Cronache dal coprifuoco di Sur
“Come posso dire ai miei figli che la nostra casa non c’è più? Sur è la nostra anima. Stanno cercando di rubarci l’anima”.
E’ lo sfogo di una mamma (raccolto dall’agenzia di stampa curda Jinha) che, dal tetto di una costruzione rimasta miracolosamente in piedi dopo mesi di bombardamenti e spari di cannone, guarda la propria casa che invece è ridotta in macerie.
Dopo sei mesi di assedio l’antico distretto di Diyarbakir, città a maggioranza curda nel sud est turco, non è stato ancora liberato. E anzi, su gran parte dei terreni, dei lotti edificabili pende ora la minaccia, la certezza, dell’espropriazione statale sancita con legge, il 21 marzo scorso.
La conferma in parlamento dell’Hdp, il partito democratico dei popoli, alle ultime elezioni dell’1 novembre 2015, con la pretesa di rappresentare i diritti delle minoranze in Turchia, rallenta gli obiettivi da califfato del presidente Tayyp Erdogan. La dura repressione scatenata dal governo in tutto il sud est, dall’estate fino alla vigilia del voto, attraverso coprifuochi, arresti, attacchi con mezzi e armi pesanti, nelle città e nei villaggi, non ha prodotto l’effetto sperato, spazzare via dai giochi politici l’opposizione. Non restava, non resta, dunque che l’eliminazione fisica dei dissidenti, i fieri e mai domati curdi e la loro inaccettabile pretesa di autonomia amministrativa. L’inizio della rappresaglia statale non poteva partire che da Sur e i suoi 130mila abitanti, per la maggior parte gente povera che si è riversata qui dopo la dura repressione subita nei villaggi, ancora per mano turca, negli anni 90. A Sur l’Hdp ha ottenuto l’80% dei consensi nonostante cinque coprifuochi, attacchi ai manifestanti in protesta, uccisioni indiscriminate.
Quella che segue è la cronaca del duro coprifuoco h24 che ha demolito un intero distretto, cercando di umiliare e schiacciare una popolazione troppo fiera per accettare la sconfitta e che oggi, nonostante tutto, tenta di rientrare e occupare brandelli di case, le propria case, e resiste nonostante tutto.
Al mio arrivo il 22 gennaio scorso, sei quartieri di Sur (Cevat Pasa, Dabanoğlu, Fatih Pasa, Jasirli, Cemal Yilmaz e Savaş) sono sotto coprifuoco 24 ore su 24 già da 54 giorni. La popolazione è stremata, senza cibo, acqua, corrente elettrica, riscaldamento.
Spari di fucile, di mortaio, di artiglieria pesante, a ogni ora del giorno, dall’alba al tramonto, la notte, raccontano una guerra in atto. Per le strade, mezzi blindati, tank, camionette militari presidiano il distretto, sorvegliano un’intera città.
Nessuno è autorizzato a uscire dalla propria casa se non nei rari momenti in cui il coprifuoco è temporaneamente sospeso e solo dietro autorizzazione degli ufficiali dell’esercito, delle forze di polizia. Uscire però vuol dire non avere la certezza di poter tornare indietro. Rozerin Cukur a casa non c’è mai tornata. E come lei altri ragazzi, uomini e donne uccisi sotto i colpi dei cecchini turchi mentre tentavano di rincasare, colti dall’improvviso ripristino del coprifuoco che i militari annunciano in malo modo, dall’alto dei minareti o attraverso altoparlanti montati sui carri armati. Difficile raggiungere l’intera popolazione.
I famigliari delle vittime, seduti su ampi tappeti presso i locali di un’associazione umanitaria, le gambe protette da coperte di lana, sono in sciopero della fame dal giorno dell’assassinio dei loro cari. Chiedono la restituzione dei corpi lasciati a marcire per strada perché possano riabbracciarli per l’ultima volta, perché possano assicurar loro una degna sepoltura. Ognuno di loro, stringe tra le mani e espone la foto del proprio figlio, della propria figlia.
