Elezioni Turchia, la delusione del popolo curdo “Con Erdogan per noi non c’è più un futuro”
Il trionfo dell’Akp del premier lascia poche speranze alla minoranza che abita il Kurdistan e che alle precedenti votazioni aveva ottenuto un ottimo risultato, oggi pesantemente ridimensionato. “Vogliamo solo la pace, ma che sia vera pace per tutti
Non c’è futuro per la Turchia dopo questo risultato», ripetono nella notte di Diyarbakir dalla sede dell’Hdp, il partito-promessa di Selahattin Demirtaş uscito stremato dal voto del primo novembre: «Ma smettere di sperare sarebbe inutile. Perché avremmo partecipato alle elezioni se non credessimo nel dialogo?». Cercano di dare coraggio, rassicurazioni, un po’ di luce. Ma fuori è buio pesto, e proprio qui, davanti alla sede, scoppiano scontri fra polizia e manifestanti alla fine dei conteggi. Una fiammata breve ma violenta: pietre, fuoco, lacrimogeni. E attesa.
L’esito delle elezioni politiche, visto dalla capitale del Kurdistan turco, è una coperta di delusione e paura. Visto da Ankara, è un successo chiaro e stabile affidato nelle mani dell’Akp, il partito del presidente Tayyip Erdoğan, che voleva il governo di un solo partito e l’ha ottenuto. Con il 49,4 per cento di voti (9 punti in più rispetto a giugno) e 316 deputati, Ahmet Davutoğlu potrà timonare insieme al suo superiore senza bisogno di imbarazzanti coalizioni; partnership d’altronde subito rifiutate all’uscita dei risultati del 7 giugno, quando l’Akp scese sotto il 41 per cento. E quando per la prima volta nella storia un partito filocurdo, l’Hdp, riuscì a ad entrare in aula col 13 per cento di sì.
Scontri tra polizia e manifestanti curdi sono in corso a Diyarbakir, principale città curda del sud-est della Turchia, dopo i primi risultati del voto di oggi che indicano il trionfo di Erdogan. Ci sono stati incendi e barricate nelle strade, dove la polizia avrebbe sparato gas lacrimogeni. Scontri anche a Nusaybin, sempre nel sud del paese, dove un negozio è stato dato alle fiamme e 20 persone sono rimaste ferite
L’entusiasmo di allora si è perso presto, però, mutato in lutto da mesi insanguinati da una falange di attentati mirati a seminare la paura contro il movimento capace di portare le istanze curde in Parlamento. Le stragi di Ankara, oltre 100 morti durante una manifestazione per la pace, e di Suruç, 33 vittime, entrambe attribuite a terroristi del Daesh, ma inserite in una strategia della tensione concentrata contro il partito filocurdo che non è stata opera solo del Califfato. Ci sono stati gli ordigni contro le sedi del movimento e la campagna militare voluta da Ankara nei villaggi del Sud del Kurdistan; gli arresti, i coprifuoco, i bombardamenti. Con la reazione armata per autodifesa di cittadine e quartieri da parte di giovani miliziani vicini al Pkk. Il bilancio complessivo conta 253 morti tra la popolazione, di cui 33 bambini. Sono numeri da guerra.
Ed è a questa guerra – sferrata in casa e senza comunicati ufficiali – che ora l’Hdp attribuisce la diminuzione dei voti, rimasti comunque superiori al 10 per cento necessario per eleggere rappresentanti in Parlamento. Mentre l’Akp di Erdogan è cresciuto raccogliendo parte dei consensi della destra radicale, convincendo gli elettori più preoccupati per il rischio che gli scontri portassero a una “sirianizzazione” della nazione. «Non abbiamo fatto campagna elettorale. Abbiamo solo cercato di salvare la nostra gente dai massacri», ha dichiarato il leader del partito filocurdo Demirtas. «Ci hanno obbligato a rimanere sulla difensiva, non abbiamo potuto portare avanti i contenuti del nostro programma», ribadiscono i suoi sostenitori dalla notte di Ahmed, il nome curdo di Diyarbakir: «Lo dimostra il calo che abbiamo avuto a Istanbul».
La nuova rivoluzione dell’Hdp aveva infatti sul Bosforo il suo ponte oltre le regioni dove è forte la presenza curda: lì erano diventati una bandiera di democrazia per tutti i turchi. Fra la gioventù di Gezi Park e i liberali quarantenni, i blogger anti censura e le associazioni per i diritti civili, il partito di Demirtas appariva come la buona sponda per dare una scossa alla Turchia sempre più islamica e conservatrice del presidente Erdogan. «Le donne, i movimenti Lgbt, i giovani, gli operai, si sono rispecchiati nella rivoluzione culturale che abbiamo avviato», spiega Edip Berk, deputato dell’Hdp: «Non abbiamo forzato il nostro messaggio, che resta la questione curda. Ma dimostrato che partendo dalle sofferenze dei curdi possiamo capire e riscattare le voci che il governo vuole mettere a tacere. Proponendo nuovi modelli».
