La battaglia del popolo di Kobane
A Suruc, al confine tra Siria e Turchia, i rifugiati della città sotto assedio presidiano la frontiera. Nei campi profughi la speranza di tornare presto vince sul dolore per le perdite subite.
Kobane si vede benissimo, si vedono le colonne di fumo che si alzano dalle zone in mano allo Stato Islamico e si sentono chiare le esplosioni. A un chilometro dalla frontiera, ogni giorno, i rifugiati di Kobane – insieme a tanti curdi turchi arrivati da Diyarbakir, Batman e Urfa – monitorano quanto accade nella loro città. Con i cannocchiali, appostati sui tetti, controllano l’attività dell’esercito turco, accusato di impedire l’ingresso degli aiuti e l’uscita dei combattenti feriti e di chiudere un occhio sul passaggio di altri miliziani islamisti.
Nei due campi profughi di Suruc, ribattezzati “Kobane” e “Rojava”, migliaia di rifugiati sono stati accolti dal Comune. Gli aiuti arrivano solo dall’amministrazione locale e dai partiti di opposizione, Hdp e Bdp. Da Ankara il silenzio. “Le condizioni di vita qui non sono male, stiamo bene – ci dice una donna seduta con la figlia di fronte alla sua tenda – Ma l’inverno sta per arrivare. Come faremo contro il freddo?”.
Stupisce la forza di queste famiglie: i bambini si rincorrono, giocano e chiedono fotografie. Si mettono in posa, le dita a forma di V, il simbolo delle Ypg, i combattenti di Kobane.
foto e testo di Chiara Cruciati -Nena News
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