“Dopo una settimana continua di coprifuoco ci fu una breve pausa e Rozerin mi disse che usciva per andare a scuola” racconta sua madre Fahrya. “Aveva con sé il cellulare e la carta d’identità. Mentre era ancora fuori, fu ripristinato il coprifuoco. Abbiamo cercato di contattarla al telefono, ma invano. Sentivamo il rumore di bombe, di spari ma di lei nessuna notizia, solo a sera abbiamo saputo dalla televisione che nostra figlia era stata uccisa. Aveva solo 16 anni”. Si raggomitola su se stessa, spossata Fhrya, che non tocca cibo da 15 giorni, le mani ciondolanti sulla cornice che protegge la fotografia della figlia.
Pochi giorni prima di Rozerin è morto, ammazzato dai cecchini, Ramazan, suo coetaneo. “Siccome siamo Curdi e siccome non abbiamo uno stato, non abbiamo alcun potere”, denuncia fiera la mamma, Elif Ogut, in sciopero della fame da 25 giorni. “Abbiamo chiesto al governo turco di restituirci il corpo di nostro figlio ma invano. Siamo qui per attirare l’attenzione e la solidarietà dei popoli europei che devono conoscere la violazione dei diritti umani a Sur e aiutarci. Erdogan dice che siamo terroristi, ma mio figlio era un terrorista? Mio figlio non era un terrorista. Erdogan va in Europa e ottiene aiuti finanziari e quando torna usa questi aiuti finanziari per comprare munizioni e fucili per uccidere i nostri figli” urla quasi Elif “noi chiediamo all’Unione Europea di esercitare il suo potere sulla Turchia perché ci vengano restituiti i corpi dei nostri cari. Hanno detto che sono qui per fare pulizia, per ripulire le strade, ma le nostre strade non sono di loro proprietà. Non gli daremo mai il controllo delle nostre città”.
Turgay Gircek era rimasto a Sur a presidiare la sua casa quando la famiglia aveva deciso di andar via, di sfollare. Giovane e coraggioso si era unito alla resistenza dei giovani curdi organizzati nelle Yps, le squadre di autodifesa civili, nate a fine dicembre, in risposta alla repressione di Ankara, su esempio delle Ypg, le unità di difesa del popolo del Rojava, in Siria. “Quando ho saputo che mio figlio era stato ucciso ho cominciato a sputare sangue dalla bocca” racconta il papà, un uomo dagli occhi piccoli, due fessure perse nell’incavo scuro delle occhiaie che, dopo giorni di digiuno, crollano sulle gote smunte ad esasperare l’ovale del viso. “Ho tentato di recuperare il suo corpo ma c’erano aggressioni, operazioni militari a Sur, spari di fucile, di carro armato, impossibile entrarvi. I soldati erano ovunque, poliziotti, unità speciali chiamate Esedullah che significa Leoni di Dio, così si fanno chiamare. C’eravamo trasferiti a Sur 22 anni fa, dopo che il nostro villaggio, Bingol, era stato devastato, le case completamente bruciate. Di nuovo, oggi, la nostra casa, è stata distrutta dai colpi di cannone, siamo stati costretti a scappare e ora non abbiamo più dove andare”.
Salma Tabi è co-presidente del sindacato dei medici di Diyarbakir, la incontro duranti un sit-in davanti al municipio con i colleghi medici, infermieri. Da giorni sono in sciopero per l’impossibilità di aiutare le famiglie, i feriti a Sur. “Certo è difficile parlare di diritto alla salute quando qui è leso il diritto alla vita” afferma. “Ogni giorno ci avviciniamo alla zona sotto coprifuoco e chiediamo alla polizia di lasciarci entrare per soccorrere i feriti, per portare sollievo alla popolazione ammalata, senza cibo, né acqua. Invano. Se un soldato o un poliziotto resta ferito negli scontri con gli abitanti organizzati nella resistenza, allora lasciano passare l’ambulanza, in caso contrario impediscono i soccorsi. E se aiutiamo i feriti che riescono ad arrivare in ospedale ci portano in caserma dove ci insultano accusandoci di terrorismo. Stai salvando la vita dei terroristi, ci dicono, vuol dire che anche tu sei un terrorista”.
