Gli Usa si ritirano dalla Siria, Erdoğan prepara l’attacco contro i kurdi
Drammatici scenari nel Nord della Siria. Erdoğan impone la propria volontà e costruisce le condizioni per distruggere la straordinaria esperienza del Confederalismo Democratico in Rojava. I Kurdi ancora una volta sono traditi e abbandonati al proprio destino.
Si avvicinano tempi difficili e scenari tragici per la rivoluzione in Rojava. La decisione dell’amministrazione Trump di ritirare le truppe dalla Siria del Nord – se confermata – avrà delle implicazioni immediate che comporteranno tragiche conseguenze.
Le truppe statunitensi sono stanziate nella zona a partire dalla decisione della amministrazione Obama di combattere sul campo l’avanzata dello Stato Islamico, nel 2014, il periodo in cui il califfato aveva fatto di Raqqa la sua capitale e si espandeva da Baghdad fino a quasi raggiungere il Mediterraneo.
È riconosciuto anche dai principali strateghi militari statunitensi che il ruolo centrale per contenere e poi per ridurre le dimensioni territoriali e la capacità militare degli islamisti è stato svolto dalle milizie kurde dello YPG e YPJ. Queste infatti prima hanno fermato l’avanzata di Daesh con l’epica resistenza di Kobane e poi hanno guidato un’incessante riconquista dei territori all’interno del più ampio schieramento attuale (lo SDF, le Syrian Democratic Forces) che ha portato alla liberazione di Raqqa e di vaste zone tra Siria e Iraq fino alla situazione attuale. Oggi Daesh controlla un territorio pari all’’1% di quello ottenuto nel momento di massima espansione.
Tutti i principali attori politici del territorio hanno ampiamente goduto dei privilegi offerti dall’opera di contenimento del sedicente stato islamico compiuta dai kurdi. Assad ha visto fermata una minaccia considerevole per il suo potere, l’Iran si è tolto di mezzo un vicino scomodo e pericoloso, la Russia di Putin ha potuto rinsaldare il proprio sostegno ad Assad, gli Stati Uniti hanno potuto fornire supporto logistico e tecnologico ai kurdi, raggiungendo i propri obiettivi senza uno spargimento di sangue che avrebbe avuto un peso notevole e avrebbe determinato contraccolpi interni.
L’unico attore che invece avrebbe preferito il mantenimento nella zona del potere del Califfato è la Turchia di Erdoğan. È stato ampiamente dimostrato quanto Daesh abbia goduto di privilegi, scambi commerciali, coperture politiche ed economiche da parte dello stato turco.
Per Erdoğan la potenza islamica rappresentava infatti una spina nel fianco del suo nemico storico Assad, e al tempo stesso una corda al collo per l’esperienza rivoluzionaria kurda nella Siria del Nord, che il sultano turco vede come potenziale minaccia nel caso riuscisse ad espandersi alle zone a maggioranza kurda del sudest turco.
Proprio la Turchia di Erdoğan, secondo la maggior parte degli analisti, è la chiave per comprendere la decisione americana. Trump ha dichiarato che Daesh è stato sconfitto, ma questa affermazione, che ha sorpreso in molti, non è neppure fondata su dati del ministero della Difesa. In una lunga e dettagliata analisi sul portale indipendente “The Region” si riporta quanto sia parziale questa affermazione, sia perché sono tutt’oggi presenti tra i 20 e i 30 mila miliziani dell’IS nella zona, sia perché si ha l’impressione che il califfato stia mutando la propria strategia di guerra verso tattiche di guerriglia in vaste zone tra Iraq e Siria, rimanendo pertanto una minaccia considerevole per la popolazione della zona. Fonti del Pentagono poche settimane fa dicevano che Daesh è così ben posizionato da potersi ricostituire in fretta.
