Dalla vittoria a Kobanê alla liberazione di Raqqa
Breve bilancio dell’anno dal punto di vista democratico-confederale »Questo ricorda la discussione delle forze reazionarie ai tempi di ogni rivoluzione significativa. Durante la rivoluzione francese il Kaiser ha messo in allarme tutti i conservatori affermando che ›il mondo è in pericolo‹. Anche nella rivoluzione russa ci sono stati richiami simili come ›il sistema ci sfugge di mano‹. Ciononostante i rivoluzionari francesi, i bolscevichi e molte altre forze rivoluzionarie hanno raggiunto la vittoria. La situazione del PKK è più o meno simile. In un’epoca nella quale si sostiene che il tempo della rivoluzione è passato e che si è arrivati alla fine della storia e nel quale il capitalismo e l’imperialismo cercano di convincersene, temono lo sviluppo di una rivoluzione nel ruolo di avanguardia del PKK. Per questo il PKK viene rappresentato come una questione globale. Presumibilmente una rivoluzione da lui condotta con successo sarà una rivoluzione internazionale. Tutti i segnali in parte indicano questo. I ministri dell’interno tedeschi non casualmente si incontrano in Germania Est. Lì secondo loro hanno sconfitto il socialismo reale. Quindi viene in mente: perché non dovrebbe essere presa anche una decisione contro il PKK.« (Abdullah Öcalan, 1993)
All’inizio del 2017 rappresentanti dello Stato turco e del suo esercito hanno affermato che in quest’anno nessuno avrebbe più nominato il nome del PKK. »Dio mi è testimone che annienteremo il PKK«, ha detto il Ministro dell’Interno Süleyman Soylu. Con questo slogan ormai proclamato con cadenza annuale fin dall’inizio della resistenza del PKK, lo Stato turco ha fissato la tabella di marcia per il 2017, ossia legando inscindibilmente la sua esistenza sia in politica interna che in politica estera alla lotta contro il PKK e la società curda. A dispetto di questo annuncio la società curda insieme ad aree solidali e internazionali il 27 novembre ha celebrato il 39° anniversario della fondazione del PKK in Kurdistan, Siria del nord, Europa e in altri luoghi del mondo.
Costruzione di un nuovo regime religioso-nazionalista in Turchia
Dal suo arrivo al potere nel 2002 l’AKP ha continuamente lavorato per estendere la sua egemonia nello Stato turco. Secondo Gramsci egemonia significa »tipo di potere che in sostanza si basa sulla capacità di definire e far prevalere propri interessi come interessi generali della società«. La classe dominante la costituisce attraverso l’approvazione della società che convince con la propria propaganda e che legittima attraverso elezioni. Quale livello abbia raggiunto l’identificazione degli interessi di Erdoğan con gli interessi generali della società turca, è emerso molto chiaramente con le discussioni sul caso di Reza Zarrab. Le accuse di corruzione contro rappresentati turchi di alto rango nella politica e nell’economia, tra cui anche il Presidente turco Erdoğan, vengono stilizzati come una questione nazionale, come un attacco alla società turca.
La primavera del 2017 invece è stata determinata da discussioni sul referendum costituzionale con il quale si voleva introdurre in Turchia il sistema presidenziale. Con l’esito risicato della consultazione popolare, lo stato di emergenza in vigore dal luglio 2016 è stato prolungato e man mano è diventato normalità. L’omologazione della giustizia e dei media, i continui arresti arbitrari, i divieti di manifestazione e la chiusura di centinaia di organizzazioni della società civile hanno fatto quasi soccombere la vita sociale in Turchia.
Le discussioni prima e dopo il referendum costituzionale vanno qui considerate come parte del cambio di regime portato avanti dall’AKP. Mentre in passato l’ideologia, il kemalismo, costituiva un pilastro fondante in Turchia, la struttura della Turchia odierna non è più spiegabile solo con questo. La nuova ideologia è l’islamismo rappresentato dall’AKP nella sua caratterizzazione sunnita. Così nello scorso anno si è creata una sintesi di questa linea sunnita-islamista con il nazionalismo del Partito del Movimento Nazionalista (MHP). Già l’alleanza dell’AKP con l’ala reazionaria dell’MHP, del Partito della Grande Unione (BBP) e dei nazionalisti di Ergenekon durante il periodo del referendum sono la prova per questa sintesi di ideologia nazionalista e religiosa. Il sistema presidenziale rivendicato dall’AKP in questo contesto è solo l’adattamento della forma dello Stato a questo nuovo indirizzo ideologico Per le persone in Turchia e nel Kurdistan del nord questo significa solo la prosecuzione delle violazioni della libertà, l’inasprimento della guerra in Kurdistan del nord.