“Il coprifuoco di 24 ore su 24 imposto a Sur, come a Cizre, a Silopi” spiegano gli avvocati della Diyarbakir Bar Association, il consiglio dell’ordine degli avvocati, “è adottato in aperta violazione della legge turca e del diritto internazionale. Secondo la legislazione turca, infatti, per imporre un coprifuoco occorre che sia dichiarato lo stato d’emergenza e il Consiglio dei Ministri non lo ha fatto. I trattati internazionali in materia di diritti umani che la Turchia ha ratificato e fatto propri, sono palesemente violati”.
Sur è assolutamente interdetto ai non residenti. Gazi Caddesi, la strada che divide la zona sotto coprifuoco dai quartieri ancora liberi è presidiata dalle forze di polizia che perquisiscono chiunque provi ad avvicinarsi, ad oltrepassare i varchi. Donne uomini, giovani, anziani, bambini. Controllano tutto, borse, zaini, buste della spesa. Scattare una foto, riprendere con le telecamere vuol dire subire interrogazioni di ore. Ero appena uscita dalla Diyarbakir Bar Association con un rapporto sulle dure conseguenze del coprifuoco subito in settembre dalla città di Cizre, verso il confine con la Siria. Fermata ad un posto di blocco su Gazi Caddesi, perquisita, i poliziotti lo trovano nello zaino e comincia il calvario di domande e di nuovo perquisizioni, più e più volte. Mi chiedono di consegnare il cellulare, il loro timore è che possa aver scattato foto ai mezzi, ai blindati, alle postazioni militari. Rifiuto di consegnarlo, pretendo un avvocato. Ragazzini in divisa nera mi scherniscono e urlano, mi passano al telefono un superiore che mi intima “non sei in Italia qui comandiamo noi”. Con me, la collega fotoreporter Grazia Bucca. Ci portano al commissariato e ci tengono lì per due ore. Vogliono sapere perché siamo lì, perché ci eravamo state anche in novembre e se siamo terroriste o amiche di terroristi. Controllano il passaporto, la tessera di giornalista. Non trovano nulla contro di noi. Devono rilasciarci.
L’indomani proviamo a bypassare Gazi Caddesi inoltrandoci per le strade laterali, nei quartieri non ancora sottoposti a coprifuoco. Arriviamo alla zona del mercato che fino ad un paio di mesi prima era un trionfo di colori, spezie, chai il caratteristico tè curdo, frutta in abbondanza, elettrodomestici. Qui gli abitanti venivano a fare la spesa e si mescolavano ai turisti attratti dai drappi e dagli abiti tradizionali, i tappeti kilim e chincaglieria varia da portare a casa a ricordo di una vacanza in una delle più antiche città della Mesopotamia. In gennaio il mercato di Sur è ridotto a cumuli di spazzatura che bruciano al centro delle strade divelte, il colore dominante ora è il grigio delle serrande abbassate. Il silenzio è rotto solo dai passi dei pochi residenti che si avvicinano ai negozi che ancora resistono aperti.
Gli sfollati dalla zona sotto assedio trovano rifugio presso parenti o amici, altri in alloggi di fortuna nelle aree ancora libere. Una famiglia di nove persone è costretta in due stanze, un fatiscente bagno turco. Per lavarsi un tubo di gomma attaccato alla rete idrica esterna, fatto passare all’interno attraverso la finestra. Solo due stufette elettriche per riscaldare gli ambienti, e la neve cade incessante da giorni su Diyarbakir. La temperatura di notte ha raggiunto i meno dieci gradi, l’acqua che sgorga dalle grondaie gela a mezz’aria.
