Perché l’ISIS vuole tingere di nero i colori del Medio Oriente?

Intervento di Floriana Bulfon al Convegno di Donne – Roma 11 Ottobre

Dimensioni degli attacchi messi in atto contro yazidi, kakai, yarsani, turkmeni e vari altri gruppi etnici e religiosi che vivono in Kurdistan meridionale

“Sono arrivati la mattina, hanno diviso gli uomini e i ragazzi dalle donne e dai bambini. Ci hanno portato dentro la scuola e ci hanno messi in due piani diversi, le donne sopra e noi al pianterreno. Ci hanno tolto i soldi, i telefoni e tutto l’oro. Avevano promesso di lasciarci andare. Hanno caricato noi uomini sui pickup e ci hanno portati un paio di chilometri ad est di Kocho. Ci hanno fotografato e poi hanno aperto il fuoco. Mi hanno colpito, ma di striscio. Sono caduto a terra e ho finto di essere morto. Quando se ne sono andati, sono scappato. Alcuni non riuscivano a muoversi e non potevano salvarsi. Sono stati lasciati lì, aspettando la fine. La loro è stata una morte orribile. Hanno ucciso mio cugino, aveva la mia età”. Khider 17 anni, yazida.

“Me l’ha portata via dalle braccia mentre camminavamo, non ho potuto fare nulla, prego Dio che la lascino, non posso dormire, penso solo a lei”. Mamma di Kristina, tre anni, cristiana, presa a Qaraqosh, 30 chilometri a sud est di Mosul.

Secondo le Nazioni Unite Daesh da giugno 2014 ha costretto oltre 700 mila persone a scappare.

Gli altri, in migliaia, sono morti o sono finiti a vivere nel terrore. Minoranze che da secoli vivono in quelle terre.

Yazidi, assiri cristiani, sciiti turcomanni, sciiti shabak, sabeani mandean, uezidi, costretti a convertirsi all’Islam, stuprati, rapiti e tenuti in prigionia, uccisi e gettati in fosse comuni. Vite mutilate, decapitate a coltellate, torturate a morte perché diverse e non omologate alla linea richiesta. Quella in cui chi comanda uccide, perché questo il messaggio da far passare.

Da far passare utilizzando la velocità dei social network, con video girati come se li avesse ideati l’art director di un’agenzia pubblicitaria, con un linguaggio globale e unificato simile a quello di un videogioco così da fare propaganda e affascinare i giovani occidentali, dove la brutalità selvaggia è esibita e compiaciuta.

Quella di Daesh è una guerra di annientamento, strumentalizza il potere della religione per portare avanti un’ondata di pulizia etnica contro le minoranze.

Una persecuzione brutale che ha trasformato queste terre in campi di sterminio, una persecuzione brutale volta a cancellare ogni traccia di chi non rientra nel nuovo schema.

In quest’ottica va vista anche l’opera di distruzione di tutti quei centri culturali o archeologici che possono essere ricondotti ad altre culture religiose.

A fare per prima le spese di questa furia iconoclasta è stata la Moschea di Giona, simbolo di Mosul, un “luogo di apostasia” da distruggere. La volontà degli jihadisti di cacciare per sempre gli infedeli dal “proprio” Stato, e di farlo colpendoli lì dove ogni uomo è più vulnerabile: nelle radici, nella cultura.

Daesh ha modificato i programmi scolastici, ha chiuso le scuole femminili, ha ucciso più civili musulmani che occidentali. Ha adottato un approccio basato sulla coercizione e sul terrore.

All’interno del mondo musulmano il fanatismo di Daesh è una componente del tutto marginale.

A mio avviso, nonostante le violenze non si tratta tanto di annientare un’altra fede, ma c’è uno scontro che ha l’obiettivo di sfruttare gli spazi vuoti lasciati dalla destrutturazione del potere statale in Paesi come l’Iraq e la Siria. L’obiettivo credo non sia colpire gli infedeli, ma appropriarsi di uno spazio politico che prima non esisteva. La stessa idea di creare un Califfato e di parlare di Stato islamico va in questa direzione.

Ho parlato del Kurdistan meridionale, di quello che è accaduto a Sinjar, ma non posso non parlare di Kobane. Ricordo quando ho detto: “ad agosto ho deciso di andare a vedere che accade nel Kurdistan siriano, qui nessuno ne parla né dell’autonomia democratica che hanno creato né del fatto che combattano contro Isis da tempo. Nulla di come si comporta la Turchia”. Ricordo gli sguardi e il disinteresse, ricordo il “ma io non vedo la notizia, che cos’è questo Rojava?”.

Poi ho chiamato Sveva, Yilmaz che qualcuno di voi conosce e sono partita. Senza sapere una parola di curdo, senza un interprete, con una telecamera prestata e i numeri di telefono segnati su un foglietto. Compagno di Antep, compagno di Suruc, compagno di Kobane, chiamare per parlare in inglese, chiamare se sei in difficoltà.