La crisi di egemonia dell’AKP
Con l’esito del referendum, nel quale nonostante un gran numero di frodi elettorali la modifica costituzione è stata approvata con il 51% dei voti e le proteste di massa divampate poco dopo, tuttavia si è mostrata anche una polarizzazione della società che va presa sul serio. Il vice Primo Ministro Numan Kurtulmuş ha dichiarato che la crisi e il caos in Turchia potranno finire solo se il sistema presidenziale del referendum verrà accettato. Perfino dopo il referendum Erdoğan ha detto anche: »Vogliamo tenere in piedi lo Stato.« Da questo si può riconoscere che lui e il suo AKP sono ben consapevoli del fatto che il Paese sia economicamente sia anche in molti altri settori si trova profondamente nel caos e nella crisi.
Gramsci definisce la crisi dell’egemonia come segue: »La crisi consiste proprio nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si arriva a diverse manifestazioni di malattia.« La classe dominante quindi per grandi imprese politiche deve ottenere il consenso delle masse con la violenza e la repressione. In questo senso l’AKP ha proceduto spietatamente contro le opposizioni democratiche nel proprio Paese e non ha lasciato alcuno spazio per la politica democratica e il lavoro di opposizione legale. Così questo nel 2017 gli attori principali in Turchia sono rimaste le Unità di Difesa del Popolo (HPG) e l’esercito turco.
Per quanto riguarda la politica estera della Turchia che si sviluppa secondo gli stessi parametri della politica interna, entreremo nel merito più avanti nel contesto dell’impegno per la pace in Siria.
Da Kobanê a Raqqa: l’inizio della fine
Uno degli eventi più significativi del 2017 dal punto di vista geopolitico è stata senza dubbio la liberazione della »capitale dello Stato Islamico (IS)«, Raqqa, da parte delle Forze Siriane Democratiche (arabo: QSD) in ottobre. Già durante l’operazione di liberazione la domanda centrale di molte aree era cosa significasse la liberazione di Raqqa per il futuro del Rojava, della Siria del nord e dell’intera Siria.
Per capire le conseguenze di Raqqa serve uno sguardo indietro alla fase della resistenza di Kobanê. Perché la sconfitta a Kobanê è stata l’inizio della fine di IS e delle strategie ad esso collegate di diversi attori politici. Raqqa in questo senso segna la fine di una fase che è iniziata a Kobanê. L’esistenza di IS per gli Stati regionali come l’Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia, è stata un fattore centrale nelle loro strategie sul Medio Oriente. Con la sconfitta a Kobanê queste strategie sono state sconvolte. Dato che anche le forze rivoluzionarie del Rojava e della Siria del nord agiscono nell’ambito di una strategia regionale, non si sono accontentate di cacciare IS da Kobanê, ma dall’estate del 2014 fino alla fine del 2017 hanno condotto ampie operazioni per la liberazione di Raqqa e dell’est di Deir ez-Zor.
Già in questo periodo di tempo, dalla liberazione di Kobanê fino alla liberazione di Raqqa, le strategie dei suddetti Paesi si sono perse, è iniziata la ricerca di nuove alleanze e si sono evidenziate nuove contraddizioni. Ricordiamoci dell’abbattimento del jet russo da parte della Turchia, del successivo breve avvicinamento con la NATO e gli USA e da ultimo del maggiore avvicinamento alla Russia, così come della vendita di sistemi antimissile russi alla Turchia nel mese di settembre. Anche la crisi del Qatar a giugno di quest’anno può essere citata come esempio. Quando le QSD hanno raggiunto Raqqa, la città è diventata definitivamente un punto di svolta.
Riassumendo, la fase che è iniziata a Kobanê, con la caduta della capitale di IS si è conclusa. IS è stato gravemente battuto dal punto di vista militare e si trova in una posizione marginale. Le strategie di tutti gli attori delineate nell’ambito della guerra in corso in Siria da cinque anni sono crollate e si è determinata la necessità di strategie nuove.
