’opinione sua o di Meysa Abdo. E’ il settimane tedesco Der SPiegel di questa settimana a titolare “Soli contro il terrore”, alludendo proprio alla mancanza di aiuti al popolo curdo e sono inquietanti i resoconti che arrivano dalle zone in guerra: armi vecchie e inutilizzabili mandate dagli USA, frontiere chiuse in Turchia, appoggio segreto e subdolo ai miliziani.
Perchè sarà pure un paradosso, ma sembra che a fare più paura dell’ISIS sia il modo di vivereLondra rivoluzionario che da alcuni anni è stato sperimentato nelle regioni autonome del Kurdistan siriano. Un modo di vivere che minaccia sia la Tuchia che i miliziani dello Stato Islamico perchè, attraverso l’autogoverno e il coinvolgimento di uomini e donne, i curdi che vivono nella regione della Rojava stanno letteralmente minando le basi del patriarcato e del capitalismo.
Una società, quella della Rojava e di altre regioni curde, che comprende al suo interno, senza appiattirle, tante diversità etniche e religiose ispirandosi al principio di “plurinazionalità”, e che si fonda sulla partecipazione al governo e alla gestione delle comunità di donne e uomini in egual misura. Le donne in prima linea anche al fronte, “scoperte” dalla stampa occidentale solo negli ultimi mesi, pur combattendo per l’indipendenza curda da molto tempo. Celebrate come icone glamour mentre rischiano la vita, hanno ispirato fiumi di parole e sentimenti di ammirazione, più per il loro aspetto che per gli ideali per cui lottano.
Di questo ha scritto più volte Dilar Dirik, attivista curda e dottoranda all’Università di Cambridge, che studia proprio il protagonismo delle donne nei movimenti di resistenza curda. “I media focalizzano l’attenzione su queste donne perchè sfidano la nozione preconcetta di donne orientali come vittime oppresse, ma così vengono presentate erroneamente come un fenomeno da romanzo. Si tende a sminuire una lotta legittima proiettando su di loro bizzarre fantasie orientaliste e semplificando eccessivamente le ragioni che motivano le donne curde a unirsi alla lotta. Sembra sia più efficace rappresentare le donne come nemici dell’ISIS senza sollevare domande circa le loro ideologie e i loro obiettivi politici. Chi si interessa delle donne combattenti dovrebbe invece cominciare a supportare attivamente la resistenza di Kobane, fare pressione sulla comunità internazionale affinchè il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) venga rimosso dalle liste dei gruppi terroristici e per il riconoscimento ufficiale del governo autonomo del Kurdistan siriano.”
Donne che combattono per la propria libertà, con un’idea di difesa non solo del territorio ma delle idee che stanno alla base del loro vivere insieme,secondo un modello di piena democrazia partecipativa. E queste donne curde residenti a Londra che hanno deciso di attivarsi per Kobane hanno dentro di sè la stessa voglia di lottare per quello in cui credono. Come Fatma che ha perso un figlio, militante del PKK. Non parla inglese ma per comunicare il suo pensiero alza le dita in segno di vittoria gridando “Free Kurdistan, free all women!”. Il desiderio di libertà che va oltre l’esperienza personale, oltre il dolore per un figlio morto, e che si manifesta con gesti semplici come maneggiare tutto il giorno farina e mattarello, spatole per girare il pane sul forno tondo e acqua da spruzzare perchè resti morbido.
Non si sentono in alcun modo delle donne speciali e hanno deciso di fidarsi e parlare con una giovane donna occidentale chiedendo però di non apparire come singole protagoniste ma per quello che sono. “Abbiamo detto di no ad alcuni giornalisti che volevano riprenderci, dice Oya, perchè questo non è uno show e non facciamo parte di una organizzazione. Siamo un gruppo informale di donne, amiche e conoscenti che insieme sta facendo qualcosa per altre donne”.
Hanno scelto di fare il pane perchè “in tutte le culture questo alimento è considerato sacro e lo yufka è un pane tradizionale, che si prepara con amici e vicini di casa. Le famiglie si aiutano e soprattutto le donne trascorrono molte ore insieme a prepararlo.” La parola giusta che Oya cerca per spiegare questo concetto è kutsal che in turco significa sacro. Pur trattandosi di un gruppo eterogeneo, formato da donne atee, musulmane e cristiane per tutte il pane è un simbolo della sacralità della loro cultura tradizionale.
Oya racconta dei tanti uomini che hanno donato cifre consisitenti e che le appoggiano. Il marito, il figlio Ozal, che ha chiuso il suo bar nella zona est di Londra per metterlo a disposizione della madre e delle altre donne che qui si incontrano da due settimane tutti i giorni, ma anche sconosciuti, come un anziano signore che qualche giorno fa è entrato a curiosare mentre loro lavoravano. Nella cultura curda alle persone anziane si bacia la mano in segno di rispetto ma quando hanno iniziato a parlare, Oya si è scusata con l’uomo perché preferiva non baciargli la mano perchè influenzata. “Lui mi ha risposto che non dovevo preoccuparmi e che era lui che doveva baciare la mia e quella di tutte le donne che preparavano il pane. E così ha fatto.”
Alcune di loro, sabato primo novembre, saranno a Trafalgar Square a Londra durante la giornata globale di azione per Kobanê e per l’umanità (a Roma con incontro alle 15.30 a Piazzale Esquilino). Nella sua lettera Meysa Abdo ha scritto “Ci aspettiamo che le donne di tutto il mondo ci aiutino, perchè qui noi stiamo combattendo per i diritti di tutte le donne. Non ci aspettiamo che vengano a combattere (anche se sarebbe bello se qualcuna lo facesse). Chiediamo però alle donne di promuovere la nostra causa per aumentare la consapevolezza di quello che accade qui e per fare pressione sui loro governi affinchè ci aiutino.” Chissà se le donne occidentali parteciperanno numerose alla manifestazione, ascoltando il richiamo che viene da Kobane. Oya spera di sì perchè crede fermamente nel potere delle donne. Incrocia le mani una nell’altra, a formare un incastro perfetto e molto solido. “Vicine, forti, instancabili. Sono così le donne quando lottano insieme.”
Di SILVIA VACCARO 31 Ottobre 2014