Una donna, sulla porta della sua frutteria racconta “Eravamo seduti in casa e abbiamo sentito una forte esplosione, come di una bomba. Pensavamo avesse colpito casa nostra e invece era al quarto piano. Erdogan continuerà questo assedio finché non ci avrà uccisi tutti. Vogliono fare una strage”.
In gennaio a Sur, alloggio al Grand Guler, un albergo tre stelle in piazza Dagkapi. Anche lì ci sono degli sfollati. Alcuni sono siriani, altri sono curdi scappati dai quartieri di Sur sotto assedio, curdi che alle elezioni politiche dell’1 novembre scorso hanno votato Akp, il partito di Erdogan. Il governo di Ankara impone agli alberghi della zona di accogliere queste famiglie, pagando vitto e alloggio.
“Durante la campagna elettorale ho fatto visita a molte famiglie. Ho chiesto ad una donna anziana perché andasse a votare per l’Akp. Mi ha risposto che votava Akp perché era il partito che avrebbe fermato questa guerra. Dopo le elezioni le violenze sono riprese ancora più duramente” afferma, grave, Ayhan Dogrualp, co-presidente della sezione di Sur del Dbp, il partito curdo della pace e della democrazia. Un fazzoletto verde in testa, Dogrualp siede dietro ad una scrivania. Campeggia, sulla parete alle sue spalle, il ritratto di Abdullah Ocalan, il leader del PKK. “I curdi sono i soli che si oppongono al sistema presidenziale che Erdogan vorrebbe imporre in Turchia, per questo cerca di spazzarci via da qui, dal Kurdistan. Con il successo dell’Hdp per la prima volta abbiamo ottenuto una rappresentanza al parlamento ma il partito di governo non l’accetta. Non è il Pkk che è entrato nelle città e ha iniziato a combattere. La realtà è diversa da come la racconta la stampa. Se i media internazionali traggono le notizie dai media turchi, certo, non possono che raccontare queste falsità. Diversi nostri sindaci sono stati arrestati perché chiedevano forme di autogoverno, di autonomia amministrativa. Le barricate nelle strade non sono state costruite dal Pkk ma dalle persone, dai cittadini, dai giovani che vogliono difendersi contro la violenza dello stato”.
La repressione governativa passa non solo attraverso i bombardamenti, gli scontri, gli arresti indiscriminati ma anche per via economica. “Il governo” spiega Omer Onen, copresidente dell’Hdp di Diyarbakir “ha sospeso ogni sorta di finanziamento alle municipalità che hanno le casse vuote e questo vuol dire non poter far fronte ai bisogni primari della popolazione. Senza considerare che Sur era il distretto delle manifatture, dell’artigianato, del piccolo commercio e del turismo, la devastazione in atto ha conseguenze importanti per l’economia dell’intera città”.
Ziya Pir, deputato dell’Hdp, ancora in gennaio spera per una soluzione politica del conflitto. Seduto sulla poltrona, stile inglese, nella sede del partito a Diyarbakir ribadisce le richieste curde. “L’insegnamento nella propria lingua, il riconoscimento dello status di curdi a livello costituzionale e l’autonomia amministrativa” spiega Pir. “Si potrebbe prevedere una ripartizione dello Stato in più regioni, o cantoni, o province. Ogni regione avrebbe un’autonomia amministrativa e poteri decisionali in materia di sicurezza, in ambito culturale, linguistico. Ovviamente la lingua turca sarebbe la lingua ufficiale ma, accanto al turco, nelle regioni curde si adotterebbe il curdo come seconda lingua. Come in Germania che è una repubblica federale, ha un governo centrale ed è divisa in sedici federazioni. L’educazione, la sicurezza e la cultura sono amministrate dalle federazioni. Per il resto il potere è diviso tra federazioni e potere centrale. La federazione di Baviera, si descrive nella sua costituzione come uno stato libero. Quello che noi vogliamo è poterci chiamare federazione autonoma. Non vogliamo imporre nulla al governo turco, ma vogliamo suggerire una soluzione e siamo aperti a discutere, a negoziare su questa nostra proposta”.
