Donne in fuga dall’Isis: un racconto dai campi profughi siriani
Ve lo diciamo subito: questo è uno dei post per cui senti che ideare, contattare, domandare,scrivere, editare, pubblicare sono attività che hanno ancora un senso profondo. Grazie quindi a Stefania Spanò, in arte Anarkikka, che ha voluto raccontarci la sua esperienza nei campi profughi che accolgono donne in fuga dall’Isis e dalle sue atrocità in Siria e Iraq.
Come possiamo purtroppo immaginare, la condizione delle donne sotto l’Isis è tremenda: la violenza sulle donne è utilizzata sistematicamente come strumento bellico, e l’attenzione internazionale non sembra sufficientemente concentrata sulla questione.
Per questo una delegazione internazionale, organizzata da Barbara Spinelli dello Iadl (Associazione Internazionale degli Avvocati Democratici), ha raccolto un invito del movimento nazionale delle donne curde e si è recata di persona ad incontrare le donne in fuga dall’Isis nei campi profughi in Turchia, Kurdistan iracheno e Rojava (Siria).
La delegazione era composta da tredici donne, tra cui avvocate e giuriste, ma anche una psichiatra, una video-maker e, appunto, la graphic-journalist Anarkikka, da tempo impegnata sul tema dei diritti delle donne, come dimostra l’attività sul suo blog.
Donne in fuga dall’Isis: intervista a Anarkikka
Anarkikka, presentati in tre righe ai lettori di Le Nius.
Ciao, sono autrice, illustratrice e vignettista. Il mio lavoro è di denuncia, e i miei progetti raccontano soprattutto di violenze e violazioni dei diritti umani, con particolare attenzione a donne e bambini.
Quali percorsi della vita ti hanno portata a far parte della delegazione che ha incontrato le donne in fuga dall’Isis?
Sono stata invitata proprio in virtù del mio impegno professionale, per documentare la situazione delle donne e delle bambine sopravvissute alle violenze di Daesh (l’acronimo arabo di Isis, ndr), lo stato in cui si trovano ora nei campi per rifugiati, le condizioni psicologiche, testimoniare le loro storie.
La delegazione ha visitato alcuni “campi” in Turchia, Kurdistan iracheno e Rojava. Ma cosa si intende per campo? Ci aiuti a immaginare di trovarci davanti a uno di questi campi?
Distese immense di tende in un nulla di polvere o fango, che non contengono nulla, se non le persone che ci vivono con grande dignità, sempre pronte ad accoglierti e a offrirti una tazza di tè e un sorriso che vada oltre le lacrime. Le persone hanno perso tutto, i loro cari, le case, il lavoro, e nei campi è difficile immaginare un futuro. Solo in Rojava si avverte la speranza.
I campi non sono facilmente accessibili, servono permessi per entrare e permessi per parlare con chi ci vive. Sono recintati, gestiti o dalle organizzazioni internazionali o del territorio, ma in tutti è carente l’assistenza necessaria ad assicurare il soddisfacimento delle condizioni di vita elementari delle persone accolte, e mancano servizi di supporto specifici per le esigenze femminili. Abbiamo notato, però, che dove esistono luoghi di ascolto e di rappresentanza femminile, le persone esprimono una maggiore positività, nonostante le difficoltà materiali.
Ci puoi dare una descrizione delle persone che hai conosciuto in questi campi?
Ho conosciuto soprattutto donne e bambini. I bambini sono come siamo abituati a immaginarli. Sorridenti, ti accolgono in massa, curiosi e con tanta voglia di comunicare. Apparentemente i più spaventati sono i piccoli. Hanno paura di chi arriva da fuori e dei volti che non riconoscono.
Le donne hanno bisogno di raccontare, voglia di combattere, di ricominciare. Sono lucide e appaiono unite nel dolore e nella sorte. Molte quasi ostentano lo sguardo fiero e dritto, testa alta. Ti accolgono con calore e riconoscenza. Vogliono che il mondo sappia, e non solo di quello che hanno patito, ma della resistenza, della rivoluzione che stanno compiendo.
In Siria, in Rojava, le donne stanno cambiando il sociale, e il loro ruolo nella guerra è primario. Si sono organizzate per la rivoluzione, si sono armate e hanno sconfitto Daesh, si armeranno per ricostruire il loro mondo, le loro famiglie, per dare un futuro ai loro figli in un mondo diverso. Ci credono e voglio che sia raccontato perché tutte noi possiamo trarne ispirazione e condividerne gli ideali.