Penso a Idris che mentre mi portava a vedere le bande di Isis da lontano e mi spiegava l’organizzazione del cantone, le decisioni prese insieme, penso a chi combatteva con armi leggere e da lontano si vedevano carri armati e lanciarazzi, a un ragazzino che mi ha fatto vedere da un cellulare il video di Isis il giorno della decapitazione di Foley e mi ha detto hanno rapito mio fratello tanti mesi fa ma non smetteremo di lottare, a Ibrahim che mi ha portato a vedere suo papà in fin di vita che aspettava le cure e non arrivavano mai perché a Kobane da un anno e mezzo si viveva circondati da tre lati, dall’altro la Turchia e nessuno portava non armi, ma nemmeno aiuti umanitari, se non i curdi turchi che potevano entrare a fatica.
Penso a Orhan che non smetteva di chiedermi perché i giornalisti non erano lì, perché non si parlava delle armi date a Isis dai turchi, a Mustafa che parlava di Pkk, del fatto che in Segnal, in Sinjar, senza di loro non ci sarebbe stato il corridoio umanitario, eppure le armi venivano date ai peshmerga e mi chiedeva perché in Italia avessimo mandato via Ocalan.
A Evin una bimba di 12 anni che ho incontrato dall’altra parte della rete, alla frontiera turca. Stava lì da due giorni senza nulla e voleva tornare dalla mamma a Kobane. I soldati turchi l’hanno respinta. Non so se Evin sia viva. Non lo so se lo sia chi mi ha aiutato ad attraversare il confine, il medico di Kobane, un signore anziano che mi ha riempito un pacchetto di sigarette di pistacchi e poi, lui che non aveva niente, mi ha detto sei qui senza sigarette, te ne do un po’ delle mie, non lo so se lo sia chi mi ha accolto nella sua casa, mi ha preparato il tè, mi ha fatto vedere un kalashnikov e mi ha detto “è per la libertà”.

Non so se lo siano tutte le persone che ho incontrato e che hanno resistito con forza a chi vuole tingere tutto di un colore.

Distruggere Kobane è stato un piano, non un caso. Distruggere Kobane è distruggere un esperimento di sovranità autonoma e di autogoverno tra liberi e pari a prescindere dalla provenienza etnica o dall’appartenenza religiosa.

L’esperimento del Rojava si basa sulla democrazia popolare. Oltre ai curdi questa iniziativa include arabi, assiri, armeni e turkmeni. Tra questi gruppi ci sono diverse fedi, tra cui musulmani, cristiani, yazidi e aleviti. Si tratta di un modello che pratica l’unità nella diversità. Una rivoluzione democratica che è quanto di più lontano dal progetto dell’autoproclamato Califfato.

Daesh attacca da tempo e lo ha potuto fare nel silenzio della comunità internazionale. Penso a chi è rimasto immobile, in Turchia e non solo. Immobili davanti alle persone, respinte alle frontiere, abbandonate senza aiuti, immobili seduti a casa, pronti a fregarsene anche di un massacro. Immobili nella migliore delle ipotesi perché quei muri eretti a separare, quelle frontiere erano aperte per fare passare armi e combattenti da curare e addestrare.
Chi è rimasto immobile e chi ha sostenuto il massacro. Entrambi complici e responsabili in solido. Perché intanto a Kobane hanno continuato a resistere. Strada per strada, casa per casa, da soli. Soli a difendersi da Daesh e da una partita geopolitica criminale.

Vorrei dire una cosa sulle donne YPJ. Negli ultimi giorni sono state esibite le donne guerrigliere del Rojava e fa piacere, ma sono scomparse le organizzazioni politiche e di autodifesa in cui queste donne lavorano, vivono, lottano. Non sono bei volti da mostrare. Queste donne si sono organizzate come movimento per prendere e dare seguito a decisioni che riguardano non solo loro, ma la società. Si sono organizzate per chiedere libertà. E invece sono state lasciate sole.

L’obiettivo più probabile è quello occupare il Rojava esercitando una pressione internazionale per creare una zona cuscinetto nella regione. Precondizione svuotare la zona, fare una no fly zone, una fascia di sicurezza parallela al confine, dire che Isis è stato respinto e poi magari pensare ad addestrare i ribelli siriani contro Assad. Geopolitica ed interessi economici. Che importa se intanto si commette un genocidio.

Penso a queste giornate, le ultime in cui in tutti i modi i curdi hanno cercato di far sapere, al grido disperato di Enver Muslim, presidente del cantone lunedì scorso: “Se Daesh dovesse commettere un massacro di migliaia di persone tutte le potenze internazionali sarebbero ritenute responsabili”.

Poi poche ore dopo Rojin, Asya, Nayera, mi scrivono “aiutaci, fai girare il messaggio: Migliaia di civili sono minacciati di strage, stanno per essere uccisi e tempo di agire. Parlate di noi, chiamate una tv che possa documentare”. Ringrazio Barbara e le altre persone che, nonostante continuassero a essere persino prese in giro perché parlavano di Rojava, hanno attivato tutti i contatti.

“Noi combatteremo fino alla fine” ha sostenuto Muslim prima di imbracciare il fucile e tornare tra le sue strade, tra le sue case a difendere la libertà.

Io sono ritornata e la prima parola curda che ho imparato è stata spass. Spass, grazie per avermi insegnato che si può resistere anche davanti all’indifferenza del mondo.