Al Guanella si rinnovano le “Resistenze” di Oltreunpo’ teatro
Il 1° e il 2 marzo 2019 al teatro Guanella di Milano si è svolta la rappresentazione dello spettacolo Resistenze, ideato e diretto da Marco Oliva, con Elena Martelli interprete dei personaggi femminili, Martino Iacchetti interprete maschile e cantante, e Manola Vignato voce narrante e fil rouge dello spettacolo. È un rinnovamento significativo rispetto alla rappresentazione che ho avuto occasione di recensire lo scorso anno. Va in scena in concomitanza con l’importante ricorrenza del terzo anniversario dalla barbara uccisione di Berta Cáceres, fondatrice del COPINH e figura chiave dello spettacolo oltre che della resistenza al giorno d’oggi, come anche ricordato in un breve dialogo dopo il sipario tra il regista Oliva e Anna Camposampiero, rappresentante del comitato Berta Vive Milano.
Lo spettacolo inizia con la staffetta partigiana Carla che corre e pedala sulle note di Bartali, suonata con la chitarra acustica da Iacchetti, per poi nel quadro successivo fare un salto temporale di settant’anni e passare alla lotta di Berta in Honduras, contro una joint venture multinazionale che voleva espropriare la terra e il fiume agli abitanti indigeni. Questi, attorno alla figura dell’attivista premio Nobel per l’ambiente, avevano raccolto la resistenza contro la prepotenza, una prepotenza che alla fine ammazzò Berta pur di giungere al suo scopo. Il significato è ancora più esplicito rispetto alla scorsa versione di Resistenze, oggi come ieri bisogna resistere e quindi lottare anche dando la vita, come Berta e Carla. Se era il luogo accogliente e raccolto a coinvolgere nella messinscena precedente questa volta è il ritmo, più rock, come se a un anno di distanza l’occorrenza di lottare si sia fatta più forte. Infatti Iacchetti dismette la chitarra acustica per imbracciare quella elettrica, ne fa uscire un suono distorto, come Hendrix a Woodstock; il suono di una democrazia falsata, di un Sudamerica violentato dall’avidità, dalla corruzione, il popolo che viene represso e ammazzato se solo osa alzare la voce per dire che sono del popolo la libertà e il potere.
Le immagini proiettate ci portano in un altro continente, un’Africa in cui quel che non ha potuto il colonialismo ora stanno facendo le logiche dell’economia globalista. Un territorio ricolmo di risorse sottratte agli abitanti locali per poter illuminare le città occidentali o ricaricare di energia i nostri smartphone costruiti con i materiali delle loro miniere, le loro ricchezze nelle nostre ingenue mani, che chiudono il cerchio dell’imperialismo asiatico e occidentale. Ma non è solo un continente espropriato l’Africa, è anche un continente inquinato, ecologicamente e politicamente, in cui ogni forma di resistenza pare impossibile da organizzare, o addirittura concepire. In pochi, se hanno la possibilità di partire, rimangono, per l’inerzia dell’amore della propria casa, mentre gli altri fuggono e alle frontiere presentano il conto in vite umane delle nostre ricchezze.
Le frontiere sono quelle americane ad esempio, con la carovana della speranza dall’Honduras, migliaia di persone che spesso si fermano già in Messico; eppure la minaccia dei migranti strombazzata nelle tv via cavo riesce a bloccare il governo statunitense proprio sulla costruzione del muro di Trump. Infatti il 45° presidente degli USA compare in scena agitando la sua mazza da golf e portando con sé un cane da guardia, un buffo giocattolo allegorico che serve da staffetta sul palco con l’altro dittatorucolo ungherese Orban. Anche lui parla di patria, ma stride il contrasto con chi per patria intende la terra in cui la comunità di persone è una grande famiglia, e chi parla di patria “mentre si prepara ad uccidere”, mentre si prepara alla violenza passiva del filo spinato e cavalca l’odio per le difficoltà economiche, mutandolo in odio per il diverso, per il prossimo che ha dovuto abbandonare il suo paese.
Ma allora contro chi dobbiamo resistere oggi? Siamo portati a credere che il nemico sia chi arriva per mare o con le scarpe consumate da una lunga marcia, o sembra che il nemico per noi che viviamo al sicuro nelle nostre abitazioni sia un terrorismo lontano. La distorsione mediatica fa credere talvolta che anche chi riesce ad organizzarsi in resistenza pare anch’egli terrorista, solo perché disturba o lotta con la stessa foga con la quale verrebbe schiacciato, quando invece testardamente prova a farci destare dal nostro eterno presente. Nel terzo mondo il nemico è davanti, una mano invisibile che diventa pugno d’acciaio per schiacciare come un bulldozer ogni ostacolo di quella che è la folle logica della nostra economia capitalista. Il nemico sono gli aerei che bombardano il Kurdistan, progettati con perfetta tecnica occidentale, quella stessa conoscenza elitaria che traina anche i politici di “sinistra” a confermare le leggi economiche.
Per resistere, scrivevo nel precedente articolo, bisogna partecipare. Non è facile scegliere come farlo però, si può partire per paesi lontani, oppure ci si può provare con l’arte, che sia un quadro di Banski per Zehra Doğan o che sia uno spettacolo teatrale. La cosa più importante è prendere coscienza del prezzo della nostra tranquillità, cosa che a Resistenze riesce benissimo e ci fa capire anche contro chi combattere. Non è un personaggio qualsiasi, una manifestazione del reale, Trump o Orban. Bisogna ribellarsi contro un sistema che noi stessi contribuiamo a creare anche semplicemente scaldando del caffè col gas rubato a qualche popolo lontano, macinato da chicchi coltivati in altri continenti col sudore e con la deforestazione. Come ci ricorda anche il ritmo serrato dello spettacolo, il tempo stringe e si avvicina la scadenza del cambiamento climatico irreversibile. Non basta più resistere, bisogna anche lottare.