Il 27 gennaio il coprifuoco è esteso ad altri sei quartieri, undici su quindici sono ora sotto assedio. Intere famiglie portano via di tutto da casa, mobili, divani, materassi, pentole, bicchieri. Tutti si danno da fare, anche i bambini. Corre, quasi saltella, trascinando il peso di due scarponi marroni più grandi due misure, una bimbetta vispa ma seria, poco più di 5 anni. Con i fratelli più grandi fa da spola da casa al furgone dove papà ammassa e pressa ogni cosa. E’ tardi e su, nel cielo ripulito dal grigio grave delle nuvole gonfie di neve e finalmente tornato azzurro, ché l’esodo non sia ancor più duro di quanto già di per sé, l’elicottero della polizia sorvola inarrestabile i vicoli e ritorna minaccioso. In lontananza gli spari degli scontri, arrivano cadenzati ma incessanti, e ogni nuova raffica accelera il passo degli sfollati da far venir l’affanno, curvati sotto il peso dei tappeti arrotolati e caricati sulle spalle, delle lavatrici issate sulla schiena. Lungo i vicoli ampi teli bianchi penzolano tra i palazzi, dal tetto fino a sfiorare il terreno, per schermare la vista e proteggersi dai cecchini. Nelle aree più a ridosso dei quartieri già sotto assedio, dietro le barricate costruite con i mattoni divelti dalle strade e i sacchi di sabbia, i giovani delle Yps vigilano, a protezione dei famigliari, armati di kalashnikov, bombe a mano appese alla cintura, e Rpg, i lanciarazzi di fabbricazione sovietica. “Siamo qui per i diritti del nostro popolo, per difenderlo” afferma il comandante Dora, il volto coperto dal passamontagna nero, berretto e cappuccio in testa. “Lo stato turco perseguita la nostra gente. Noi difendiamo la nostra gente contro questa oppressione. Potremmo non essere forti sul piano tecnologico, ma siamo forti sul piano morale. Vinceremo, alla fine ce la faremo”.
Nel giro di pochi giorni il coprifuoco è esteso a tutto il distretto di Sur e sarà ufficialmente revocato il 10 marzo. Ma solo una parte del distretto sarà effettivamente sgomberata dalle forze di polizia, diverse quartieri rimangono tuttora inaccessibili. Dei 130mila abitanti, neanche 2000 hanno potuto rientrare nelle proprie case, la maggior parte sono state sventrate, ridotte in macerie. Qualcuno ha riaperto il negozio nel tentativo di un ritorno alla normalità e i rettangoli giallo-arancio che le lampade interne descrivono sulle pareti dei palazzi di Gazi Caddesi, sono come lumini accesi di speranza. Per metri e metri sono i soli a segnare il passo nel nero di una sera di fine marzo, fino allo squarcio della lussuosa quanto surreale illuminazione di un albergo cinque stelle, mentre tutt’intorno è silenzio, macerie, sporcizia e sacchi di sabbia dei posti di blocco, ancora ogni venti metri ad ammonire la città.
Le antiche mura di basalto nero, le moschee e le chiese sono state pesantemente danneggiate dalle bombe lanciate dagli elicotteri e dall’artiglieria pesante. La moschea di Kursunlu è stata bombardata da un attacco aereo. Ha il fronte ridotto a groviera dai colpi di artiglieria pesante. Un incendio ha danneggiato decorazioni e ornamenti sulle parete interne. Secondo la relazione redatta dall’unità di monitoraggio e indagine della municipalità di Diyarbakir, pesantemente colpite anche la chiesa armena di Surp Giragos, la moschea di Sheikh Muhattar le cui pareti sono state parzialmente distrutte per facilitare l’ingresso di veicoli blindati in strada, la Casa museo di Mehmed Uzun e uno degli storici sette bagni pubblici, Pasha Hamam. Il distretto di Sur è riconosciuto dall’Unesco come patrimonio mondiale dell’umanità.
