L’autogestione curda nei campi dei rifugiati
Nella città di Suruç i fuggitivi di Kobane trovano riparo in alcuni campi organizzati insieme alle istituzioni cittadine
Siamo a Suruç, un centro di diverse migliaia di abitanti che si è trovato ad affrontare l’arrivo di migliaia di profughi in fuga dagli attacchi dell’Isis. Al governo di questa cittadina è stata eletta una donna del DBP, il Partito della Democrazia delle Regioni, mentre lo Stato qui arriva solo con i suoi carri armati e apparati di sicurezza. Lungo la strada principale vediamo i campi per i rifugiati autogestiti dai curdi. Anche se ha le sue basi a pochi metri dai campi, l’esercito turco qui non viene fatto entrare: per la sicurezza interna di un campo di oltre mille persone bastano poche donne e nessuna telecamera. All’ossessione del controllo si sostituisce l’autogestione e la responsabilizzazione di tutti e tutte. Sembra scontato, abituati come siamo alle immagini dei centri di accoglienza italiani o ai campi nati dopo la tragedia del terremoto aquilano, che siano i governi a dover gestire tutto, con un giro milionario di soldi, i conseguenti sprechi e Bertolasi vari.
Per chi come noi cerca di vivere di percorsi di autogestione, è importante capire come migliaia di persone affrontino l’emergenza di una guerra e di una fuga oltre confine, usando lo stesso modello, radicato nel Rojava, in maniera così efficiente da lasciare incantati. Una realtà che ha portato molti di noi a solidarizzare con la lotta del popolo kurdo e con l’esperienza del Rojava.
Nella regione di Soruc ci sono 6 campi autogestiti, nati per affrontare l’emergenza di 45/60 mila persone costrette a lasciare Kobane. Molti hanno trovato rifugio nella case dei parenti, mentre per tutti gli altri l’amministrazione comunale sta cercando di costruire delle strutture capaci di funzionare in completa autonomia, senza ingerenze da parte del governo turco.
Si tratta di campi gestiti dall’amministrazione cittadina attraverso un percorso orizzontale che cerca di coinvolgere chiunque viva nei campi. Ogni campo è diviso in “quartieri”, ognuno con un suo consiglio e dei rappresentanti, delle commissioni specifiche (salute, educazione, etc) e vari organi che decidono insieme le iniziative da prendere.
Tutti vengono coinvolti nella vita del campo, dalle pulizie alla sicurezza. Per ogni problema vi sono dei referenti specifici, chiunque viene ascoltato. Con la scuola e gli psicologi si cercano di affrontare i traumi dei bambini e ogni campo si sta attrezzando per avere il proprio centro culturale. Viene insegnata la lingua curda e le tradizioni popolari, canti e balli in primis.
Servirebbero dentisti, ci dicono, ma non ve ne sono. Sono tanti i volontari accorsi per aiutare nei campi. Hassan, ingegnere che vive a Istanbul, ha mollato tutto per venire ad occuparsi degli impianti elettrici nei campi. E’ un curdo-iraniano, specifica con orgoglio. Ogni ruolo, un po’ come avveniva nelle comunità zapatiste, non è fisso bensì è prevista una rotazione tra i vari responsabili.
Le risorse non sono infinite e le difficoltà sono tante. Ci raccontano che spesso il governo turco blocca i flussi dei finanziamenti che arrivano dalla diaspora curda tanto quanto il lavoro delle organizzazioni internazionali. Non c’è l’UNHCR, la Turchia non accetta ingerenze esterne, ma si respira la sensazione che neanche i curdi vogliano ingerenze straniere. Sono aperti a qualsiasi collaborazione, accolgono volontari a braccia aperte ma nessuno deve mettere in discussione il loro modello auto-organizzato.
Anche se le condizioni di vita non sono facili, si respira un profondo ottimismo. I rifugiati sanno di non essere a casa loro, si sentono lontani dalla loro terra che pure è a un tiro di fucile, ma non hanno rinunciato a ricostruire la loro vita nei campi con la stessa orizzontalità con cui la Rojava si autogestisce da ormai due anni. Non si sa tra quanto potranno tornare in quel che resta delle loro case e se mai ci torneranno. Ma si ha come l’impressione che non vogliano rinunciare a quello che hanno conquistato, le donne in prima linea.
All’ora di pranzo ci imbattiamo nell’inaugurazione di un centro culturale nel campo intitolato ad Arin Mirxan, la guerrigliera che ha preferito farsi esplodere pur di non cadere nelle mani dell’Isis. Sono in molti a festeggiare. Tantissimi i bambini, ma notiamo come siano pochi i ragazzi tra i 20 e i 30 anni. Ci raccontano che molti sono rimasti a Kobane, per combattere o semplicemente per resistere e assistere chi combatte. Spesso, tra questi, le donne della brigata YPJ.”
da Staffetta Romana per Kobane – CORE