Un chai con Meryem Kobane, comandante dello Ypj
Ci annunciano l’incontro come una sorpresa, un privilegio, un’occasione rara e affatto scontata.
Meryem Kobane, uno dei tanti nomi di battaglia che in Rojava segnano le vite di chi da anni ha scelto la rivoluzione e quindi la clandestinità, è una comandante dello Ypj. Una vera e propria istituzione della resistenza femminile. Una delle fondatrici dell’esercito di autodifesa. Un passato nella guerriglia e un presente in prima linea. In città non rientra quasi mai perché dopo la liberazione ha scelto, come tantissime, di inoltrarsi sulle montagne e di continuare la battaglia di annientamento dell’Isis e di messa in sicurezza del Rojava. I ragazzi del mediacenter, nostri inseparabili ed indispensabili accompagnatori, avevano saputo che sarebbe rientrata per qualche ora a Kobane e hanno fatto di tutto per organizzare l’ incontro.
L’appuntamento è nel piazzale del centro Logistico dello Ypg. Meryem ci aspetta lì, insieme con una guerrigliera giovanissima che dimostra ancora meno dei suoi 18 anni. Fino a quel momento avevamo già incontrato un gran numero di guerriglieri ma tutti uomini. Le donne sono quasi tutte al fronte e in città si parla di loro con il rispetto che si deve a figure eroiche della liberazione . La prima cosa che ci colpisce è il sorriso che Meryem e la sua piccola accompagnatrice sfoggiano senza riserve quando “Marhaba” dopo “Marhaba” ci presentiamo, rispettando la ritualità del saluto curdo, con cui lentamente cominciamo ad entrare in confidenza. Con il consueto argomentare pacato a cui in Rojava si da’ pressappoco la stessa importanza della guerriglia, Meryem dà disposizioni per lo spostamento infilando in macchina con lei noi ragazze, dando appuntamento agli altri-i maschi- direttamente alla sede dello Ypj.
Nell’abitacolo la lingua, come sempre, è un ostacolo insormontabile. Meryem , come tutti i curdi, rifiuta le lingue del colonialismo. Così durante il breve tragitto che ci conduce alla meta restano i sorrisi e gli occhi gonfi di ammirazione che non riusciamo a nascondere.
La sede dello Ypj è un posto strano, un posto che mostra immediatamente l’estrema normalità della resistenza . I vestiti, i fermagli, i profumi, le spazzole, le scarpe non da guerra si mescolano alle armi e alle tute mimetiche in un quadro composito che crea inevitabilmente un alone di familiarità. Siamo tra noi e questa è innanzitutto una casa di donne. Le guerrigliere arrivano una ad una per abbracciarci e ringraziarci. Come sempre, mentre ognuna di loro si batte la mano sul petto in segno di gratitudine noi avremmo solo voglia di rispondere che siamo noi a ringraziare loro per tutto quello che hanno fatto, per tutto quello che hanno insegnato alle donne del pianeta. Non riusciamo a farlo in modo articolato e come sempre ripetiamo solo “Spas” (grazie in curdo), come una cantilena.
L’arrivo del Chai in Kurdistan sancisce l’inizio della conversazione. Tutto avviene con tempi che a noi appaiono insopportabilmente lenti e che sono per loro i tempi dell’ascolto e della demolizione delle posture machiste. Non è facile abituarsi, ma neppure interrompere Meryem mentre comincia a spiegare cos’è un processo rivoluzionario e alle nostre sollecitazioni sulla forza femminile e sull’autodifesa risponde che la Rivoluzione inizia con la difesa dei rivoluzionari, e la difesa dei rivoluzionari è l’educazione. L’educazione in questo senso è un modus operandi quotidiano che accompagna la sensibilizzazione alla pratica immediata del confederalismo democratico e che passa inevitabilmente per un radicale smantellamento della mentalità patriarcale. Quello che Meryem ci spiega senza riserve è che il Rojava da questo punto di vista è un posto del mondo come tanti altri e fa i conti con le incrostazioni millenarie di subalternità femminile e retaggi patriarcali. Ecco perché, prima della guerra, la pratica quotidiana delle combattenti dello Ypj era quella di battere ogni villaggio, bussando alle porte di casa in casa, aprendo confronti capillari e dibattiti sulla libertà delle donne, senza dare mai niente per scontato. Libertà che per diventare reale deve partire dall’interno di ciascuna, perché senza percezione dell’importanza dell’identità interiore, non è possibile cambiare le condizioni materiali e sovvertirle. Da questo punto di vista in Rojava perdono senso moltissimi dei dibattiti interni al femminismo europeo (che pure Meryem conosce benissimo) sulla non violenza e sull’egemonia maschile della forza. Le armi e la pratica della resistenza sono un’assunzione di responsabilità quasi ovvia nel momento in cui una donna riesce a lasciare la propria famiglia e la dimensione domestica dei piccoli villaggi in cui l’educazione si articola quasi unicamente sul lavoro casalingo e sulla propensione alla maternità. Lasciare l’oikos significa addentrarsi in una società già articolata sullo smantellamento delle diseguaglianze di genere, una società in cui né il protagonismo politico, né quello militare possono tollerare un ingiustificato primato maschile. E’ come dire che le strutture formali in Rojava ci sono tutte affinché le donne e gli uomini abbiano lo stesso diritto alla gestione e alla amministrazione della cosa pubblica tuttavia c’è un immenso lavoro da fare per demolire la microfisica del potere patriarcale e la divisione naturalizzata dei ruoli in base al genere.