La decisione di Trump pertanto è arrivata come un fulmine a ciel sereno e ha determinato contraccolpi persino all’interno della sua stessa amministrazione, con il colonnello Manning, capo stampa del Pentagono, che ha voluto provare addirittura a smentire il presidente dicendo: «In questo momento continuiamo a lavorare fianco a fianco con i nostri partner nella regione». Le Syrian Democratic Forces hanno invece emesso un comunicato dicendo che «La guerra contro lo Stato Islamico non è conclusa e pertanto lo Stato Islamico non è stato sconfitto. Qualunque ritiro creerà un vuoto politico e militare nell’area, lasciando le persone negli artigli di potenze ostili».
Per Erdoğan invece la notizia del ritiro statunitense è musica per le proprie orecchie, visto che già a marzo 2018 con l’invasione del cantone kurdo di Afrin aveva dimostrato le proprie mire espansionistiche e il proprio fermo desiderio di smantellare il Confederalismo Democratico del Rojava. Tuttavia la presenza del proprio alleato NATO, gli Usa, ha impedito a Erdoğan di completare il proprio disegno, perché avrebbe implicato un conflitto diretto con gli Stati Uniti in quanto alleati, a livello territoriale, dei kurdi. Non a caso il cantone preso di mira dall’invasione turca è stato solo quello di Afrin, il più isolato, dove non vi era significativa presenza statunitense.
Per la maggior parte dei commentatori alla radice della decisione di Trump vi sono vari fattori. Lo stesso giorno dell’annuncio di Trump gli Stati Uniti hanno concluso con la Turchia la vendita di 80 missili Patriot 60 altri missili e materiale di lancio correlato per un totale di 3,5 miliardi di dollari.
In secondo luogo, la decisione di Trump rinsalda il legame politico tra i due paesi che era stato indebolito in questi anni di alleanza Usa-kurdi, e ulteriormente danneggiato per via del caso Khashoggi (il giornalista saudita ucciso nel consolato dell’Arabia Saudita di Istanbul) nell’ambito del quale l’amministrazione statunitense ha difeso a spada tratta lo storico alleato saudita. In generale si può intuire in questa scelta la volontà dell’amministrazione Usa di disimpegnarsi dal Medioriente lasciando i giochi in mano ad alleati storici sul terreno come Turchia e Israele che si muovono con chiari obiettivi e interessi.
Ma non è tutto, la decisione Usa fa lieti anche altri soggetti. L’Iran vede luce verde alle proprie ambizioni territoriali e strategiche, la Russia rimane ora l’unica grande potenza militare nel territorio, tramite il suo supporto diretto ad Assad, e Assad, ora che ha contenuto le milizie ribelli islamiche può lasciare che il proprio nemico storico (Erdoğan) faccia il lavoro sporco smantellando un potenziale rischio politico per il suo potere, la confederazione plurietnica del Rojava. Come riporta in un articolo “The Guardian”, Arin Sheikmos, giornalista e commentatore kurdo ha detto «Se gli statunitensi si ritirano e ci lasciano ai turchi o al regime siriano, il nostro destino sarà quello dei kurdi iracheni del 1991. Né il regime, né l’Iran, né la Turchia accetteranno la nostra presenza qui».
In tutto questo scenario biecamente opportunista e spregiudicato gli unici a subire le conseguenze sono quindi i kurdi, traditi dagli Stati Uniti, usati quando era utile dalle potenze confinanti, e ora ridotti a merce di scambio al fine di accontentare le mire assassine dello stato turco.
Nel 2014 un’ondata di solidarietà internazionale si era alzata a favore di Kobane, e similmente nella primavera 2018 si è manifestata contro l’invasione di Afrin. È quanto mai urgente e necessario che una simile mobilitazione si attivi presto per non lasciare soli i kurdi e per non lasciar distruggere un’esperienza politica, sociale tra le più avanzate degli ultimi decenni. Un vero e proprio faro di speranza per tutti coloro che nel mondo credono ancora che possa esistere una società più giusta, in cui femminismo, ecologia e partecipazione siano pilastri reali su cui costruire le proprie relazioni e le proprie vite.
di Riccardo Carraro