La forza di queste donne si vede nella gestione del territorio, i cui principi si basano sul rispetto dell’ecosistema, la parità di genere, il pluralismo religioso, etnico e culturale, la pace nel segno di una democrazia partecipativa. La Carta del Rojavaesiste e resiste proprio in un momento così complesso.
Spesso questi incontri, anche quando sono brevi, smuovono in noi pensieri profondi su noi stessi, come specchi dell’anima. Se ti va, ce ne sveli uno?
Posso raccontarti di quanto sia stato difficile tornare a casa. Tutto appare all’improvviso insignificante o “colpevole”. Il nostro egoismo, la visione provinciale del mondo, le beghe, le polemiche, l’indignazione davanti al tg, i like facili. Sembra retorica, ma non lo è. Sono stata male, intontita per giorni, fino a quando non mi è tornata forte, più forte di sempre, la mia voglia di esserci, di darmi da fare da qui, da questa parte del mondo, per come posso, come riesco, perché è giusto.
Il tema al centro del viaggio erano i diritti delle donne. Cosa hai potuto riscontrare in proposito? Quanto l’elemento del genere influisce nel vivere l’esperienza del conflitto prima e della vita nei campi poi?
Il femminicidio per Daesh è una tattica di annientamento, e la brutalità supera qualsiasi immaginazione. Come in ogni guerra, e le ultime son sempre più conferma di questo, le donne sono obiettivo bellico, lo stupro arma di distruzione di massa, di cui sono vittime anche bambine molte piccole. È una tattica per diffondere il terrore, perseguitare le minoranze etniche e religiose e sterminare intere popolazioni. Le donne sono rapite, diventano oggetto sessuale, costrette a matrimoni forzati o vendute come schiave. Molte si suicidano.
Le donne che riescono a sfuggire a questa furia e a rifugiarsi nei campi, avrebbero bisogno di più supporto psicologico, assistenza medica e servizi dedicati, ma tutto questo ancora è lontano. E con le forze rimaste si concentrano per non lasciarsi andare.
Cosa ricaverai dall’esperienza? Un graphic novel o altro? Quando, eventualmente, sarà pronto?
Ne ho già ricavato un grande arricchimento personale. Questo è stato un viaggio carico di forti emozioni, di incontri indimenticabili. Ora sono al lavoro sul progetto grafico illustrato per raccontare le cose viste e sentite, per essere in qualche modo memoria di ciò che è accaduto e che sta accadendo, per tentare di dare voce a chi non ne ha e riportare il loro grido di aiuto ma anche di speranza. La mostra sarà esposta a giugno a Ginevra, e presentata alle Nazioni Unite nel corso della ventinovesima sessione del Consiglio dei Diritti Umani, unitamente al report della delegazione di cui ho fatto parte.
La delegazione di sole donne, quasi tutte avvocate, è stata organizzata da Barbara Spinelli, dello Iadl (Associazione Internazionale avvocati democratici), in collaborazione con Aed-Edl (European Democratic Lawyers), Eldh (European Association of Lawyers for Democracy and World Human Rights) e il centro antiviolenza Trama di terre, al fine di verificare e documentare le violazioni dei diritti umani nel contesto del conflitto con Isis. L’invito è partito dal movimento nazionale delle donne curde.
Anarkikka, lasciaci con qualcosa che secondo te è importante che noi sappiamo, al di là delle narrazioni dell’Isis che i media spesso ci danno in pasto, e dell’idea molto stereotipata che abbiamo dei profughi. C’è qualcosa che ci sfugge e che solo l’incontro con le persone e con i luoghi può far capire?
Di Isis posso confermare l’intenzione e la capacità di terrorizzare e l’elevatissima macchina da guerra di cui dispone. Sottolineo che la guerra che muovono non è all’occidente, ma è soprattutto interna al loro mondo. È una guerra che non ha davvero a che fare con la religione, ma con i nuovi assetti politici che si sta cercando di creare in quelle aeree. Come tutta la storia umana insegna.
In quanto ai profughi, e in particolare alle donne in fuga dall’Isis, posso dire che è difficile incontrare persone così forti e determinate nel non voler lasciarsi annientare. Quanto più grande è la sofferenza patita, tanto la risposta non lascia spazio a incertezze. Sanno tutti perfettamente cosa chiedere a noi e al futuro: tornare a casa per ricominciare.
Le Nius