Il 21 marzo il governo ha emanato la legge n. 2942 stabilendo l’espropriazione dell’82 percento di Sur, “un’area di 159 ettari divisa in 6.292 lotti. Lì si trovano edifici residenziali, negozi, ma anche monumenti” spiega in un’intervista Roni Herdem, portavoce di Piattaforma-Sur, una coalizione di organizzazioni della società civile che si oppone all’esproprio di proprietà a Diyarbakir-Sur. “Non c’è altro esempio al mondo di un governo che abbia espropriato un’intero distretto”. Un regalo alla popolazione proprio nel giorno del newroz, il capodanno curdo, vietato quest’anno in tutte le città del sud est per impedire probabili provocazioni durante gli eventi, i raduni, gli assembramenti, questa la motivazione ufficiale. Solo a Diyarbakir sarà concesso, del resto sarebbe stato folle impedirlo nella, di fatto, “capitale” del Kurdistan turco. L’area della manifestazione era presidiata dalle forze di polizia, ciò non ha impedito un’affluenza di circa mezzo milione di persone. Una festa di colori e musica. Questo è stato il Newroz di Diyarbakir, nonostante tutto. Ma la dura repressione di Sur ha evidenti effetti psicologici sull’intera città. Anche negli altri distretti le piazze sono transennate per evitare assembramenti e controllate da militari e poliziotti in borghese. Passeggiarvi e attardarsi anche solo per scattare classiche foto “turistiche” può destare sospetto. Non ricordo il nome della piazza in cui mi trovavo una mattina di fine marzo, ricordo un obelisco dedicato ad Ataturk e poi una fontana da terra, gli zampilli dal terreno lasciavano intravedere una donna col velo seduta, di sfondo, su una panchina. Mi attardo a provare varie inquadrature quando una mano sulla spalla, risoluta, mi costringe a voltarmi. Sono in due, uno in mimetica armato di mitra, l’altro in borghese col l’auricolare nell’orecchio. Controllo del passaporto e poi della tessera di giornalista. La domanda è se sia legittimo tenere una persona per tre ore di fila, in piedi sul marciapiede, davanti a un muro di poliziotti (20 si avvicenderanno a più riprese quella mattina), 2 blindati e 2 furgoni e poi, cambio di guardia, altri due più due, offerta al pubblico sguardo per imbarazzarla e, insieme, fungere da monito, solo per aver scattato delle foto turistiche.
I passanti, tutti, dirigono gli occhi verso di noi ma nessuno oserà intervenire, comprensibile. Solo qualche anziano guarda torvo i poliziotti ma il conforto dura poco perché altri invece, li salutano con cortesia, qualcuno si avvicina addirittura a stringere loro la mano.
Solo una donna, di età tra i 50 e i 60, fazzoletto in testa, abito lungo fino a coprire le caviglie, con fare cortese ma accalorato, si preoccupa di avvicinarsi e chiedere ai poliziotti di lasciarmi andare perché siamo tutti fratelli, “io prego per voi poliziotti e per lei e per noi tutti, lasciatela andare, viviamo in pace”. “Suo marito è russo” mi informa il poliziotto che poi, imperterrito riprende con l’interrogatorio, martellandomi il cervello, da tre ore, sempre con le stesse domande. “Perché sei qui a Diyarbakir? Sei stata qui anche in novembre e in gennaio, perché? Perché sei tornata qui per la terza volta? Dovresti piuttosto visitare Ankara o Istanbul che è la capitale dell’Impero Ottomano. Ami il popolo turco? Ami la polizia turca?”. Riesco a farmi passare per una giornalista che ama viaggiare e mi lasciano andare.