Dopo Raqqa: la crisi continua, cambiamo gli attori
Con la liberazione di Raqqa le forze presentate come ragione per la crisi in Medio Oriente come IS, non sono più rilevanti. Ciononostante la crisi continua senza diminuzione, ma si verifica un cambio nei partecipanti. Mentre finora veniva portata avanti una guerra per procura, ora entrano in primo piano gli Stati che la conducevano. Due o tre anni fa nessuno di loro era ancora attivo a questo livello come dalla fase a Raqqa. In precedenza erano in primo piano gruppi come IS, il Fronte Al-Nusra o Ahrar al-Sham. Oggi gli attori in Siria e in Iraq sono la Turchia, l’Iran, la Russia, gli USA e le forze QSD legate alla Federazione Democratica Siria del Nord.
Con questi nuovi attori nella nuova situazione emergeranno opportunità di percorsi politici. Mentre nel periodo di IS per ottenere influenza erano importanti successi militari, ora è stato aperto lo spazio soprattutto per iniziative politiche e diplomatiche. Il rischio di scontri militari (tra Stati) ovviamente continua ad esistere e cresce ogni giorno che passa e nel quale non si realizza un’intesa politica. Dato che la situazione in Medio Oriente cambia continuamente e da nuove alleanze (tattiche) possono nascere nuove situazioni, si pone la domanda su quale sarà il piano sul quale si incontreranno le diverse strategie. Finora ci sono le prospettive di Ginevra, Astana, Sochi, il progetto portato avanti solo dagli USA, così come la prospettiva di una Siria democratica federale delle QSD. Nessuno di questi progetti finora sta dando la sua impronta agli sviluppi. Quindi dipende dagli approcci degli Stati se i nuovi sviluppi sboccheranno in un conflitto o in un dialogo politico.
Proprio su questo punto le ambizioni in politica estera della Turchia diventano rilevanti. Perché in questa baraonda di attori e relazioni ci sono anche forze che con intenzioni provocatorie rendono i conflitti più profondi e aumentano il rischio di scontri diretti. La Turchia in questo si colloca al primo posto.
La politica estera provocatoria della Turchia
Dall’inizio del conflitto in Siria la Turchia si fa notare con una politica provocatoria che rende più profondi il caos e la guerra. Questo vale a maggior ragione per l’anno 2017. Come in politica interna, la Turchia, le cui strategie regionali sono crollate e che nella regione si trova ad essere isolata, ora dispone solo di un argomento centrale e di una costante strategica: l’ostilità nei confronti dei curdi e la negazione di qualsiasi identità al di fuori della concezione sunnita e patriarcale. Con queste strategia la Turchia per quanto riguarda gli sviluppi in Siria ha scritto sulla sua bandiera di escludere i curdi da qualsiasi processo politico e di accettare in cambio di questo qualsiasi cosa.
Ma la Turchia in questo travisa il ruolo determinante del movimento curdo nei processi di sconvolgimento politico della regione. Altri attori regionali e internazionali hanno già riconosciuto che senza tenere conto del fattore curdo la propria strategia non è realizzabile. Per questa ragione la »carta curda« in Siria e in Iraq incontra attenzione. La strategia della Turchia non ha molti punti di sovrapposizione con le strategie degli altri attori regionali e internazionali. Quindi o ci sarà una soluzione politica senza la Turchia o una soluzione verrà rinviata per far piacere alla Turchia. Il secondo scenario meno probabile, a sua volta equivale allo scoppio di conflitti aperti tra le diverse parti in causa.
Le strategie regionali dopo Raqqa
La liberazione di Raqqa non ha solo effetti sulla Siria, ma implicazioni per tutta la regione. Nella guerra in Siria nell’ambito degli sviluppi politici e militari si sono formati diversi blocchi che si estendono in tutta la regione:
*Russia, Iran e Turchia con gli incontri di Astana e Sochi formano un blocco che però è caratterizzato da contraddizioni interne.
*Gli Stati arabi formano un blocco sotto la guida dell’Arabia Saudita e dell’Egitto e con parziale sostegno da parte degli USA e di Israele. Nel maggio 2017 c’è stato un incontro a Riad.
*La coalizione internazionale guidata dagli USA in Siria (e in Iraq) forma di fatto un proprio blocco a sé stante.
*Le Forze Democratiche della Siria e la sovrastruttura della Federazione Democratica Siria del Nord formano un blocco.