Lasciare casa diventa quindi il primo gesto politico, grazie al quale si esplicita definitivamente quella propensione rivoluzionaria che deflagra le mura del privato e che prevede di essere pronte a dare la propria vita per tutti, non solo per i propri cari.
Meryem si ferma continuamente mentre argomenta. Ci guarda uno ad uno con curiosa attenzione. Attende di ascoltare anche anche le voci maschili e così scopre alcune nostre rigidità. Ad ogni pausa sia lei che le altre combattenti ci tengono a ribadire quanto questo processo sia difficile, quanto bisogna fuggire le idealizzazioni e quanto siano ancora elevati i meccanismi di controllo legati ai retaggi della società patriarcale.
Se ci fosse stato un bagaglio immaginario di domande femministe con cui saremmo arrivate a questo incontro se l’avessimo previsto, sarebbe sicuramente arrivata la domanda sul separatismo e sugli ambiti misti. Indipendentemente dalle nostre volontà, l’estrema importanza che le donne curde attribuiscono all’educazione collettiva però ha accompagnato la discussione verso la tematizzazione del metodo. Meryem e le altre lo riassumono efficacemente affermando che le assemblee tra donne si devono fare, perché questo permette il riconoscimento di una condizione comune e l’elaborazione di strategie collettive di liberazione che abilitano in un secondo momento alla condivisione del movimento, che è lo spazio politico di tutti e tutte e pure lo spazio dell’incontro e dello scambio su queste questioni specifiche. E’ necessario che le donne trovino prima la forza dentro e tra di loro, poi, una volte liberate, saranno pronte per condividere il movimento con gli uomini. Come ci diciamo spesso anche tra noi e nei nostri spazi di movimento in occidente questo processo di educazione deve anche mirare a cancellare quelle dinamiche che spesso si instaurano anche all’interno delle collettività organizzate o delle assemblee e che lasciano spazio, attraverso la mancata educazione ad una postura non prevaricatrice, alla definizione subalterna del ruolo politico delle donne. In fin dei conti, escamotage eterodirette come le quote rosa, nascono proprio come cura ad una malattia che non si affronta con sufficiente coraggio e che spesso ha nascosto pure dietro l’alibi della differenza nuovi meccanismi di esclusione. Tra le pareti delle stanze della sede dello Ypj, ma pure nelle conversazioni con le rappresentanti istituzionali dei cantoni, si respira aria non viziata dalle asfittiche dicotomie novecentesche nelle quali il femminismo troppe volte è rimasto incastrato. Parità e differenza camminano di pari passo dentro la convinzione che abolite tutte le forme di discriminazione rispetto all’accesso, la cifra eccedente del femminile non è biologica ma è legata semplicemente ad una più spiccata capacità di connessione.
Connessione che certamente riguarda segmenti sociali incapaci di comunicare ma anche più semplicemente il rapporto tra le generazioni e il rifiuto di un certo giovanilismo che in occidente ha comportato la recisione dei ponti comunicativi con gli anziani, diventati “merce vecchia” spogliata dell’autorevolezza conferita loro dall’età e dall’esperienza. Una questione questa che decontestualizzata potrebbe addirittura apparire conservatrice e che invece inserita nella critica radicale ai legami familiari tradizionali messa in opera dallo Ypj e dalla dottrina di Ocalan, assume tutto il senso di un monito contro la velocità e la dismissione della cura tipico delle società a capitalismo avanzato. Quanto conta proprio questa temporalità vorace del consumo nell’articolazione delle relazioni in occidente, ci ha chiesto, senza retorica, Meryem durante la discussione. E soprattutto quanti arretramenti ha subito la condizione femminile sotto la bandiera della difesa della libertà? Da questo punto di vista la decolonizzazione del linguaggio e l’operazione di semplificazione che le donne curde provano continuamente per far sì che la trasformazione coinvolga capillarmente tutta la società, è innegabilmente una importante lezione di democrazia, come solo il Rojava riesce ad impartirne. Così come è una lezione altrettanto significativa la traduzione politica della propensione all’accoglienza e alla cura, tipica del popolo curdo.
Prima di andare via per lasciarla tornare sulle montagne al fronte chiediamo a Meryem cosa farà dopo la rivoluzione. Cercherò di difendere la libertà delle donne di tutto il mondo, ci risponde ferma mentre sorseggia il fondo del chai ormai freddo.
Quella del Rojava non è una rivoluzione che si accontenta di costruire un perimetro di impermeabilità e di sicurezza. E’ un vento forte, che innanzitutto scompagina le storie rivoluzionarie del novecento e che in nome della democrazia radicale sta scrivendo una storia globale di resistenza che guarda alla moltiplicazione. Meryem e le altre sono tra le protagoniste di questa straordinaria vicenda di conflitto e sovversione. Tutto attorno a loro, sulle pareti della stanza nella quale parliamo, fumiamo, ci guardiamo negli occhi, i volti giovani e belli di tutte quelle che non ce l’hanno fatta. Arin, Meral e le tantissime Zilan. A loro, al sangue versato per una liberazione che parla la lingua che abbiamo provato a restituirvi in questo scritto, va probabilmente dedicato, come tante hanno già fatto, questo otto marzo dell’anno della liberazione di Kobane.
di Eleonora De Majo, Valentina Raimondi
Global Project