Mauro Palma dichiarazione sulla detenzione di Abudllah Ōcalan
Non ho mai creduto che l’ergastolo sia una pena compatibile con il rispetto della persona, soprattutto quando non è possibile una sua revisione dopo un cospicuo numero di anni; quando cioè si configura come una condanna a vita senza possibilità di speranza. Del resto, questa posizione è in linea con quanto stabilito dalla Corte europea per i diritti umani di Strasburgo. Anche il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT), che ho presieduto negli anni passati, pur non interferendo con la legislazione dei singoli Stati, ha sempre stabilito il principio che ogni pena debba avere una possibilità di reintegro positivo nella collettività, dando così significato al tempo dell’esecuzione penale.
Questo principio è ancor più rilevante quando la persona condannata all’ergastolo finisce coll’essere ‘schiava’ di una vertenza politica che implicitamente assegna alla sua detenzione una funzione di messaggio e una connotazione simbolica che va al di là della considerazione della persona, del suo evolversi, della sua soggettività. La persona detenuta finisce così col divenire quasi un ‘ostaggio’ di qualcosa che trascende il suo comportamento detentivo e la sua possibilità di interlocuzione.
Ancora di più questa valutazione diviene determinante quando le condizioni di detenzione riducono al minimo le possibilità di socializzazione, configurandosi quasi come una segregazione rispetto al resto della popolazione detenuta e riservando la socialità a quella quantità minima che fa perdere di significato alla parola stessa ‘socialità’ per rasentare il vero e proprio isolamento. E, ancora di più quando la dislocazione del luogo di detenzione rende difficile, se non impossibile, l’apporto dei propri familiari, delle persone care e finanche dei propri legali.
Tutti questi elementi coincidono nella detenzione di Abudllah Ōcalan detenuto nel carcere dell’isola di Imrali nel mar di Marmara, sin dalla fine del secolo scorso e per quasi un decennio in totale isolamento, attutito poi dalla pseudo-socializzazione di un ristrettissimo gruppo di altre persone detenute sotto lo stesso regime.
Le condizioni di asettico distacco dalla realtà sociale che la sua detenzione in sé determina – e di cui ho avuto possibilità di diretta constatazione, oltre che di leggerla nei Rapporti pubblicati dal CPT – rendono insostenibile, dopo molti anni, il perdurare di un regime mai rivisto e divenuto sempre più elemento di un conflitto che esula dalla persona e diviene parte di una controversia che ha altre sedi di discussione, di tensione, di possibile composizione, che nulla hanno a che vedere con la materialità simbolica del suo essere in quel carcere e in quel regime detentivo. Per questo credo che gli Organi europei di controllo debbano tornare a interessarsi della sua situazione di detenzione, tornare a verificarla direttamente al fine di trovare il modo perché questa rientri nei parametri di quegli standard che l’Europa vuole affermare in ogni Paese e per tutti.
Mauro Palma
Presidente di European Prison Center, Università Roma Tre
Componente del Consiglio direttivo dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
già Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (Italian National Preventive Mechanism, under UN OPCAT)
già Presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti, Consiglio d’Europa