Resti dei cadaveri sono stati rintracciati nelle ultime settimane tra le macerie che le forze di polizia turche caricano da Sur gettano nel fiume Tigri, per occultare l’occultabile. E’ questo il motivo per cui, cessato il coprifuoco, l’assedio di fatto continua? Non si vuol incorrere nello stesso errore commesso a Cizre, città della provincia di Şirnak, verso il confine con la Siria, dove un coprifuoco h24, iniziato il 13 dicembre 2015 e terminato solo in marzo, ha causato la morte di centinaia di persone, circa 300 secondo un rapporto del Dbp, per la maggior parte civili, bambini e anziani. Cessato l’assedio, la popolazione è rientrata in città e ha trovato corpi carbonizzati, mutilati, tagliati a metà, di donne, uomini, bambini. Le loro case distrutte e oltraggiate con scritte nazionaliste, razziste e sessiste. I materassi sporchi di urina e feci. Si racconta al mondo che si sta lottando contro i terroristi del Pkk. A farne le spese è la popolazione civile. I bambini ridotti al silenzio, non parlano più da svegli, solo la notte urlano di terrore “Mamma, ho sentito un rumore, ci uccideranno”. Lo denuncia, in un rapporto, la Bar Association di Diyarbakir.
Ho cercato di entrare a Cizre in occasione del Newroz, il capodanno curdo, ma la delegazione internazionale a cui ero aggregata è stata bloccata, come tante altre provenienti da Francia, Germania, Olanda. A 20 chilometri dal perimetro cittadino una barriera di ragazzini in divisa verde ha sbarrato il passo. A dar man forte, cannoni di carro armati puntati sulla folla e blindati con idranti pronti all’uso. Sulle colline intorno, i guardiani dei villaggi con il mitra puntato. Una delegazione di deputati di Hdp, e rappresentanti del Dbp, del Dtk (Congresso della società democratica) e del Kja (Congresso delle donne libere) hanno tentato di negoziare, ma non c’è stato niente da fare. All’arrivo di Selahattin Demirtas, presidente dell’Hdp, i gendarmi hanno indossato le maschere antigas, impugnato gli scudi, pronti ad attaccare. “Vogliono impedirci di incontrare la nostra gente, seminano terrore per i villaggi, per le città. Ma il popolo è ancora in piedi e noi siamo con lui nella lotta contro l’oppressione fascista” ha dichiarato Demirtas alla stampa, in piedi, di spalle ai gendarmi. Neanche a lui, deputato dell’assemblea turca è concesso l’accesso in una città dello stato turco. D’altronde, venerdì 20 maggio scorso, su iniziativa del partito di governo AKP, il parlamento, con 376 voti a favore su 550 e il sostegno trasversale dell’opposizione nazionalista dell’Mhp, i fascisti “lupi grigi”, e di una ventina di deputati del partito socialdemocratico Chp, ha votato l’abolizione dell’immunità parlamentare. Ora 138 deputati dell’Hdp rischiano l’arresto con l’accusa di terrorismo per fiancheggiamento al PKK. Sono 50 su 59 i deputati dell’Hdp indagati, 675 le inchieste avviate, 75 a carico di Demirtas.
La repressione da Sur, Cizre e Silopi si è spostata ed è in corso a Nusaybin e Sirnak. Fonti curde denunciano un probabile uso di armi chimiche, come si sospetta sia stato anche a Cizre, nei bombardamenti delle forze turche. A Nusaybin, dopo 74 giorni di resistenza, i giovani guerriglieri delle Yps si sono arresi e hanno lasciato la città lanciando un appello “ai difensori della democrazia e dei diritti umani in Kurdistan, alla Turchia e alla comunità internazionale” perché si assumano “la loro responsabilità e intervengano” perché “i nostri civili, bambini indifesi e gli anziani non siano massacrati come accaduto a Cizre”.
Testo e foto di Valentina D’Amico
http://www.qcodemag.it/2016/06/09/cronache-dal-coprifuoco-di-sur/