Gli attori citati in Siria e in Iraq cercano di imporre una soluzione politica secondo proprie idee, interessi e strategie. I blocchi in questo hanno contraddizioni tra loro e in parte anche al proprio interno. Così l’approccio perseguito a Riad non è in disaccordo con quello di Sochi, tanto quanto Sochi non può essere d’accordo con la coalizione internazionale. Anche negli stessi incontri a Sochi ci sono opinioni diverse sulla posizione rispetto alla Federazione Democratica Siria del Nord. Queste contraddizioni possono essere individuate come una causa del problema nella regione.
Spostamento del conflitto dalla Siria in Iraq
Nell’estate 2017 il movimento di liberazione curdo ha dichiarato che con il caso di Raqqa il centro dei conflitti in Medio Oriente si sposterà in Iraq. Infatti, dato che IS sarebbe ricaduto in una situazione marginale e in Siria sarebbe entrata in primo piano una fase politica, il conflitto si sarebbe dovuto spostare. Mentre molte aree si aspettano che con la vittoria dell’esercito irakeno qui ora ci sarebbe stata stabilità, l’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK) nell’autunno 2017 ha pubblicato una dichiarazione di principio sull’Iraq: »La mancata soluzione della questione curda e l’attacco ai curdi risultano sostanzialmente nella mancanza di democratizzazione del Medio Oriente. Quindi la soluzione dei problemi avverrà attraverso una democratizzazione. Impostazioni nazionaliste e stataliste sono di carattere più distruttivo che risolutivo.« Era ed è una questione di tempo fino a quando scoppierà crisi in Iraq. Le ragioni sono tante come tanti sono i problemi tra sciiti e sunniti, la contraddizione tra gli USA e l’Iran o la lotta di potere tra sciiti.
In un’atmosfera così carica, il governo regionale curdo ha messo all’ordine del giorno il referendum sull’indipendenza e ha innescato una bomba a orologeria sul proprio territorio. Prendendo come spunto il referendum del 25 settembre i diversi attori hanno coperto le proprie contraddizioni e si sono uniti per distruggere gli sviluppi nel Kurdistan del sud. Le conseguenze sono disastrose e possono essere più pesanti di quelle dell’epoca in occasione dell’Accordo di Algeri del 6 marzo 1975, dopo il quale la resistenza curda è crollata e si è staccato il Partito Democratico del Kurdistan (PDK). Perfino gli arcinemici storici Turchia e Iran attraverso il referendum si sono ritrovati insieme a Sochi.
Il movimento di liberazione curdo con lungimiranza già prima dell’assedio di Raqqa ha reso di nuovo punto centrale dell’ordine del giorno il Congresso Nazionale Curdo. Dato che nell’edizione di Kurdistan Report di novembre/dicembre si è entrati ampiamente nel merito della strategia di unità nazionale, non intendiamo esporre nuovamente questa previdente politica di lungo termine della KCK che è stata confermata dagli sviluppi in Kurdistan del sud.
Una soluzione dei conflitti solo con i curdi
Negli sviluppi e negli scontri in Kurdistan e nei quattro Stati Nazione nello scorso anno si è dimostrato chiaramente che un dialogo con i curdi è diventato inevitabile. La società curda in Medio Oriente non può più essere negata come cento anni fa. In questo tempo di sconvolgimenti in Medio Oriente nel quale si sta sfaldando il sistema centenario, i curdi prendono il loro posto nel nuovo equilibrio che si va creando. I numerosi incontri senza risultati a Ginevra e Astana hanno dimostrato ancora una volta che il problema fondamentale del Medio Oriente è l’apporccio alla questione curda. La lotta nel 2018 ormai quarantennale portata avanti dal PKK per l’autodeterminazione e l’indipendenza ha creato fatti politici e militari. Kobanê e Raqqa sono solo gli esempi più recenti.
Con il paradigma del Confederalismo Democratico e gli approcci alla soluzione per problemi urgenti, il movimento curdo come forza politica è ben posizionato. Il movimento curdo e la società non solo sono un fattore che non è più possibile negare, ma l’indirizzo per la soluzione dei problemi più impellenti della regione. Il referendum nel Kurdistan del sud ha mostrato chiaramente i pericoli contenuti nella logica dello Stato Nazione e conferma che il nazionalismo e lo statalismo non sono politiche in linea con i tempi e orientate a una soluzione. Quello che resta è il paradigma del confederalismo democratico del movimento di liberazione curdo e la soluzione concreta della nazione democratica costruita in Siria del nord.
di Ali Çiçek, Kurdistan Report 195 | gennaio/febbraio 2018