Questo coro di libertà si è spento nelle elezioni di ieri. Il voto pro-Hdp si è concentrato di nuovo tutto qui, nel suo nido geografico, il Kurdistan. Fra le montagne di arenaria e i villaggi di guerriglieri per generazioni, fra le scritte sui muri per la libertà di “Apo” Abdullah Öcalan, il fondatore del Pkk, e i martiri di Kobane, gli unici che in Siria sono riusciti a sconfiggere sul campo il Califfato. È in questo bacino profondo che Demirtas e la sua co-presidente donna hanno preso, ancora, percentuali da plebiscito. Ma è anche qui che adesso il partito-solo-al-comando di Erdogan fa ancora più paura. E soffia su una situazione incandescente per animare il caos. «Noi vogliamo solo la pace. Io voglio solo la pace per la mia famiglia, non ne possiamo più di dormire tremando, di dover stare chiuse in casa per via del coprifuoco e delle operazioni di polizia», racconta una donna circondata da bambini fuori da una abitazione crivellata di proiettili del Sur, quartiere storico di Diyarbakir segnato dagli scontri delle scorse settimane: «Ma dev’essere la pace di tutti. Non la pace alle condizioni di Erdogan».
Il caos chiama altro caos. Negli ultimi tre mesi la pressione sulle città renitenti ad Ankara era scalata al terrore. A Singar i ragazzi raccontano di perquisizioni quotidiane, scontri a colpi di mitra, esecuzioni sommarie, come nel caso del ventenne ucciso e trascinato da una camionetta: una scena rilanciata in tutto il mondo grazie al filmato di un telefonino. A Kulp, trentaseimila persone spazzate dal vento a 125 chilometri da Ahmed, per “ragioni di sicurezza” lo Stato ha impedito di usare i pascoli e bruciato così gli unici proventi dell’economia locale. Nel Sur, oltre alle case sono state distrutte dalle raffiche anche le pareti della mosche di Fatih Pasah, costruita nel 1500. Demirtas ha denunciato ieri che 500 membri del partito, sindaci, politici, e militanti, sono stati arrestati nell’arco di sei mesi.
Questi prodromi si sono fatti corsa all’aprirsi delle urne. A poche ore dai primi risultati, una bomba è scoppiata a Nusaybim, nel distretto di Merdin. Lacrimogeni e spari sono proseguiti per due notti nel distretto di Cizre. E il nervosismo è ovunque nella città già chiusa di Ahmed, che da giorni abbassava le saracinesche in anticipo, alle sette di sera, per immergersi nell’attesa del voto, con la cicatrice ancora scoperta del coprifuoco. «Se non si aprirà un nuovo dialogo la Turchia diventerà uno stato più conservatore, più musulmano, più radicale contro le libertà e le donne», dice infervorato un militante dell’Hdp: «Ma dobbiamo evitare che questo si trasformi in una nuova guerra. Cosa ce ne facciamo dei morti, di altri morti, ancora, dopo migliaia di vittime? L’unica via è il dialogo».
Ma l’aria di guerra c’è già. Per respirarla basta passeggiare tra le barricate appena smontate dei quartieri che si sono autodifesi durante i coprifuoco o avventurarsi in villaggi come Aygun, 60 chilometri di terra brulla nel Kurdistan del Sud: una foresta antica incenerita, poche capre, la sola fonte di reddito lo Stato. Maestri, dottori e “civil guards”, uomini semplici che si occupano di mantenere l’ordine. Nella scuola di Aygun, unico seggio elettorale per qualche migliaio di abitanti sparpagliati, stanno seduti lungo il muro. In undici. Abiti civili. E fucile a tracolla. Di fianco a loro, all’ingresso, apre la porta un militare in divisa.
Se nei paesi più grandi è un vai e vieni di donne col velo o con i capelli raccolti in una coda ma con i tacchi alti, qui di ragazze o madri non ce n’è nemmeno una. Solo un centinaio di maschi, di cui diversi attaccati al Kalashnikov. «Dobbiamo difenderci», ci ripete varie volte un uomo quando insistiamo sul perché di tutte quelle armi a due passi dalle urne: «Non c’è problema per noi: la Turchia è una grande democrazia».
Al mattino Diyarbakir/Ahmed si risveglia sospesa su su questo confine. Fra necessità di pace. E volontà di guerra.
di Francesca Sironi
l’Espresso Repubblica
NB editore di UIKI: Diyarbakir è in curdo Amed invece di Ahmed come è sttao sritto.